Guardo a sinistra e vedo triplo

C'è la sinistra ancora nel Pd, che non vuole accettare che quel partito è ormai perso a una prospettiva progressista. E poi ci sono la neonata Sinistra italiana e Possibile, che costituiscono gruppi parlamentari separati. Eppure i motivi di dissenso non sembrano determinanti. Ricomporli sarà la prima prova che si fa sul serio

Sinistra italiana, sinistra civatiana, sinistra giapponese. Non è vero che in Italia la sinistra è scomparsa, il problema è che ce ne sono troppe. La prima è quella che ha dato inizio a una "fase costituente" per un nuovo partito, e il suo manifesto è stato sottoscritto da sei sigle (oltre a Sergio Cofferati e Andrea Ranieri): Sel, Prc, L'altra Europa con Tsipras, Futuro a Sinistra (l’associazione di Stefano Fassina), Act, Possibile. Quest'ultima, però - quella guidata da Pippo Civati - mostra di voler mantenere una sua autonomia, con i suoi parlamentari che non aderiranno ai gruppi che Sinistra italiana sta costituendo in Senato e Camera e forse con candidati propri alle prossime amministrative. E infine c'è la "sinistra giapponese", cioè di coloro che vogliono continuare a combattere all'interno del Pd e ad uscirne non ci pensano proprio, come ha chiarito definitivamente Pier Luigi Bersani nella sua ultima intervista. Che cosa impedisce una Syriza all'italiana, che farebbe aumentare le possibilità di tornare ad avere un partito di sinistra con una massa critica sufficiente a contare davvero?

Cominciamo dalla fine. Bersani ha spiegato perché ritiene sbagliata l'uscita dal Pd. Senza Pd, ha detto, una prospettiva di centro sinistra semplicemente non esiste. Quindi non c'è altra via che tentare di riportare il partito su una linea progressista, e questo non si fa abbandonandolo. Bene, ma quanto è realistica questa prospettiva? Beh, nel Labour per esempio è andata così, Jeremy Corbin ne è sicuramente una testimonianza. Certo, c'è voluto un po' di tempo: vent'anni, più o meno, e due sconfitte elettorali. Si può dire che non sembra una prospettiva entusiasmante? Inoltre, pur se tra alti e bassi, là non si è mai interrotto il legame con i sindacati, che nel partito hanno sempre contato. Il Pd di Renzi con i sindacati non solo è in conflitto (in particolare con la Cgil, cioè quello per cui "sinistra" non è ancora una parola sconcia; e non parliamo nemmeno della Fiom): li vuole distruggere, o almeno ridurli all'impotenza. Questo Pd con la sinistra non c'entra più nulla, e nemmeno col centro sinistra. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, nemmeno con il centro, che peraltro è una definizione che ha perso significato da quando la destra fascista è tramontata. Restarci dentro è fare appunto come quei giapponesi che non volevano capire che la guerra era finita, e loro l'avevano perduta. E si fa un doppio danno, perché si indebolisce la sinistra vera e si offre una copertura a un partito ormai su tutt'altre posizioni.

Che il Pd sia ormai irrecuperabile a una linea progressista non dipende dal fatto che abbia vinto una componente interna rispetto ad un'altra. Chi non ne è convinto dovrebbe leggere l'ultimo libro di Michele Prospero, che ricapitola la lunga marcia "dalla Bolognina alla Leopolda". Dopo la caduta del Muro, quello che fu il Pci ha iniziato una trasformazione culturale e di valori di cui la situazione attuale non è una conseguenza anomala, ma l'esito naturale. Anomala, in questa vicenda, è stata semmai la segreteria Bersani, che infatti è stata rapidamente cancellata. La conferma di questa analisi è la rapida e praticamente completa conquista del partito da parte della destra neoliberista di Renzi. La "sinistra giapponese" farebbe bene a prenderne atto.

Come ne hanno preso atto le altre due sinistre, quella di Civati, che è stato il primo a trarne le conseguenze, e quella a cui hanno aderito gli altri usciti in seguito dal Pd. Ma adesso, perché la loro convergenza in un unico progetto appare ancora problematica?

Che ci possano essere anche problemi di personalismi è quantomeno probabile, ma se ci sono li lasciamo al senso di responsabilità politica di ognuno. La questione politica attuale, esplicitamente dichiarata, riguarda invece la strategia da seguire nei rapporti con il Pd, riguardo ai quali le scelte per le prossime elezioni amministrative costituiscono un primo e importante banco di prova.

