Il venerdì 13 dei conti pubblici

Sarà per il giorno che non porta bene, ma le stime su Pil e inflazione rese note in quella data rendono già problematici gli obiettivi indicati dal governo: è praticamente certo che il rapporto debito/Pil non scenderà neanche quest'anno e che la crescita sarà inferiore alle previsioni. Intanto incombono le clausole di salvaguardia e il giudizio della Commissione Ue

Come già è avvenuto lo scorso novembre, anche questo mese di maggio ha visto coincidere il rilascio da parte dell'Istat delle stime preliminari del Pil trimestrale con un venerdì 13. Non porta bene. Allora le stime del terzo trimestre, pubblicate nel corso della discussione parlamentare sulla legge di stabilità del 2016, avevano gelato le aspettative ottimistiche del mondo renziano e costretto a fare i conti con una prospettiva grigia appena al di sopra della stagnazione.

Mentre l'inizio dell'anno aveva alimentato qualche speranza (il primo trimestre lasciava intravedere una ripresa) nel prosieguo l'economia si era pian piano afflosciata e a quel punto del 2015 era chiaro che sarebbe rimasta nel limbo di una crescita “zerovirgola”. Ci si doveva consolare con l'aumento dell'occupazione (che sembrava potesse toccare le 200.000 unità) ma nessuno poteva scommettere sulla solidità di quel dato, drogato dal generoso bonus assunzioni che dal 2016 sarebbe stato necessariamente ridimensionato.

Diciamo pure che per il titolare di Palazzo Chigi ci sarebbe voluto ben più di qualche dato negativo, considerato alla stregua di una doccetta fredda, per convincere della necessità di un cambio di rotta. La legge di stabilità ha mantenuto la sua impronta, appena sfrondata di qualche eccesso, ma il senso di marcia politico è rimasto inalterato.

In particolare, è proseguita senza ripensamenti la politica di deficit spending orientata non a rimettere in moto la crescita ma a rinsaldare le basi di consenso nel ceto medio. Imperniata su benefit monetari, dagli effetti scarsi o nulli sia sulla propensione ad investire sia sulla propensione al consumo finale. “Moneta dall'elicottero”, direbbero i Bocconiani amati da Renzi. Moneta destinata però a finire non in tutte le tasche ma in quelle di una parte degli elettori: per intenderci, un elicottero che sorvola solo certi quartieri e lascia a secco gli altri.

Per farlo, senza mettersi fuori dal campo di regole dettato dall'Europa a trazione tedesca, occorreva però una certa spregiudicatezza. Qualche capitoletto di spesa che desse l'idea di interventi mirati alla crescita e, soprattutto, un quadro di previsioni macro-econonomiche al limite delle “luci rosse”, nel senso dell'oltraggio al comune senso del pudore.

Già prima che uscissero quei dati il ministro Padoan aveva dovuto predisporre, all'inizio di aprile, un Documento di Economia e Finanza in cui le previsioni a luci rosse dell'inverno venivano corrette per apparire meno fantasiose. La crescita reale veniva ridimensionata all'1,2% dall'1,6% su cui era stato costruito il quadro di riferimento per la Legge di stabilità e la crescita nominale (ai prezzi correnti, anziché a prezzi stabili, quindi tenendo conto dell'inflazione) al 2,2%.

Si consideri che la crescita nominale è molto importante ai fini del rapporto debito/Pil, perché l'andamento del debito è legato ai tassi di interesse, stabiliti in buona parte in percentuali fisse. Come sa chiunque debba pagare un mutuo, il tasso fisso è conveniente se l'inflazione galoppa, mentre avviene il contrario quando i prezzi sono stabili. Funziona allo stesso modo per il debito dello Stato. La scommessa della legge di stabilità e poi del Def era quella che gli sforzi di Draghi per far ripartire un po' di inflazione, verso l'obiettivo del 2%, potessero avere successo. In questo modo, pur rivedendo al ribasso le stime della Legge di stabilità, il Def di aprile riusciva nell'impresa di far risultare ancora un calo (infinitesimo, ma pur sempre un calo) del rapporto tra il debito e il Pil (a prezzi correnti) pur con una crescita reale più bassa.

