Berlusconi ha perso, la destra forse no

La vicenda del governo si intreccia con la strada che il Pd deciderà di prendere e quindi con la scelta del suo leader. L’alternativa è proseguire sulla strada delle larghe intese e della “stupida austerità” oppure battersi davvero, soprattutto in Europa, per cambiare questa linea disastrosa

C’è stata una frase preoccupante nel discorso del capogruppo Pd al Senato, Luigi Zanda, subito dopo il voto di fiducia che ha segnato la debacle berlusconiana e il trionfo del governo Letta. “Ora – ha detto – c’è una nuova maggioranza  politica”. Politica?

 

Zanda si riferiva naturalmente al fatto che la fiducia votata in extremis da Berlusconi e dai suoi accoliti era stata del tutto ininfluente, perché se così non avesse fatto il governo avrebbe vinto lo stesso grazie al gruppo dei dissidenti Pdl. Ma definire quella maggioranza come “politica” implica un salto rispetto non solo alla linea con la quale il Pd si era presentato alle elezioni (“Mai al governo insieme al Pdl”), ma anche a quella con cui si era giustificata la successiva evoluzione: questa coalizione non ci piace, ma è l’unica possibile per formare un governo che affronti l’emergenza e cambi la legge elettorale, per poi tornare alle urne appena svolti questi compiti urgenti.

 

Non una maggioranza politica, dunque, ma una coalizione di necessità, da sciogliere appena possibile per tornare alla normale dialettica democratica. A quanto pare non è più così.

 

Certo, qualcosa è cambiato, anche se la tenuta e l’evoluzione di questo cambiamento è tutta da verificare. Berlusconi sembra disarcionato. Ma lo rimarrà? Più volte ha dato prova di una diabolica abilità nel risorgere da situazioni in cui era dato per finito. Ma ammettiamo anche che stavolta vada diversamente, che Alfano abbia finalmente trovato il “quid” e riesca a portare definitivamente a termine il parricidio, liberandosi anche dei cosiddetti “falchi” del partito. Le “colombe” a cui resterebbe la guida del Pdl (o Forza Italia, comunque vorrà chiamarsi) si chiamano Cicchitto, Giovanardi, Quagliariello, Sacconi e via dicendo. Tutta gente che non solo per quasi vent’anni ha fatto quadrato intorno al pregiudicato di Arcore (e che peraltro ancora lo difende a spada tratta, rifiutando di accettare la sentenza che lo ha condannato), che non solo appena ieri ha aderito alla mossa sovversiva delle dimissioni di massa, ma soprattutto che esprime una linea politica, se così si può chiamarla, insieme populista e reazionaria. Davvero il Pd vuole fare una maggioranza politica con questi personaggi?

 

E allora viene da riflettere sulla storia recente, quella della campagna elettorale e quella catastrofica del dopo-elezioni. E ci si ricorda che anche quando sembrava certa una vittoria schiacciante del Polo progressista Bersani insisteva a dire che anche avendo la maggioranza avrebbe cercato un accordo con i centristi. Certo, poteva essere un modo per rassicurare l’elettorato più moderato, e anche i mitici “mercati”. Ma in realtà rispondeva anche all’esigenza di non scontrarsi con quella parte del partito che sosteneva a spada tratta l’”Agenda Monti”, cioè la politica di austerità imposta da Bonn, da Bruxelles e da Francoforte. Una politica che alla prova dei fatti si è dimostrata disastrosa, dando ragione a coloro, dapprima pochi ma via via sempre di più, che lo avevano da tempo previsto.

 

Ecco, quella parte del partito non se n’è ancora convinta, e vede l’ancoraggio al centro di Monti prima, e alla destra “responsabile” (?) oggi, come un’assicurazione che quella politica non sarà abbandonata. Il presidente del  Consiglio Enrico Letta, che pure formalmente non si è mai sbilanciato in quella direzione, è sicuramente un convinto sostenitore di questa politica. Non andrà mai ai Consigli europei – i vertici dei capi di Stato e di governo dove si decide la politica dell’Unione – a fare la voce grossa e a combattere per una svolta, come non lo fece Monti. E il motivo è molto semplice: loro in quella politica ci credono, nonostante le smentite della realtà.