Una nota in proposito sul sito di Possibile invita a "chiarire le ambiguità" che emergerebbero "se si manifesta l’esplicita volontà di ricercare un accordo con il Partito Democratico in base a valutazioni di pura convenienza. Rischiando di trovarsi nella paradossale condizione per cui contestualmente a una campagna elettorale condotta assieme al Pd per le amministrative ci si scontrerebbe con quest’ultimo sulla campagna referendaria, su temi riguardanti la democrazia e la libertà nel nostro paese". Con le dichiarazioni fatte all'assemblea del 7 novembre al Quirino a Roma gli esponenti di Sinistra italiana hanno risposto a questa richiesta di chiarimento. Ci saranno liste alternative al Pd a Roma come a Napoli, a Torino come a Bologna, insomma quasi ovunque. I casi di accordi col Pd sarebbero due. Uno praticamente certo, Cagliari, dove il sindaco Massimo Zedda (Sel), che era stato eletto con l'appoggio di una coalizione Pd-sinistra, si ricandida con lo stesso sostegno. E uno assai controverso, Milano.

E' quest'ultimo il vero problema, perché sembra davvero difficile considerare il caso di Cagliari niente più che un'eccezione generata da una situazione particolare. A Milano, come si sa, il sindaco Giuliano Pisapia, che era il candidato di Sel, ha deciso di non ripresentarsi. Al momento candidati alle primarie sono Pierfrancesco Majorino (Pd, ma appoggiato da Sel) ed Emanuele Fiano (Pd, renziano). I membri della coalizione hanno appena sottoscritto un patto che li impegna ad appoggiare fedelmente chiunque esca vincitore dalle primarie, e qui cominciano i guai. Perché non è detto che i candidati siano solo quelli, e anzi è stranoto, anche se non ufficializzato, che Renzi vuole che dalle primarie arrivi un'investitura per Giuseppe Sala, l'ex commissario dell'Expo.  Uno che ha lavorato in Pirelli, Telecom, Nomura, e che probabilmente è un bravo manager (ma dev'essere questo il profilo di un sindaco?...), ma con la sinistra, e persino con il centro sinistra, c'entra come i cavoli a merenda. Insomma, un classico colpo alla Renzi: non importa che il gatto sia rosso o azzurro, basta che acchiappi i voti. Ma la sinistra-sinistra può chiedere i voti per un sindaco del genere, in una città importante come Millano?

A chiederlo agli esponenti del nuovo partito si ottengono facce scure e risposte di malavoglia. "Quel patto vale nella situazione attuale", dicono Nicola Fratoianni e Giulio Marcon. "Se qualcosa cambia si ridiscute tutto". A forza di chiedere qua e là, si viene a sapere che il patto è un'iniziativa dei milanesi, e che a livello centrale non ne sono felici, anzi parecchio contrariati. Un altro esponente di spicco del nuovo partito arriva a dire che sì, forse i milanesi arriverebbero a dare l'indicazione di voto per Sala, ma in questo caso ci sarebbe una rottura: "Significherebbe che un pezzo di Sel se ne va".

Questo è al momento il garbuglio milanese, naturalmente suscettibile di cambiamenti. E' un motivo sufficiente ad alimentare i sospetti di "intendenza con l'avversario" (il Pd)? Certo, poi ci sono anche i problemi che nascono dalla scelta dei candidati nelle varie città. Ma quelle, in qualsiasi partito, sono difficoltà normali e inevitabili, che non hanno - o almeno non dovrebbero avere - una dimensione politica tale da generare rotture.

Certo, non bisogna neanche esagerare nel drammatizzare la situazione attuale. I due gruppi in fin dei conti hanno sottoscritto un manifesto comune, dove si dice: "Sappiamo perfettamente che non è sufficiente unire quel che c’è a sinistra del Partito Democratico, o autoproclamarsi alternativi, per costruire un progetto all'altezza della sfida, davvero in grado di cambiare la vita delle persone. Ma siamo altrettanto convinte/i che senza questa unità il processo nascerebbe parziale, o non nascerebbe affatto. Per questo noi questa sfida la lanciamo oggi. Insieme". E con lo stesso documento si convoca a dicembre la prima assemblea nazionale. Ad oggi, dunque, sarebbe prematuro affermare che l'attuale separazione sia definitiva, anche perché non ci sono - o quantomeno non sono emerse - differenze di fondo sulle posizioni politiche. C'è da sperare che il problema delle amministrative venga ricondotto alla sua dimensione effettiva, cioè non una diversificazione strategica, ma una questione circoscritta a situazioni particolari. E che i dissidi, inevitabili nella vita di qualsiasi partito ma oggi particolarmente delicati perché nella fase della sua costituzione, vengano superati. Servirà buona volontà dall'una e dall'altra parte, ma se non ci fosse vorrebbe dire che stiamo assistendo a un'altra iniziativa che nasce col fiato corto. Sarebbe davvero un grande spreco.

Lunedì, 9. Novembre 2015
 

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