Su questo quadro, rivisto al ribasso ma magicamente tenuto appena sopra l'orlo del baratro (cioè, di una ulteriore crescita del debito), è arrivato il colpo del secondo venerdì 13. Le stime preliminari del Pil, l'andamento dei prezzi e l'ammontare del debito pubblico.

Comunica l'Istat che il Pil cresce dello 0,3% nel primo trimestre rispetto all'ultimo del 2015 e che i prezzi in aprile calano di un altro 0,1% su marzo facendo segnare un -0,5% sull'anno precedente.

Tutto qui? Potreste pensare (per non passare per gufi) che non sia il caso di spaventarsi per così poco. Il problema è che se l'economia tenesse questo passo (che segna comunque un miglioramento rispetto ai dati degli ultimi tre trimestri) senza rallentamenti fino alla fine dell'anno, il risultato finale sarebbe un +1% netto. Che corrisponde peraltro alle previsioni di tutte le istituzioni internazionali, accolte con un'alzata di spalle dal duo Renzi-Padoan.  E che appare del tutto illusoria l'idea che l'inflazione possa balzare talmente in alto da raggiungere (sulla media dell'intero anno) l'1%. Diciamo, per non insistere troppo, che l'aumento nominale del 2,2% non sta né in cielo né in terra.

Di conseguenza, addio diminuzione del rapporto debito/PIL. Con il corollario (il terzo messaggio del venerdì 13, proveniente dalla Banca d'Italia) di un debito che a marzo 2016 tocca la cifra record, in assoluto, di 2.228,7 miliardi di euro.

È presto per ipotizzare quali conseguenze potranno avere queste novità sul rapporto tra il governo italiano e la Commissione Ue. Prima di chiudere questa puntata è bene però anticipare una considerazione. Tra il secondo semestre 2016 e l'inizio del 2017 sono pronte a scattare le clausole di salvaguardia che sono già iscritte nella nostra legislazione e calcolate nell'andamento tendenziale dell'economia e che consistono in aumenti dell'Iva e delle accise, che avrebbero il duplice effetto di rimpinguare le entrate fiscali (imposte indirette), deprimendo però ulteriormente i consumi, e di far crescere i prezzi (l'inflazione). Diciamo che migliorerebbero i conti dello Stato ma peggiorerebbero, assai, i conti dei cittadini (di quelli più svantaggiati, più che altro). In tutti i documenti ufficiali del ministero dell'Economia, ancora nell'ultimo Def, il quadro programmatico non contempla queste misure (è presentato quindi in termini diversi dal quadro tendenziale) perché si prevedono interventi alternativi in grado di ottenere gli stessi effetti senza deprimere i consumi e la crescita. Quegli interventi tuttavia sono promessi ma non descritti. Sono lasciati nel vago.

Non solo, ma a queste vaghe promesse se ne affiancano altre, che servono per le elezioni amministrative e, ancor più, per il passaggio referendario sulla riforma costituzionale, senz'altro meno vaghe (anticipo dell'età di pensionamento, abbassamento delle aliquote fiscali per i redditi medi e alti, senza dimenticare le vecchie promesse su Ires e reddito di inserimento). Non per questo più credibili (oltre che inequivocabilmente di destra).

Ecco, senza voler azzardare previsioni, una conclusione si può trarre, a prova di smentita. L'ora delle scelte è ormai molto vicina.

La politica delle promesse paga, ma solo a tempo determinato. L'abilità di chi gioca a questo gioco sta nell'allungare i tempi. Ma chi ha coltivato l'illusione di poterli allungare indefinitamente ha sempre pagato un prezzo molto alto alla (inesorabile) scadenza.

Domenica, 15. Maggio 2016
 

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