La leggenda dei Fondi pensione

Versamento obbligatorio del Tfr, rendimenti, sviluppo del mercato finanziario: si raccontano molte storie in proposito. Tutti sanno come stanno le cose, ma pochi lo dicono
La legge delega sulla previdenza in discussione alla Camera prevede tra l’altro la destinazione obbligatoria del Tfr ai Fondi pensione. Nel dibattito su questo argomento, come in tutti quelli che si trascinano a lungo, ci sono però alcuni luoghi comuni che, pur contraddetti da fatti che tutti conoscono, continuano impavidamente a resistere anche nelle perorazioni di noti economisti.
I Fondi pensione faranno sviluppare il nostro sistema finanziario. Se con questo si intende un sistema con più liquidità, più spessore e più investitori a lungo termine, tutto ciò è vero, ma solo nel lungo periodo, anche se verrà usato il Tfr. Basta fare un po’ di conti. Il flusso annuo dei versamenti per il Tfr è di circa 15 miliardi di euro. Quanto si trasformerà in investimenti in azioni? I Fondi pensione debbono mantenersi prudenti, quindi si può ipotizzare non più di un terzo: 5 miliardi. Ma la Borsa italiana pesa, sul totale della capitalizzazione mondiale, per circa il 2,5%, e tanto i Fondi dovrebbero investirvi se vogliono applicare una corretta diversificazione del rischio. Siccome qualsiasi investitore sovrappesa i titoli del proprio paese, sui quali – teoricamente – dispone di migliori informazioni, quadruplichiamo questa percentuale, arrivando al 10: siamo a 500 milioni di euro l’anno, 1000 miliardi di lire. Hai voglia, prima di poter fare massa critica. E se sovrappesassimo non di quattro volte, ma di otto, il discorso non cambierebbe molto.
 
Quindi, i Fondi pensione diventeranno importanti investitori istituzionali e faranno crescere il sistema finanziario italiano, ma non in un futuro prossimo: ci vorranno probabilmente non meno di una ventina d’anni, perciò sbaglierebbe chi pensasse di poter prendere provvedimenti che producano effetti in poco tempo.
Tra l’altro, far crescere i Fondi significa far aumentare la domanda di azioni, ma non si vede nulla allo studio per far aumentare anche l’offerta: oggi non c’è una grande convenienza per le società a quotarsi. Senza provvedimenti in questo senso, si potrebbe provocare un aumento non giustificato delle poche azioni quotate (o, in alternativa, spingere i Fondi a investire ancor di più all’estero, per carenza di “materia prima”).
 
I Fondi pensione ridurranno la dipendenza dalle banche delle imprese e premieranno le più efficienti. Questo è assai dubbio, per usare un eufemismo. Ricordiamo la premessa. Gli accantonamenti per il Tfr equivalgono per le imprese a un finanziamento a costo zero. Un finanziamento – come osservava anche un economista di valore come Nino Andreatta – non selettivo, che dunque “premia” le imprese non efficienti aiutandole a sopravvivere. Se invece quello stesso finanziamento passasse attraverso il mercato (come avverrebbe se a decidere fossero soggetti come i Fondi pensione), solo le più meritevoli lo otterrebbero e anzi potrebbero avere più mezzi.
Ora, dell’investimento in imprese quotate si è detto. Escludendo che i Fondi pensione possano comportarsi da merchant bank, che è un mestiere assai diverso e molto rischioso, il finanziamento alle imprese non quotate potrebbe avvenire solo attraverso la sottoscrizione di obbligazioni da queste emesse. Una cosa che le imprese italiane, teoricamente, potrebbero fare anche ora, visto che siamo in una fase in cui la liquidità non manca e i grandi investitori sono alla spasmodica ricerca di buoni impieghi. Se non lo fanno, non è perché mancano i Fondi pensione, ma perché (tranne una infinitesima percentuale) sono troppo piccole per proporre emissioni che interessino al mercato, cioè con un rating non speculativo e per un importo che non le renda illiquide (si vedano in proposito gli articoli di Francesco Giavazzi e di Lorenzo Stanca sul “Sole 24 Ore” del 31/1 e del 5/2/03). Di obbligazioni senza rating, specie dopo il caso Cirio, nessuno ne vuol più sapere.
 
Qualcuno potrebbe obiettare che i Fondi pensione potrebbero fare proprio ciò che oggi il mercato non fa, ossia sottoscrivere quel tipo di obbligazioni. Ma sarebbe un’obiezione pericolosa, perché questi Fondi devono assumersi meno rischi degli altri tipi di investitori, e non prendere rischi che gli altri non vogliono correre.
Tiriamo le conclusioni. Oggi il Tfr finanzia tutte le imprese italiane; una volta trasferito ai Fondi pensione, finanzierà in piccola parte quelle quotate e, per via obbligazionaria, solo un piccolo numero delle più grandi, ossia tutte quelle imprese che già oggi non hanno problemi a sfruttare le varie possibilità dei mercati finanziari.
 
