Renzi scommette sull’effetto surf

La manovra è di modeste dimensioni, ma quasi tutto dipende dalla sua credibilità: avrà successo se gli operatori italiani ed esteri riterranno che possa averne. L'abilità e la fortuna di un uomo politico consistono nel cavalcare la cresta degli eventi

La manovra del governo, tuttora in corso, ha suscitato contrastanti commenti: annebbiando peraltro il giudizio critico, così da rendere difficile separare le ragionevoli previsioni dalle fidelizzazioni politiche alle soglie di una competizione elettorale. Ritengo che essa presenti due aspetti profondamente diversi, quasi fosse una doppia manovra: il primo da valutare con i parametri della psicologia di massa ed il secondo con quelli propriamente economici e finanziari.

 

Per quanto concerne il primo punto occorre fare, come nei feuillettons della  letteratura francese dell'800, un passo indietro. Da alcuni anni larga parte della pubblicistica ha preso a bersaglio fenomeni degenerativi presenti nella società italiana, amplificandone forse le dimensioni, così da costituire la piattaforma sulla quale alcuni partiti, ed uno in particolare, hanno costruito le loro fortune elettorali.

    

L'Italia degli anni del boom e di quelli immediatamente successivi vantava una struttura produttiva relativamente innovativa, un ceto imprenditoriale abbastanza giovane ed una classe politica che manteneva con il proprio elettorato rapporti definiti clientelari. Fenomeno, in origine, non necessariamente negativo, nella misura in cui garantiva, sia pure solamente ai cittadini "fedeli", la soddisfazione di bisogni legittimi, che altrimenti sarebbe stata denegata o rallentata. La sperequazione dei redditi per giudizio unanime degli osservatori, era inferiore a quella attuale: lo stesso Vittorio Valletta riteneva appropriata una remunerazione dei top manager pari a 10 volte il salario operaio. Il sistema degenerò, come noto, in una palude corruttiva, nella quale il voto di scambio legato alle preferenze tendeva a privilegiare più gli interessi protetti e i poteri finanziari che la tutela dei più deboli. Ciò spinse la pubblica opinione ad invocare l'abolizione delle preferenze. Su questo punto convennero quelli che potremmo definire gli "antenati" dei movimenti che oggi tuonano contro i nominati. Nel frattempo si manifestarono due fenomeni importanti, l'uno macroeconomico ed esogeno, l'altro endogeno e riferito a quel "comune sentire" che condiziona i comportamenti individuali.

    

Il primo è quello della globalizzazione. Il vento della concorrenza piega o spezza gli arboscelli e rinforza gli alberi più robusti. In assenza di barriere protettive la sperequazione fra nazioni, territori, categorie produttive e individui tende ad accentuarsi. In Italia, democrazia giovane, con un apparato produttivo in trasformazione ed un preesistente squilibrio territoriale, l'effetto è stato maggiore.

    

Ma l'impatto più dannoso è stato rappresentato dal messaggio politico e programmatico veicolato per un ventennio con slogan di facile presa, del tipo di: "padroni in casa propria", "meno Stato e più mercato", "meno tasse e meno spesa pubblica", "ogni italiano lavora per metà anno per sé e il resto per lo Stato padrone", e via sproloquiando. Si è così passati, ad esempio, da una fase in cui si evadeva con vergogna ad una in cui si evadeva di più, vantandosene fra l'ammirata invidia di parte dell'opinione pubblica. Da queste due grandi tendenze, per una delle quali le responsabilità politiche sono precise, hanno tratto origine quei fenomeni distorsivi su cui si esercita la critica più feroce.

    

La classe politica, resecata dal rapporto con l'elettorato per la fine delle deprecate preferenze, appare sospesa in un empireo di alti costi, privilegi, auto blu che trovano scarsa giustificazione in un processo decisionale nel quale agli occhi dei più l'azione del governo sembra prevalente rispetto a quella del Parlamento. Il rapporto diretto dei leader con l'elettorato provoca il declino dei corpi intermedi, dai partiti agli stessi sindacati, colpiti anche dalla polverizzazione delle tipologie contrattuali.

