Katainen, Merkel e la carestia delle patate

Il vice presidente della Commissione ora minaccia vagamente “sanzioni”, come se non bastassero i danni fatti finora dall’austerità. Per trovare un accanimento simile su una politica drammaticamente sbagliata bisogna forse risalire a metà dell’800, protagoniste Inghilterra e Irlanda. Anche allora una carestia fu usata per imporre ristrutturazioni economiche

“Forse dovremo minacciare sanzioni”, ha detto il vicepresidente della commissione Ue, Jirky Katainen, cane da guardia delle politiche di austerità imposte dalla Germania di Angela Merkel, da un gruppo di tecnocrati e dai politici di contorno. I tagli ai bilanci pubblici, come le “riforme strutturali”, non bastano mai e se le cose non vanno bene è perché non se ne sono fatti abbastanza. E le cose proprio bene non vanno. Gli ultimi dati parlano di un’Europa in deflazione, di crolli della fiducia di imprese e consumatori, di un nuovo record della disoccupazione in Italia, mentre in quasi tutti i paesi europei crescono – a destra o a sinistra, a seconda dei casi – i partiti di opposizione e insieme l’astensionismo elettorale.

 
Per trovare un esempio analogo di perversione dettata da un’ideologia infausta bisogna forse risalire a più di un secolo e mezzo fa. Si è molto parlato (giustamente) dei crimini dei regimi comunisti, ma quelli del capitalismo cinico non sono stati da meno, anche se non altrettanto pubblicizzati. Tra di essi merita senza dubbio un posto di rilievo quello che accadde in Irlanda tra il 1845 e il 1852, un evento passato alla storia come la Grande Carestia. Il paese, sotto il dominio dell’Inghilterra, era poverissimo, e la principale fonte di nutrimento per la maggior parte della popolazione erano le patate. Ma poco prima della metà del secolo si diffuse la peronospora, un fungo parassita che faceva marcire i raccolti. Private del loro alimento base, già nel 1846 le fasce più povere e più deboli della popolazione cominciarono a morire d’inedia, e nei due anni successivi si raggiunse il picco delle morti per fame e per le malattie legate alla denutrizione. Su una popolazione di poco più di 8 milioni i morti furono oltre un milione, e ancora di più, tra un milione e mezzo e due, furono coloro che diedero vita ad un esodo di dimensioni bibliche, cercando scampo nell’emigrazione.
 

Mentre accadeva tutto questo dai porti irlandesi continuavano a salpare alla volta dell’Inghilterra decine di navi cariche di grano, e nessun sostegno alla popolazione faceva il percorso inverso. Lo storico Tim Pat Coogan, nel suo libro sulla vicenda uscito poco più di un anno fa (The Famine Plot: England’s Role In Ireland’s Greatest Tragedy – ed. Palgrave Macmillan), non esita a parlare di genocidio: “La colpa – ha dichiarato all’Avvenire – fu del governo Whig guidato da Lord John Russell, tenace sostenitore di un liberismo sfrenato incentrato sulla dottrina del laissez-faire”. Il ministro del Tesoro inglese, Charles Trevelyan, non fece nulla perché riteneva che inviare scorte di cibo avrebbe avuto l’effetto di togliere agli irlandesi la voglia di lavorare. Ma, osserva Coogan, i motivi erano anche altri: “La radicalizzazione delle teorie economiche dell’epoca fu accompagnata da un calcolo opportunistico, poiché la crisi del raccolto delle patate offrì l’occasione propizia per operare una profonda riorganizzazione dell’economia attraverso il consolidamento delle piccole proprietà terriere e lo smaltimento della popolazione in soprannumero”.

 
Questo racconto agghiacciante ci ricorda però qualcosa. Anche oggi, come allora, la crisi è vista come un’occasione per imporre le famose “riforme strutturali”, cioè essenzialmente una compressione dei salari, delle condizioni di lavoro, dei diritti di cittadinanza. Anche oggi non ci si preoccupa dei “danni collaterali”, cioè dell’aumento vertiginoso della disoccupazione e dell’enorme crescita del numero delle famiglie che cadono nelle situazioni di povertà relativa e assoluta (in Italia nel corso della crisi sono più o meno raddoppiate per entrambe le definizioni, figuriamoci in Grecia o in Portogallo).

Non siamo alle morti per fame, ma non siamo nemmeno più a metà dell’800. Quello che non sembra essere cambiato è il furore ideologico che, mascherato dall’obiettivo dell’efficienza economica, persegue una politica profondamente reazionaria. Non serve nemmeno aspettare che qualcuno scriva un libro di storia per chiamare le cose con il loro nome.

Giovedì, 15. Gennaio 2015
 

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