Il Far West della contrattazione

Pietro Ichino ripropone di abolire il livello nazionale. Ma dove il salario minimo non è contrattato, è fissato per legge, come in Francia e Regno Unito. E comunque l'esperienza di paesi dove i contratti nazionali non esistono è fortemente negativa
Il negoziato per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, tradizionalmente il più importante del settore privato e in passato il contratto pilota per tutta l'industria,
si trascina da molti mesi senza uno sbocco. Pietro Ichino, giuirista del lavoro e editorialista del "Corriere della Sera", indica una soluzione radicale ("Il circolo vizioso che blocca i contratti", 15 gennaio,2005). Quale? La pura e semplice soppressione del contratto nazionale di categoria. La proposta non è nuova. Da tempo Ichino propone la riforma del sistema contrattuale italiano col passaggio dalla contrattazione nazionale alla contrattazione aziendale (e a quella territoriale, per le aziende di dimensioni minori). 
 
E' un'idea non solo ricorrente nel dibattito italiano, ma anche sperimentata in alcuni grandi paesi industriali come il Giappone e gli stati Uniti. Quali insegnamenti se ne possono trarre? In Giappone, dove pure esistono sindacati con un peso rilevante, l'esito è una profonda rottura fra i lavoratori delle grandi imprese, che godono si alti salari e di un'elevata tutela del posto del lavoro, e una grande massa di lavoratori esclusa dalla contrattazione.
 
Ma l'esempio a noi più vicino e illuminante è, senza dubbio, quello americano. Il declino della grande impresa manifatturiera, l'ampliamento del settore dei servizi che copre ormai l'80 per cento del lavoro dipendente, e il proliferare del lavoro discontinuo hanno messo irrimediabilmente in crisi la presenza dei sindacati nei luoghi di lavoro. L'esempio più noto nella pubblicistica americana è quello della Wal-Mart, la famosa catena di distribuzione, che è anche la più grande impresa americana, con un milione  e trecentomila dipendenti. Wal-Mart è riuscita finora, non ostante tutti gli sforzi del sindacalismo americano, a impedire la costituzione di un sindacato aziendale.
 
La conseguenza è che, in mancanza di un contratto collettivo di categoria, i suoi lavoratori sono privi di un contratto collettivo. I salari pagati dall'azienda sono talmente bassi che, paradossalmente, è stata la stessa Wal-Mart  a chiedere al governo  un aumento del salario minimo legale (da molti anni fermo a 5,15 dollari). Ma al di  là del salario, l'aspetto che più indigna una parte dell'opinione pubblica americana è l'esercizio arbitrario dei rapporti di lavoro, l'assenza di tutele, la privazione per la metà dei lavoratori dell'assistenza sanitaria che negli Stati Uniti è affidata alla contrattazione fra impresa e sindacato.
 
Ma Wal-Mart è solo la punta, particolarmente vistosa, dell'iceberg. La contrattazione, centrata storicamente sull'azienda, non è più in grado di garantire le condizioni di lavoro e di vita della grande maggioranza dei lavoratori americani. Quello che era il sindacato più forte del mondo oggi rappresenta solo il 14 per cento dei lavoratori americani, e solo l'8 per cento nel settore privato. Tra gli esiti di questo modello c'è l'espansione della categoria dei "working poor" - alcune decine di milioni di lavoratori che rimangono al di sotto o prossimi alla soglia della  povertà.
 
Ma, secondo Ichino, la contrattazione nazionale è in contraddizione con la pluralità degli assetti organizzativi dell'impresa e le diverse forme di partecipazione al lavoro. In effetti, questa pluralità e variabilità di condizioni è sempre esistita. Ma è appunto questa la funzione del contratto nazionale: fissare livelli salariali minimi di qualifica e una rete comune di norme relative alla tutela del lavoratore. Questo non significa metter in ombra le differenze, tecnologiche, organizzative, territoriali, di mercato relative alle singole imprese. Non a caso, il modello contrattuale italiano prevede una contrattazione aziendale diretta a integrare e adeguare le norme generali alle condizioni aziendali specifiche ( forme d'integrazione salariale, flessibilità degli orari, turnazioni, ritmi, controllo dell'ambiente, formazione, etc.).
 
Tra gli argomenti portati dai fautori della soppressione formale o sostanziale del contratto nazionale, vi è anche l'argomento del divario fra Nord e Sud. La soppressione del contratto nazionale (o una sua sostanziale disarticolazione) consentirebbe una differenziazione territoriale dei trattamenti salariali. E' un argomento insidioso, ma sostanzialmente infondato per almeno due ragioni.
 
La prima è che i salari fissati nel contratto nazionale definiscono i minimi per ciascuna categoria professionale, ma diversi sono i salari medi di fatto fra Nord e Sud. Se si escludono le grandi imprese, i salari di fatto sono consistentemente più bassi al sud, dove è ovviamente di scarso peso, quando non del tutto inesistente, l'integrazione dei minimi salariali fissati dal contratto nazionale.
 
La seconda ragione è che nei paesi dove non si pratica una contrattazione nazionale, come è il caso, in Europa, della Gran Bretagna e della Francia, non si rinuncia a un livello minimo e universale di salario, fissando per legge il salario minimo legale. Si sancisce, in altri termini, per legge, ciò che nei fatti si stabilisce in Italia attraverso i diversi contratti nazionali di categoria. E vale la pena di aggiungere che nei paesi europei, dove il salario minimo è stabilito per legge, il suo livello è generalmente superiore a quello fissato contrattualmente in Italia per le qualifiche di base.
 
L'assetto contrattuale italiano, basato su due fondamentali livelli contrattuali, è quello verso il quale si sono orientati in questi anni le relazioni industriali della maggior parte dei paesi europei. In Germania, i contratti di settore con una dimensione nazionale sono alla base delle relazioni industriali, mentre la negoziazione aziendale copre sempre di più, soprattutto nelle grandi imprese, gli aspetti relativi alla flessibilità degli orari  di lavoro, alla parte aziendale del salario e alla garanzia dei livelli occupazionali. Nell'insieme, i salari e il costo del lavoro in Germania sono di almeno un terzo più alti della media italiana. Ma né la contrattazione settoriale, né l'elevatezza dei salari impediscono alla Germania di conservare l'industria manifatturiera più competitiva al mondo insieme con un permanente e gigantesco avanzo della bilancia commerciale.
 
In sostanza, la lezione che Ichino si ostina a impartire ai sindacati italiani riflette quell'impostazione ideologica che tende ad affidare al mercato la regolazione dei rapporti di lavoro. Ma al di là dell'ideologia neoliberista, che ne è alla base, non offre nessuna soluzione ai problemi che gravano su sindacati e imprese - la parte più sana delle quali aborrisce l'idea di un far west delle relazioni industriali. L'evidenza delle esperienze che conosciamo dimostra, come abbiamo visto, in modo inoppugnabile, che la ricetta basata sulla destrutturazione della contrattazione nazionale può solo moltiplicare i fattori di frantumazione sociale, d'insicurezza individuale, e, in definitiva, di declino del paese.
Martedì, 17. Gennaio 2006
 

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