Una gioiosa macchina del disastro

Il dopo-Berlusconi è iniziato, ma un programma che affronti i nostri veri problemi ancora non si vede. La cosa più urgente sarebbe ottenere una ricontrattazione del fiscal compact, ma Napoletano e Letta non usano a questo scopo il credito di cui godono in Europa, mentre Renzi, probabile vincitore del congresso, parla di flessibilità del lavoro e riforme costituzionali. Così si va dritti verso la fine di ciò che resta del Pd

Nonostante i propositi di ritorno e di vendetta, il corso politico di Berlusconi è giunto al capolinea. Non si tratta solo della cacciata dal Senato, alla quale seguiranno altri processi e altre sentenze di condanna, oltre a quella già definita in primo grado a Milano.  La sua sconfitta politica, a prescindere da processi e sentenze, è stata consumata quando i suoi ministri l’hanno abbandonato con la prima vera scissione del suo partito. Le “larghe intese” non avevano per lui nessun significato politico, se non uno preciso e inequivocabile: il sostegno al governo in cambio della cancellazione delle sentenze. Lo strappo violento gli ha impedito di mettere in atto il previsto decisivo assalto politico provocando le elezioni.

Sopravvivrà il berlusconismo al nuovo Berlusconi dei servizi sociali? Per un ventennio ha dominato il teatro della politica come autore di una pièce di cui era anche sceneggiatore e attore. Ora non più. Dovrà rimanere fra le quinte, suggerendo la parte all’ala Tea party , guidata da Santanché e Brunetta, della futura coalizione del centrodestra

Enrico Letta ha colto l’occasione per affermare che il suo governo ne esce più forte, sottratto al permanente ricatto di Berlusconi. Può darsi. Ma la contropartita per il il Partito democratico, che ha la totale responsabilità del governo,  sta in un rischio ancora più grande di quello che già correva con le “larghe intese”. Non ha più alibi. Deve dar conto al paese dell’operato del “suo” governo - un governo sostanzialmente monocolore.

L’Italia è al terzo anno di recessione. Il 2013 si chiuderà con una contrazione del Pil dell’1,8 per cento, la più grave recessione dell’eurozona, se si esclude la Grecia, ormai fuori giuoco. Una situazione, dal punto di vista della crescita, peggiore della Spagna, che è l’altro grande malato della periferia mediterranea. Come ogni fine anno, assistiamo alla promessa di una svolta - la falsa luce oltre il tunnel di montiana memoria. Ma le istituzioni internazionali ci assegnano per il 2014 una crescita dello zero virgola qualcosa. Una crescita, nel migliore dei casi, insignificante alla quale si accompagna come unica certezza l’aumento della disoccupazione, già più che raddoppiata rispetto all’inizio della crisi.

Il punto non è se Letta sopravvivrà alle insidie della scarna maggioranza che lo sostiene, e a quelle di Renzi che, secondo l’opinione corrente, ambirebbe a provocare le elezioni per sostituirlo. Il punto è se il Pd è in grado di reggere, senza una svolta radicale, la gabbia dei vincoli europei nella quale il paese è stato chiuso dalla famosa lettera della Bce, firmata da Trichet e Draghi nelle ultime settimane di agonia del governo Berlusconi - vincoli poi ribaditi con pienezza di consenso dal governo Monti.

L’Italia con il 3 per cento di disavanzo sul Pil ha il più basso disavanzo di bilancio rispetto ai grandi paesi dell’eurozona: la Francia è sopra al quattro e la Spagna sopra al sette. La stessa Gran Bretagna, l’altro grande paese dell’’Unione, pur senza euro, è sopra al sette. Ma, secondo l’insensata politica d'austerità di Berlino e Bruxelles, è proprio l’Italia a dover scendere sotto quello che era il parametro di Maastricht, per raggiungere prima degli altri il pareggio del bilancio.

