La fine di un regno e il turbopremier

Alla vigilia delle dimissioni Giorgio Napolitano ha pronunciato un discorso che è una sorta di testamento politico. E’ lui che ha creato questo quadro, anche forzando le sue prerogative, e non vuole che cambi: avanti con questo governo e con la linea prevalente in Europa, e nessuno lo disturbi. Renzi ha ancora più fretta del solito: vuole chiudere le partite istituzionali prima dell’incognita del nuovo presidente. E poi, forse, elezioni

Può essere considerato il testamento politico di Giorgio Napolitano il discorso del 16 dicembre, dopo il quale ci sarà probabilmente solo quello tradizionale di fine anno prima delle dimissioni annunciate, che dovrebbero diventare effettive il 13 gennaio (fine della presidenza di turno italiana in Europa) o al massimo qualche giorno dopo.

 
Un testamento politico perché riafferma insieme la sua visione dell’attuale fase politica ed è tutto teso a rafforzare il quadro politico che egli stesso ha testardamente costruito, sconfinando non di rado dalle sue prerogative istituzionali. Come quando – il suo atto più grave – si rifiutò di conferire l’incarico di formare il governo al leader del partito che aveva prevalso alle elezioni conquistanzo il premio di maggioranza alla Camera, cioè a Pier Luigi Bersani, pretendendo la sicurezza preventiva di una maggioranza anche in Senato. La sicurezza non c’era, ma la maggioranza avrebbe potuto esserci, e solo quel voto che fu invece evitato avrebbe potuto verificarlo. Altrimenti sarebbe stato anche possibile un governo di minoranza, come ce ne sono in molto casi negli altri paesi europei. Fatale fu l’errore di Bersani di non opporsi al disegno presidenziale, cosa che avrebbe potuto fare dato che senza il Pd nessun governo sarebbe stato possibile e considerando che all’epoca era improbabile che il partito gli si sarebbe ribellato, nonostante che fosse già forte la componente di chi puntava alla prosecuzione dell’”Agenda Monti”.
 
Perché tornare a ricordare quei giorni? Non sono ormai materiale per gli storici? No, perché in quei giorni nasce la situazione in cui ci troviamo oggi, mutata in molti aspetti in seguito agli sviluppi successivi, ma che nelle sue linee di base è quella che il presidente aveva in mente allora: un governo di “grande coalizione”, che applicasse le ricette gradite a chi comandava (e comanda) in Europa, senza l’ostacolo di un’opposizione troppo forte. Poco importava che la metà di destra di quella coalizione fosse il partito del pregiudicato Berlusconi, a cui prima e dopo la condanna è stato comunque riservato un trattamento privilegiato, evitando solo il gesto che sarebbe stato inaudito della concessione formale della grazia. La sua esclusione dalla politica non è mai avvenuta, come avrebbe in seguito sancito il “Patto del Nazareno”.
 
Poi la coalizione si è un po’ ristretta, ma Napolitano ha continuato a sostenerla e a sostenere la continuità della linea politica succube ai diktat europei. Il successo di Renzi alle primarie Pd lo ha indotto a non opporsi al cambio al vertice del governo, nonostante che Letta fosse un suo pupillo, perché l’ex sindaco fiorentino offriva più garanzie di controllo del partito e comunque affiancandogli come ministro dell’Economia – il ruolo di maggiore importanza strategica – una persona scelta da lui e imposta al neo premier che avrebbe voluto qualcuno più controllabile: quel Pier Carlo Padoan (ex Fmi, ex Ocse) che doveva servire di garanzia che non ci sarebbero state deviazioni dalla rotta tracciata.
 
Il boom del Pd renziano alle europee ha rafforzato il giovane leader, che però, per la sua esuberanza che lo ha portato in varie occasioni ad esternazioni non gradite a Bruxelles, Berlino e Francoforte, deve avere a un certo punto rischiato di diventare sospetto. Il Jobs act, con la sepoltura dell’articolo 18 che lo stesso Renzi aveva dichiarato fino a poco prima non essere un problema in agenda, dev’essere stata la prova di fedeltà richiesta e concessa per dissipare quei sospetti, visto che non era bastata una legge di stabilità che, pur essendo ancora recessiva,  non aveva del tutto accontentato i fanatici dello zero-virgola.
 