I Fondi pensione rendono più del Tfr. E’ statisticamente probabile, ma non certo, mentre è statisticamente sicuro che per un certo numero di lavoratori accadrà il contrario: un numero piccolo, probabilmente, ma questo si saprà solo a posteriori.
Il rendimento del Tfr è modesto, dato che viene rivalutato ogni anno con il 75% dell’inflazione più l’1,5%. Questo significa che il Tfr aumenta in termini reali solo se il tasso d’inflazione è basso; il rendimento si azzera con un’inflazione al 6% e diventa negativo con una dinamica dei prezzi superiore. Non sembrerebbe dunque difficilissimo, sul lungo periodo, fare di meglio.
 
Il Tfr, però, è modesto ma sicuro: consolida i risultati, ossia non scende mai di valore in termini nominali. Il capitale accumulato nei Fondi pensione, invece, può diminuire. Secondo un recente studio della London Business School negli ultimi tre anni è sceso in media del 17% all’anno. Questo è un periodo particolare e non bisogna generalizzare, così come non si sarebbe dovuto – ma molti lo hanno fatto – durante la lunga fase di rialzo precedente. Ma è un fatto che quei lavoratori che avessero maturato l’età della pensione proprio ora avrebbero avuto un forte svantaggio rispetto a quanto sarebbe accaduto raggiungendo i requisiti tre anni prima. Lo studio (che ha preso in esame i risultati delle Borse dal 1900 ad oggi) ha anche dimostrato che non è vero che nel lungo termine (cioè in un arco di oltre vent’anni) il risultato di un investimento azionario è sempre positivo: di solito è così, ma a volte non accade. Inoltre bisogna considerare altri due aspetti: il primo è che l’analisi non poteva che considerare gli indici globali delle Borse, mentre nella realtà bisogna fare i conti anche con la capacità dei gestori di conseguire buone performance (e l’esperienza dei Fondi comuni ci dice che non sono molti quelli che riescono a battere il benchmark); il secondo è che le statistiche guardano comunque a ciò che è accaduto in passato, e dunque non è detto che possano prevedere correttamente un futuro in cui le condizioni dei mercati sono notevolmente diverse.
 
Tutto questo vuol dire che i Fondi pensione sono poco affidabili? Niente affatto. Solo che rispondono alla legge generale degli investimenti secondo cui il potenziale rendimento è inversamente proporzionale al rischio. E’ probabile che ci si guadagni più che con il Tfr, ma c’è anche un maggior rischio. E ci sarà anche un certo numero di sfortunati che finirà per rimetterci.
 
Sia chiaro, per ciò che sappiamo finora le opportunità sono maggiori dei rischi. Ciò nonostante, sarebbe opportuno lasciare alla scelta individuale la libertà di rinunciare al Tfr per i Fondi.
 
In realtà, riguardo ai Fondi pensione, c’è solo un grosso rischio. Ossia che si guardi più ai loro effetti “derivati” che al loro compito istituzionale, che è quello di costituire una pensione complementare per i lavoratori (complementare, cioè che si aggiunga a una pensione pubblica già in grado di garantire una sopravvivenza decente: solo per questo diventa accettabile il maggior grado di rischio rispetto alla previdenza obbligatoria). In questi anni se ne sono sentite di tutti i colori. C’è chi ha sostenuto che i Fondi pensione si debbano finanziare le grandi opere pubbliche, come il mitico Ponte sullo Stretto. Chi che debbano avere un vincolo di portafoglio, che siano cioè obbligati a sottoscrivere con una parte del patrimonio speciali obbligazioni destinate a finanziare progetti ritenuti “strategici”. Chi ritiene che debbano sostituire completamente la previdenza pubblica a ripartizione. Chi ne vuole uno sviluppo il più possibile rapido per migliorare il sistema finanziario, e persino chi pensa che possano essere uno strumento per avere voce in capitolo nelle grandi imprese.
 
Quanto agli investimenti, se i Fondi pensione dovessero fare qualcosa che gli altri operatori del mercato non fanno vorrebbe dire che sbagliano, perché è un cattivo affare. Questi strumenti devono servire ad aumentare lo spessore e il volume del mercato finanziario, non a fare cose diverse. E un tale obiettivo si raggiunge solo nel lungo periodo, purtroppo non ci sono scorciatoie.
 
Un modo semplice per far aumentare le adesioni ai Fondi pensione ci sarebbe. Basterebbe che l’Inps, una volta l’anno, mandasse ai lavoratori un conteggio della loro futura pensione, in euro attuali, in base a semplici e prudenti ipotesi di sviluppo delle variabili economiche (Pil, dinamica retributiva, età di pensionamento, ecc.). Nessuno, oggi, ha idea di quanto gli spetterà quando smetterà di lavorare e l’integrazione dei contributi obbligatori avviene quindi “alla cieca”. Il risultato è che le adesioni più basse ai Fondi pensione sono fra i giovani (per i quali la fine della carriera si colloca in un futuro indistinto) e fra i redditi meno alti, cioè tra coloro che già faticano ad arrivare alla fine del mese, ma anche che avranno un vitalizio più misero. Avere un’ipotesi credibile di quanto si prenderà dalla previdenza obbligatoria potrebbe spingere molti di costoro ad aderire a quella complementare, sempre che abbiano un impiego abbastanza regolare e un reddito sufficiente.
Giovedì, 13. Febbraio 2003
 

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