La quadratura del cuneo

La riduzione del cuneo fiscale può essere effettuata in diversi modi e ogni scelta produrrebbe effetti diversi sulle tre parti in causa (finanza pubblica, lavoratori, imprese). Si tratta di problemi complessi su cui è bene discutere in modo approfondito
Durante la campagna elettorale Prodi avanzò una proposta precisa: riduzione di cinque punti del cuneo fiscale. Col senno del poi non è detto che sia stata una mossa riuscita, visto come la destra è riuscita a mettere sulla graticola fiscale l'Unione. Ma la campagna elettorale è alle nostre spalle, ed ora non c'è dubbio che dal nuovo governo ci si attende che presti fede alla promessa.

Va detto in primo luogo che anche se il cuneo fiscale è costituito dai contributi e dall'irpef, la proposta riguardava i contributi. Ma vi sono almeno tre diverse scelte che devono essere ancora fatte:
1) La prima è quella tra i contributi pensionistici e gli altri.
2) La seconda tra una diminuzione contributiva su tutto il salario o su una parte.
3) La terza tra una diminuzione generale o settoriale, sia in senso proprio che territoriale.

Per quanto riguarda il primo punto è evidente che la maggior parte dei contributi è quella a fini pensionistici; ma vi sono poi quelli per disoccupazione, maternità e malattia, nonché ancora per assegni familiari (cuaf). L'ammontare di questi contributi si diversifica; secondo gli esperti ammontano a 5,8% per gli operai delle costruzioni, 5% per quelli dell'industria, fino a scendere a 2,3% per i dirigenti.

Se la diminuzione dovesse riguardare i contributi pensionistici, il problema che si pone è l'effetto sul sistema introdotto nel 1995, detto anche sistema a "capitalizzazione virtuale". In particolare se l'aliquota di computo rimane al 33%, mentre quella contributiva scende, si apre un buco nel sistema di finanziamento. Di per sé questo significa solo che questo buco va coperto per via fiscale; il problema è però che coloro che hanno salari maggiori ricevono un beneficio pensionistico più alto. In sostanza l'eguaglianza dei rendimenti pensionistici, che è il fondamento logico della riforma  (anche se l'attuazione non è stata perfetta), viene meno.
 
E' stata quindi ipotizzato una modifica del sistema pensionistico con una riduzione sia dell'aliquota contributiva che di quella di computo (lasciando o eliminando quel 0,3% di differenza tra le due) e di introduzione di una pensione che copre un livello di base, finanziata per via fiscale.

Una modifica di questo tipo comporta però un cambiamento di non piccola portata della riforma; praticamente avremmo una quota (che si può stimare pari ad un terzo della pensione per il pensionato medio) calcolata secondo il vecchio sistema  retributivo, ed un'altra secondo il nuovo sistema contributivo. Fare una modifica di questo tipo comporterebbe sicuramente tempi lunghi e defaticanti discussioni.

Se si decidesse invece di operare sui contributi non pensionistici il problema che si porrebbe sarebbe piuttosto quello di riorganizzare il sistema degli ammortizzatori sociali e dell'assistenza e di individuare il finanziamento: se operare tutto per via fiscale o far rimanere una quota contributiva collegata, ad esempio, con l'uso che l'impresa (o comunque il datore di lavoro) fa dei licenziamenti. Il vantaggio comunque di una drastica riduzione dei contributi non pensionistici è che andrebbe a vantaggio in particolare degli operai, ottenendo ad un tempo di avere un effetto progressivo (nel senso di annullare un effetto regressivo sui salari più bassi) ed un effetto pro-competitivo, perché andrebbe a favore dell'industria.

Per quel che riguarda il secondo punto, accanto alla scelta di una riduzione dei contributi (qui ci si riferisce a quelli pensionistici) uguale per tutti, vi è quella di concentrare la riduzione su una prima parte del salario. A titolo di esempio si può supporre una riduzione dell'aliquota dal 32,7% al 19% sui primi 550 euro di remunerazione mensile. Questa tipo di manovra andrebbe chiaramente a vantaggio dei salari più bassi, e contribuirebbe ad attenuare la preferenza per il lavoro precario. Anche in questo caso si creerebbe un buco nel sistema pensionistico che dovrebbe essere finanziato per via fiscale, ma a differenza del caso precedente questa volta la distorsione dei rendimenti pensionistici sarebbe a favore delle remunerazioni più basse.

Vi è infine il terzo punto che riguarda l'ipotesi di interventi settoriali (o anche territoriali). Qui il problema è posto da Bruxelles, perché molto probabilmente un intervento limitato, ad esempio, all'industria, verrebbe considerato dalla Commissione Europea come una diminuzione dei costi di esercizio dell'impresa, e quindi come un aiuto di Stato. Si è sostenuto però che una diminuzione contributiva generalizzata, finanziata con un aumento dell'iva, otterrebbe il risultato di incentivare la competitività delle imprese, così come avveniva quando la lira si svalutava. L'iva infatti non costituisce un costo per le imprese che esportano, le quali quindi si avvantaggiano della diminuzione dei contributi. Negli altri settori, che operano invece per il mercato interno, l'aumento dell'iva sarebbe compensato dalla diminuzione dei contributi, e quindi se le imprese tenessero il margine sui costi (il cosiddetto mark-up) costante non vi sarebbero aumenti di prezzo.

Il problema è però che mentre è plausibile che il settore industriale, sottoposto ad una dura concorrenza internazionale, agirebbe in quel modo, è molto probabile invece che la gran parte dei servizi tenderebbe ad aumentare i profitti, passando pari pari sui prezzi l'aumento dell'iva. In fondo sarebbe una ripetizione di quanto avvenuto con il passaggio all'euro. In una fase in cui vi è un surriscaldamento dei prezzi per via del petrolio e delle altre materie prime i rischi di avere impennate sull'inflazione sarebbero seri.

In conclusione, questa breve panoramica evidenzia che dietro uno slogan apparentemente semplice si nascondono una serie non banale di questioni di un certo rilievo; su di esse è bene che ci sia una riflessione approfondita.         
Lunedì, 15. Maggio 2006
 

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