L'alibi della stagnazione secolare

Nel mondo la crescita rallenta, sia per ragioni demografiche che per la caduta degli investimenti. Ma solo per alcuni paesi è davvero un guaio: per gli altri è una scusa per non affrontare il cambiamento di un meccanismo inceppato che non risolve i problemi della disuguaglianza, dell'occupazione e dell'ambiente

C’è uno spettro che si aggira per il mondo: la stagnazione secolare. Un vero incubo per economisti, politici, governi e istituzioni internazionali. Per citare soltanto due studi recentissimi, di stagnazione secolare si parla sia nel documento preparato dal Fondo Monetario per il G-20 di Ankara del 4-5 settembre sia in una nota del Centro Studi Confindustria di pari data. In entrambi i documenti la stagnazione secolare è vista come un serio rischio per l’economia mondiale, che dopo l’estate ha visto ridursi le prospettive di crescita 2015 e 2016 sia nei paesi avanzati che in quelli emergenti. E in tutti e due i documenti si propongono politiche per rilanciare la crescita e aumentare il PIL potenziale dell’economia mondiale.

Vediamo innanzitutto i numeri. Il PIL mondiale è previsto crescere attorno al 3,2% nel 2015 e al 3,5% nel 2016, contro il 5% del periodo pre-crisi (2002-2007). Più in particolare, i paesi avanzati sono passati in questo arco temporale da circa il 2,5% al 2% e gli emergenti, che comprendono anche la Cina, dal 7% al 5%. Secondo le stime del FMI, il PIL potenziale dei prossimi cinque anni si è ridotto di circa 1,3 punti percentuali rispetto ai primi anni 2000, di cui 0,8 punti da ascriversi ai paesi avanzati e 2 punti agli emergenti. Se ormai da anni è ritenuto fisiologico il rallentamento delle economie industrializzate, ci si rende ora conto che anche la locomotiva dei paesi emergenti non tira più come prima per effetto di un rallentamento che assume caratteristiche strutturali.

Strutturale è infatti la decelerazione del principale motore della crescita, ossia la demografia, che agisce attraverso due fattori. Il primo è un semplice fattore di scala: se la popolazione cresce meno, a parità di PIL pro capite anche il PIL cresce meno. Secondo le stime disponibili, la crescita demografica passerà dal 2% degli anni ’60 allo 0,1% di fine secolo (2090-2100). Anche qui con effetti che non riguarderanno soltanto i paesi avanzati, ma anche quelli emergenti.

Il secondo fattore è rappresentato dall’invecchiamento della popolazione, con conseguente diminuzione delle persone in età lavorativa. La crescita della popolazione mondiale di età compresa tra 15 e 64 anni scenderà dall’1,5% medio annuo del 2005-2010 allo 0,9% dei prossimi cinque anni, con una dinamica che diventerà addirittura negativa per le nazioni avanzate.

Se alla demografia è da attribuire circa la metà della riduzione del PIL potenziale nel prossimo quinquennio, il restante 50% è imputabile, secondo le stime FMI, alla caduta degli investimenti e alla minore produttività. La prima è avvenuta soprattutto nei paesi avanzati e in Europa durante gli anni della crisi anche per effetto di politiche di bilancio restrittive e attende ora di essere parzialmente recuperata (il piano Juncker, benché insufficiente, va in questa direzione). La seconda, dopo i forti guadagni ottenuti grazie all’applicazione delle ICT (Information Communications Technologies) dagli anni ’90 ai primi anni 2000, appare in diminuzione in quasi tutto il mondo, anche perché correlata alla flessione degli investimenti. Se i mutamenti demografici sono irreversibili, sugli investimenti e la produttività vi sono margini d’intervento, ma certamente non sufficienti per invertire un trend già ben delineato.

Ma c’è veramente da preoccuparsi per il rallentamento strutturale della crescita e, se sì, per quali motivi? Il capitalismo ha bisogno della crescita per sopravvivere, ma non nella stessa misura per tutti i paesi. Ad esempio, nel caso dell’Italia, che non ha ancora recuperato il livello di reddito pre-crisi, il ritorno alla crescita è necessario. A maggior ragione i paesi più poveri hanno bisogno di contare su robusti tassi di crescita per un lungo periodo di tempo. Ma la stessa cosa non può dirsi per paesi come gli Stati Uniti, che già sono al massimo del loro potenziale, o la Cina, in cui una crescita come quella di qualche anno fa significa perpetuare gli squilibri sociali esistenti e realizzare danni ancor più seri all’ambiente. Per molte nazioni sia industrializzate che emergenti non è la crescita il principale problema, ma la realizzazione di un contesto economico socialmente inclusivo e rispettoso dell’ambiente.

Il sospetto è che dietro la preoccupazione della stagnazione secolare si nasconda l’incapacità di proporre adeguate soluzioni per i veri problemi del sistema economico attuale, come se l’aumento del PIL servisse a coprire i difetti di un meccanismo inceppato. La crescita da sola non risolve i problemi della disuguaglianza e neanche quelli della piena occupazione, come l’esperienza degli ultimi quindici anni dimostra. Per non parlare dell’ambiente, i cui danni sono sempre più visibili. Occorre invece puntare su modello di sviluppo sostenibile, nel quale la crescita è semplicemente un mezzo per migliorare la qualità della vita.

Sabato, 12. Settembre 2015
 

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