    

Un altro bersaglio è costituito dalle banche, viste non come organismi che canalizzano verso le imprese i risparmi individuali, ma come soggetti che hanno attuato spericolate acrobazie finanziarie, i cui costi sono stati addebitati ai contribuenti. La stessa Europa non è considerata come contraente di patti sottoscritti dai partiti, che dopo averli firmati e talora invocati, oggi li disconoscono, ma come soggetto terzo, che ci impone obblighi per motivi sconosciuti o non comprensibili. Gli altri bersagli sono costituiti dai compensi ai manager delle imprese pubbliche e ai dirigenti della P.A. e dalle pensioni d'oro dell'epoca delle vacche grasse, che colpiscono l'attenzione della maggior parte dei cittadini intristiti dalla lunga crisi.

 

Il governo Renzi, di fronte a questo vento di rigetto, basato su fattori reali opportunamente generalizzati e amplificati, ha deciso di operare una scelta - forse efficace a breve e medio termine - radicalmente diversa rispetto a quelle dei governi Monti e Letta: combattere il populismo con un populismo e mezzo. Si è tentato lo strike sui birilli allineati dall'ondata demagogica. Ciò appare da un sommario elenco dei provvedimenti attuati o annunciati: bonus fiscale per redditi da lavoro medio-bassi; prelievi su banche e rendite finanziarie (magari anche sugli interessi di piccoli depositi postali); riduzione degli stipendi dei dirigenti delle partecipate e della P.A.; brusca riduzione dei costi della politica, compreso il finanziamento pubblico ai partiti (rischiando di favorire quella che in altri tempi si sarebbe chiamata plutocrazia); tentativo di colpire le cosiddette pensioni d'oro; vendita on line delle odiate auto blu. Per finire, a livello di annuncio, si è puntato a quel bersaglio grosso, che, accanto all'odiato fisco, è costituito dalla burocrazia. Tutt'altro che senza motivo. Da Diocleziano in poi essa ha rappresentato un ostacolo non solo allo sviluppo, ma anche al vivere civile, in quanto l'esercizio di questo potere occulto e ottuso è un implicito invito alla corruzione. A ciò si pensa di porre rimedio con la riforma della P.A. e la semplificazione normativa, sperando di riuscire là dove fallirono Mussolini e Craxi.

 

Considerazioni diverse valgono per gli aspetti economici della manovra: essa non è di per sé insostenibile né prevedibilmente carente di sicure coperture. Ha dimensioni trascurabili: l'8 per mille del Pil e poco più del 5 per mille del debito pubblico; non è quantitativamente adatta a creare un forte moltiplicatore della domanda. Di gran lunga più importante avrebbe potuto essere l'impatto del pagamento dei debiti della PA. Tuttavia l'operazione fatica a realizzarsi per una serie di difficoltà obiettive, relative in particolar modo alla certificazione dei crediti. Nel suo complesso la manovra non si discosta, per ora, in maniera sensibile dalle linee previste dal governo immediatamente precedente.

 

Rimane un interrogativo finale, dalla cui risposta dipende il futuro successo del provvedimento. Gli organismi economici non reagiscono agli impulsi con tendenze prevedibili di tipo meccanicistico: le aspettative ed i comportamenti degli operatori, con effetti imitazionali amplificatori, si collocano nel campo della psicologia collettiva. Il problema, dunque, non sta nelle dimensioni assolute o relative della manovra, ma nella sua credibilità. Avrà successo se gli operatori italiani ed esteri riterranno che possa averne. Il grado di imprevedibilità è molto alto: interferiscono eventi governabili solo in parte, dalla crisi ucraina all'afflusso di capitali esteri, al successo delle trattative con Etihad, ai risultati della futura missione governativa in Cina ed a quelli di Expo 2015. Tenendo conto anche degli una tantum delle coperture 2014, si ha l'impressione che il governo sia un giocatore di poker che sta tentando un “buio”. Che cioè non sia tanto la manovra a sostenere lo sviluppo, ma lo sviluppo atteso a sostenere la manovra.

 

A questo punto la previsione di successo per la politica economica del governo è legata a quello che potremmo definire "effetto surf". L'abilità (e la fortuna) di un uomo politico consiste nel cavalcare la cresta degli eventi. Infatti si narra che Napoleone, nello scegliere un comandante delle sue Armate, dopo averne esaminato il curriculum militare, chiedesse al suo aiutante di campo: "Ma è anche fortunato?".

Sabato, 10. Maggio 2014
 

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