Napolitano ha voluto protrarre la sua permanenza al Quirinale fino alla fine del semestre di presidenza europea dell’Italia. Chisà, forse anche per questo la nostra presidenza è stata così incolore, così totalmente priva di rilievo: c’era chi vigilava che non fossero disturbati i manovratori. Perché i manovratori non devono essere disturbati: questo è stato il centro del discorso del 16 dicembre. Cresce la protesta sociale? “Dico, non solo ma anche ai sindacati: rispetto delle prerogative di decisione del governo e del Parlamento, senza improprie e devianti commistioni, ma dialogo”. Cresce il disagio interno ad un partito i cui vertici hanno snaturato l’essenza stessa del concetto di “sinistra”? Si metta in riga chi si avventura ancora in "discussioni che chiamerei ipotetiche su elezioni anticipate" oppure "soffia su venti di scissione, magari nello stesso partito di maggioranza relativa. Non si attenti in qualsiasi modo alla continuità di questo nuovo corso". E ancora: “Nessun affievolimento della linea di condotta tenuta quest’anno da governo e Parlamento”. Io vi ho dato la linea, dice seccamente Napolitano, che poi è quella della Merkel, della Commissione, della Bce. Nessuno si azzardi a metterla in discussione. L’imprinting del “centralismo democratico” evidentemente non si è affievolito, si è solo appannato il senso dell’aggettivo qualificativo.
 
Gongolante per un tale endorsement, Renzi si appresta a forzare l’ultima accelerazione per le due grosse partite ancora aperte, i cambiamenti (non sprechiamo l’iflazionato termine “riforme”) della legge elettorale e dell’assetto istituzionale, che vorrebbe chiudere entro gennaio, ossia prima che comincino le votazioni per il nuovo presidente della Repubblica, partita quanto mai difficile e dagli esiti incerti. La fretta è probabilmente dovuta proprio a quella scadenza. Renzi ha cominciato i giochi, convocando a colloquio Romano Prodi: “sulla politica estera”, è stato precisato. Sì, vabbè… Il senso sembra invece quello di un “avvertimento” a Berlusconi, che stia in riga anche lui e non avanzi troppe pretese: stai attento, sembra volergli far capire Renzi, per il prossimo presidente potrei anche cercare una maggioranza con qualcun altro. Ma sta di fatto che il prossimo inquilino del Quirinale è una grossa incognita: e se uscisse dal cappello qualcuno non così in sintonia con il premier come lo è stato Napolitano? E se la procedura dell’elezione si trasformasse in un lungo pantano? Chiudere, chiudere prima quelle due cose ancora in sospeso.
 
Anche perché, se poi invece si riuscisse ad avere sul Colle una persona gradita, la carta delle elezioni anticipate diventerebbe più probabile. La situazione dell’Europa continua ad essere pessima, e difficilmente cambierà. Tutti i governi in carica si stanno logorando. Dove a sinistra (Syriza, Podemos, Sinn Fein) e dove a destra (Front National, Ukip) le nuove opposizioni sono cresciute enormemente, e con le prossime tornate elettorali potrebbero in molti casi rovesciare le maggioranze dei partiti tradizionali coalizzati. L’Italia finora fa eccezione, ma fino a quando? Davvero Renzi crede di poter arrivare trionfalmente al 2018? Molto probabilmente non lo crede, e i sondaggi che danno la sua popolarità in caduta non sono certo un buon segnale.
 
C’è chi ha parlato della possibilità di elezioni a marzo, ma è una possibilità che non esiste: date le dimissioni di Napolitano, non ve ne sarebbero i tempi tecnici nemmeno se il prossimo presidente sciogliesse le Camere il giorno stesso del suo insediamento, cosa evidentemente impossibile. Ma se tutto andasse bene (per Renzi), meno impossibile sarebbe andare al voto alle soglie del prossimo inverno. Ma da qui ad allora la strada è ancora lunga e molte cose possono accadere. Il prossimo anno avrà un inizio molto interessante.
Mercoledì, 17. Dicembre 2014
 

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