L'unità può partire dall'azienda

Non si può che concordare con lo stimolante intervento di Carniti, a cui si può aggiungere una ulteriore proposta: tornare alle sole Rappresentanze sindacali unitarie (Rsu), che potrebbero proporre liste uniche e inserire anche i dipendenti "mascherati" da lavoratori autonomi

Acuto e stimolante come al solito, Pierre Carniti ha preso di petto, forte dell'autorità che gli va riconosciuta in questo campo, la questione sindacale. E l'ha squadernata, per come la vede, ai diretti interessati, i sindacalisti delle grandi confederazioni. Permettendosi anche il lusso, che pochi possono permettersi al pari di lui, di dare qualche suggerimento sotto forma di proposte concrete.

Arriveranno a destinazione? Appariranno convincenti? Visti i precedenti non ne sarei sicuro. E sì che il punto da cui parte (il declino dei sindacati trova riscontro in dati oggettivi ma “nulla autorizza a ritenere che sia ineluttabile”) dovrebbe essere accattivante, in un panorama in cui invece si dà per scontata anche nel maggiore partito di quella che dovrebbe essere la sinistra, o soprattutto in quello, la sua eclissi definitiva.

Vedremo. C'è da dire che delle due misure indispensabili, secondo Carniti, per invertire la tendenza al declino, la prima la considera lui stesso più facile a dirsi che a farsi: rendere il sindacato più inclusivo, più capace di rappresentare i giovani e i precari, che più degli altri, tutte le indagini lo confermano, lo stanno abbandonando. Per riuscirci occorre escogitare (impiegando “creatività e risorse” in modo adeguato) nuove forme di iniziativa e di tutela dovendo fare i conti con un mondo del lavoro che sfugge alle modalità di impiego su cui il sindacato si è tradizionalmente cimentato.

La sua attenzione si concentra dunque sulla seconda delle due, che per Carniti consiste nel riuscire a conciliare il perseguimento degli obiettivi generali di “equità sociale” (che chiamano in causa la capacità di incidere sulle scelte politiche che si compiono nelle istituzioni rappresentative a tutti i livelli, Europa compresa), con una “puntuale tutela del lavoro e della sua remunerazione”.

Senza nulla togliere alla ricchezza della sua riflessione e delle sue argomentazioni, vorrei introdurre un “addendum” alla sua conclusione, che mi limito a riassumere. Contiene un doppio invito: a rivedere i contenuti dell'accordo del '93 per tenere conto delle differenze tra settori protetti e esposti (alla concorrenza internazionale) e tra lavoratori coperti e non dalla contrattazione. E a riconsiderare tutta la recente storia sindacale per tornare a porre all'ordine del giorno la questione dell'unità.

“Non basta che il pluralismo sindacale riesca comunque a trovare, di tanto in tanto, punti di approdo unitario” sostiene. Né si possono richiamare (strumentalmente, come comodo alibi) i precedenti insuccessi (di tentativi che risalgono a un'altra era geologica, prima del Muro). O le “differenze sulle politiche”, che sempre sono esistite, tra le organizzazioni così come (non in misura minore) al loro interno. Anzi, dovranno essere proprio quelle differenze la materia su cui esercitare la democrazia unitaria al fine di metterle insieme e farle diventare “una volontà collettiva unica, più alta e più coesa rispetto alla incapacità delle singole organizzazioni di affrontare i problemi pubblici”. È dunque, in definitiva, un problema di regole (di democrazia) da individuare e condividere per arrivare a “decidere assieme”. Magari passando inizialmente per un uso più ampio, in funzione di garanzia, del ricorso a maggioranze qualificate.

Bene, del tutto condivisibile a mio modesto avviso. L'aggiunta, coerente con questa prospettiva, che mi sembra possa avere il pregio della chiarezza  e della concretezza, riguarda il livello aziendale.

Sappiamo che si tratta di un ambito tuttora limitato, nei fatti, sia per la grande diffusione in Italia delle piccole e piccolissime unità locali aziendali sia per la pressione della concorrenza internazionale sulle aziende meno innovative. Benché limitato, è però il contesto più dinamico e quello più favorevole per affrontare anche l'altra grande sfida, l'inclusione dei soggetti atipici e precari oggi ai margini della contrattazione.

Dunque, posto che attualmente abbiamo una compresenza di organismi di rappresentanza elettiva, le Rappresentanze Sindacali Unitarie, e di rappresentanze di sigla, perché non tornare ad affidare rappresentanza esclusiva alle RSU, non solo sulle materie oggi “concesse” ma sull'intera contrattazione a livello aziendale? E non si può immaginare che intere categorie, oggi molto esposte sul fronte della tutela dei lavoratori discontinui e dei nuovi entrati, sul piano dei diritti non meno che su quello salariale, e particolarmente votate all'unità, possano concordare un patto di solidarietà in base al quale le liste elettorali siano necessariamente unitarie?

Sarebbe solo un primo passo. Di cui temo si possano enfatizzare i rischi. Ad esempio quello di lasciare uno spazio incerto ma potenzialmente ampio ai sindacati corporativi: quando piuttosto permetterebbe un confronto in campo aperto (riprendo l'espressione di Carniti, già citata nel suo valore generale) attorno alla “puntuale tutela del lavoro e della sua remunerazione”. Ovvero quello di lasciare troppo spazio ai condizionamenti che la controparte esercita, con maggiore potere di ricatto, in sede locale: quando potrebbe invece essere il vero banco di prova della tenuta del contratto nazionale come cornice di riferimento di quello aziendale, a tutela dei diritti irrinunciabili e indisponibili.

Insomma, vedrei opportunità più che rischi.

Arrivo a dire che non mi scandalizzerebbe l'idea di “ospitare” nelle liste anche lavoratori non iscritti. Nonché lavoratori formalmente autonomi ma non indipendenti (non sto a citare la lunga varietà di casistiche che il Jobs Act, che dichiarava di volerle sfoltire, ha invece ulteriormente aumentato, da ultimo l'uso dilagante dei voucher). Se non altro come elettorato passivo, come primo passo verso l'ampliamento di quello attivo.

Modesta proposta. Che mi riporta a quando muovevo i primi passi nel sindacato. Allora era diffuso lo slogan “l'unità parte dal basso”. Col tempo ci siamo un po' tutti convinti che non è così. Nel senso che non basta. Non che se ne debba fare a meno, però.

Mercoledì, 23. Settembre 2015
 

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