 

E qui veniamo all’altro aspetto della vicenda, quello della lotta per la leadership nel Pd. E’ chiaro che per una parte del partito l’idea che sia  Matteo Renzi ad assumerla è più che ostica, potremmo forse dire repellente. E nel tentativo di ostacolare la sua ascesa che appare ormai quasi irresistibile sono disposti a tutto: anche a giocare la carta Letta contro di lui. Ora, Renzi ha mostrato chiaramente di essere una persona le cui convinzioni politiche hanno radici profonde quanto quelle di certe piante grasse che riescono a crescere anche senza terra. Era partito poco più di un anno fa da posizioni fortemente connotate in senso liberista, con un programma scritto dall’economista Luigi Zingales, uno dei portabandiera di quell’area, e da Pietro Ichino, che poco dopo avrebbe trovato la sua giusta collocazione nel partitino di Monti. Oggi la sua impostazione (e i suoi consiglieri) è fortemente cambiata, e ha persino fatto sapere di sostenere l’adesione del Pd al gruppo dei socialisti europei, finora mai avvenuta per non scontentare gli ex democristiani. Una virata spettacolare, che se non lo ha portato a dichiararsi socialdemocratico poco ci manca. E’ chiaro che Renzi ha astutamente individuato questo nuovo posizionamento come il più adatto per proporsi come leader di uno schieramento progressista, in modo sia da recuperare consenso in quell’area che aveva votato Bersani alle scorse primarie e che lo vede (vedeva?) come il fumo negli occhi, sia da differenziarsi proprio da Letta, che da presidente del Consiglio è il suo concorrente più pericoloso.

 

Quanto è affidabile questa conversione? L’impressione è che sia come Mary Poppins, destinata ad andarsene quando cambia il vento. Però è una possibilità – di una politica diversa – rispetto a una certezza, quella che con Letta nulla cambierebbe. Inoltre c’è un altro fatto. Dal punto di vista del carisma del leader tra i due non c’è gara. Letta è forte nei sondaggi – ma comunque testa a testa con Renzi – in virtù dell’incarico che ora ricopre. Ma le urne sono un’altra cosa, come la vicenda di Monti ha ampiamente dimostrato. Insomma, ormai Renzi è per il Pd come una malattia esantematica per un adolescente: prendersela è praticamente inevitabile. Tanto più che non sceglierlo a vantaggio di Letta significherebbe riconfermare quella politica, la politica della stupida austerità. E continuare con queste perniciose “larghe intese”, l’espressione plastica dell’impotenza della sinistra.

 

Resta da dire degli altri concorrenti alla segreteria, Cuperlo e Civati (ci sarebbe anche Pittella, ma sembra piuttosto inutile occuparsene). Il primo è un personaggio a modo, di buona cultura e con una certa esperienza politica. Lanciato da D’Alema, su di lui convergono anche le residue truppe bersaniane e sarà il loro sfidante a Renzi a meno dell’insana decisione di giocare la carta Letta. Parla senza una sbavatura e dice cose condivisibili, ma con una certa abilità forlaniana di non prendere mai posizioni troppo nette, di non rispondere mai con un sì o con un no a una domanda diretta e impegnativa. Cosa che invece fa Civati, che oggi nel partito rappresenta l’istanza più caratterizzabile come “sinistra”, senza che questo implichi posizioni estremiste o obsolete. Chiaramente gareggiano per il secondo posto, ma non è indifferente chi dei due se lo aggiudicherà. Se fosse Cuperlo vorrebbe dire che il partito tradizionale (quello che arriva dal Pci e da tutte le successive evoluzioni) ha ancora presa. Se prevalesse Civati sarebbe la sanzione definitiva di una rottamazione avvenuta nei fatti, maturata nelle teste della base del partito e nell’area che ad esso guarda. Il risultato non è scontato. Sui social network Civati ha il triplo o il quadruplo di seguaci rispetto a Cuperlo, e sono anche circolati un paio di sondaggi (non si sa quanto attendibili) che lo davano in vantaggio. Di qui a dire che lo sia veramente, e soprattutto che così risulterà dalle primarie, ce ne corre. Ma anche questa è una partita da seguire con interesse.

Lunedì, 7. Ottobre 2013
 

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