Potrà il governo Letta reggere, in queste condizioni, fino al 2015? Ma lasciamo in sospeso l’interrogativo, dal momento che un altro è ancora più pressante,  investe direttamente il Pd. A maggio, come dire domani, si voterà per eleggere il nuovo Parlamento europeo. In tutta l’eurozona si teme la rivolta contro la politica insensata di Bruxelles con un’astensione di massa e con  la vittoria dei partiti euroscettici, quando non apertamente anti-euro. Non a caso, in Francia nelle ultime elezioni il Fronte nazionale di Marine Le Pen è risultato il primo partito, scavalcando il Partito socialista al governo con François Hollande. In Italia il governo Letta e il Pd che, ne guida la maggioranza, si troveranno schiacciati nella tenaglia dei Cinque stelle, da una parte, e della feroce opposizione di ciò che rimane del vecchio Pdl berlusconiano.

Nel confronto andato in onda su Sky, Cuperlo e Civati hanno posto, sia pure timidamente, la questione di una rinegoziazione con Berlino e Bruxelles dei vincoli che strozzano qualsiasi ipotesi di ripresa. Ma Renzi, considerato il candidato vincente alle primarie, ha preferito gettare il cuore oltre l’ostacolo. Vuole gli Stati Uniti d’Europa. Parla come se fossimo ai tempi di Hamilton e Jefferson, dimenticando che per arrivare agli Stati Uniti d’America, come li conosciamo oggi, bisognò aspettare Abramo Lincoln  e la vittoria nella guerra contro la secessione degli Stati confederati del Sud.

Perfino Jacques Delors, il più europeista dei leader europei, da presidente della Commissione europea, aveva rinunciato all’idea degli Stati Uniti d’Europa, parlando di un’Unione di Stati sovrani. Ma ora Delors è un pallido ricordo, e la politica europea si fa a Berlino con al suo servizio la tecnocrazia di Bruxelles. E’ come se tu andassi dal medico a chiedere di guarirti un piede che t’impedisce di camminare e lui ti rispondesse che l’obiettivo non è un rimedio per farti camminare, ma un’immaginaria partecipazione alla maratona di New York.

Una situazione senza vie d’uscita? La politica serve per individuarle, altrimenti è inutile. L’Italia è uno dei sei paesi fondatori della Comunità europea e la terza economia dell’eurozona. Se l’Italia va in malora, se la prossima primavera la maggioranza degli italiani si dividerà fra l’astensione e il voto per Grillo e per la destra post-berlusconiana, sarà la stessa eurozona a implodere.

Enrico Letta è probabilmente il più “europeista” degli attuali capi di governo dell’eurozona. Ma soprattutto Giorgio Napolitano è il più autorevole e il più convinto europeista tra i capi di Stato storici dell’intera Unione europea. Il compito del Pd sarebbe di profittare di questa circostanza per spronare il governo a rinegoziare le condizioni imposte da Bruxelles. Il 2014 non è l’anno nel quale si può pretendere di ridurre il disavanzo di bilancio, mentre aumenta la disoccupazione, si aggrava la povertà delle famiglie, si riduce la spesa per investimenti pubblici e privati, aumenta il prelievo, quale che sia la nuova formula dell’Imu.

Ma questa è solo una faccia della medaglia.  L’altra è quella che ci attende nel 2015, quando, col Fiscal Compact, l’Italia dovrebbe non solo marciare a tappe forzate verso il pareggio del bilancio, ma realizzare un avanzo di cinquanta miliardi l’anno (mentre oggi non si trovano nemmeno gli spiccioli per prorogare la cassa integrazione), per andare verso la riduzione del debito al 60 per cento del Pil nel giro di venti anni.

Un programma politico per un “nuovo” governo dovrebbe partire da qui. Ma il programma di Renzi, da cui dipendono il futuro del governo e del Pd, è lontano anni luce da un’aritmetica tanto semplice quanto impietosa. Gli impegni più ravvicinati che Renzi propone riguardano più privatizzazioni e più flessibilità nel mercato del lavoro, ammesso che ce ne siano ancora gli spazi in un paese inondato dalla precarietà. Ci promette anche l’abolizione del Senato, oltre che delle province: come dire riforme costituzionali che richiederebbero alcuni anni. Un programma che più che di rinnovamento della sinistra sa di inesorabile eutanasia di ciò che resta del Partito democratico.

Domenica, 1. Dicembre 2013
 

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