Il destino di decadenza dellItalia si viene inesorabilmente compiendo ormai da molto tempo. Ma ora assistiamo a una drammatica accelerazione. Abbiamo sostanzialmente perduto lindustria dellauto, mentre è in stato agonico la siderurgia. Ora è la volta di Telecom, Alitalia, Ansaldo. In qualsiasi paese normale il governo sarebbe in allarme rosso. Ma in Italia non è il caso. Enrico Letta a New York si esprime sulla vicenda Telecom con spregiudicata modernità: Telecom è unimpresa privata, decide il mercato. Per di più, Telefonica che, con pochi spiccioli, ne assume il controllo viene da un paese membro dellUnione europea. Come dire, dovè il problema? In ultima analisi, giochiamo in casa.
Allinizio degli anni 90 si affermò lidea (sbagliata) che eravamo entrati nellera post-industriale, e che i servizi erano il nuovo orizzonte dello sviluppo. Smantellammo allora lindustria pubblica, che pure, con tutti i suoi errori, era un modello discusso e apprezzato nel mondo. Ora, mentre assistiamo alla disgregazione degli ultimi lembi sopravvissuti della grande industria, dallauto allacciaio allelettromeccanica, passiamo alla liquidazione di due settori centrali dei servizi, dalle telecomunicazioni alle linee aeree. Servizi ai quali non rinuncerebbe nessun paese avanzato degno di questo nome.
Purtroppo non cè da stupirsi. La strategia di riduzione del ruolo dello Stato ha radici lontane e salde. Sono passati più di trentanni da quando Ronald Reagan sintetizzò lessenza della dottrina neoliberista con la famosa affermazione: Il governo è il problema, non la soluzione. Era il capovolgimento della linea che aveva presieduto allo sviluppo dei paesi capitalistici nei trentanni che seguirono il dopo-guerra. Secondo il nuovo mantra, lo Stato doveva ritirarsi, lasciando piena libertà ai mercati. La Thatcher si mosse nella stessa direzione in Gran Bretagna, inaugurando lera delle privatizzazioni.
LItalia arrivò in ritardo, ma nei primi anni 90 iniziò una rincorsa che rese il processo di disimpegno dello Stato e privatizzazione molto più rapido e profondo di quello realizzato da Margaret Thatcher. Lartefice più accreditato fu Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro. Il processo continuò speditamente sponsorizzato dai diversi governi, compresi quelli di centro-sinistra con alla testa Prodi e DAlema. Ora, Enrico Letta ne raccoglie leredità, lasciando che si compia il destino di ciò che rimane della grande industria, manifatturiera e dei servizi.
Laspetto più straordinario di questa linea sta nel fatto che la dottrina reaganiana-tatcheriana ha sempre meno seguaci nel mondo, sia esso avanzato o emergente. La politica industriale è riemersa silenziosamente dallombra. Gli stati che contano, senza proclamarla, la praticano sempre più apertamente. Barack Obama non ha avuto dubbi sul salvataggio di General Motors e Chrysler con un impegno iniziale di 80 miliardi di dollari. Per fare qualche esempio, vale la pena di ricordare che la Germania salvò a metà degli anni 90 la Volkswagen, oggi candidata a essere numero uno al mondo, e nei primi anni di questo decennio la Francia di Sarkozy, infischiandosene dellaccusa di protezionismo e dei tentativi di fermarlo della Commissione europea, decise il salvataggio dellAlstom la grande impresa che costruisce insieme con la Siemens i treni veloci che si affermano dallEuropa alla Cina.
In un recente libro (The entrepreneurial State) - largamente commentato e apprezzato nella grande stampa internazionale, ma passato inosservato in quella italiana, Mariana Mazzucato chiarifica lassoluta centralità dellintervento pubblico nel campo del progresso scientifico-tecnologico e della politica industriale nello sviluppo dei nuovi settori di punta. In passato si riconobbe che una grande parte del progresso tecnologico in diversi campi dellindustria traeva la sua origine dallimpegno dei governi americani prima nel campo nucleare, col progetto Manhattan, poi in quello spaziale, promosso da Kennedy per reagire al lancio dello Sputnik.
Ma si è creata la favola che attribuisce il progresso tecnologico delle epoche successive agli animal spirits, alla capacità di rischiare e al talento della grande impresa privata. La Mazzucato - economista e titolare della cattedra di Politica della scienza e della tecnologia presso lUniversità del Sussex argomenta linconsistenza di questa tesi che sacrifica allideologia dominante lo svolgimento dei fatti. Da internet, alle biotecnologie, allenergie rinnovabili, lavvento dei nuovi prodotti e dei nuovi processi di produzione e laffermarsi di nuovi mercati non avrebbero visto la luce e non avrebbero cambiato il mondo in cui viviamo senza un impegno ampio, profondo e determinante dello Stato.
Lanalisi è condotta con grande rigore e ricchezza di dettagli. I grandi istituti di ricerche americani insieme con le Università hanno goduto di immense risorse per sviluppare ricerche di base e applicate sulla base di programmi elaborati dalle istituzioni pubbliche. Contrariamente allopinione corrente di uno Stato puramente dedito allincentivazione delliniziativa privata e alla regolazione dei mercati, lo Stato ha assunto nei campi dove linnovazione era più incerta e a rischio un vero e proprio ruolo imprenditoriale.
Steve Jobs ha ottenuto un immenso successo per i prodotti di Apple, applicando il suo talento alla innovazione del prodotto e alleleganza del disegno che li distingue. Ma scrive Mazzucato - questo risultato non sarebbe stato ottenuto senza la possibilità di fondere le innovazioni tecnologiche che derivavano dai programmi di ricerca del governo e del Pentagono. Nel campo delle biotecnologie i progressi acquisiti e in corso sono il frutto delle reti di ricerca e sviluppo degli Istituti nazionali della Sanità, delle Università e dei laboratori specializzati, complessivamente dotati di oltre 300.000 ricercatori e sostenuti dallo Stato con limpegno di centinaia di miliardi di dollari. Lindustria farmaceutica in parte collabora, in parte attende che le ricerche a maggior rischio siano concluse. In ogni caso senza lelaborazione e lattuazione di impegnativi e multiformi programmi pubblici, la nuova frontiera delle biotecnologie difficilmente avrebbe visto la luce.
Gli esempi possono estendersi alle nanotecnologie o, per rimanere ad esempi ravvicinati, alle energie rinnovabili, Qui, al di là dellhardware, è decisivo un programma di governo tendente a realizzare nuovi mercati alternativi alle fonti energetiche tradizionali un campo questo dove eccellono, da un lato, la Germania, dallaltro la Cina.
La conclusone di questa analisi è che lo Stato non si limita a incentivare liniziativa privata, a regolare i mercati una volta che esistono e a finanziare la ricerca di base. Questa è una visione ipocrita, scrive lautrice. La realtà è quella di una vera e propria politica industriale. Con la differenza rispetto al passato che oggi si tratta molto spesso di una politica industriale nascosta, per non entrare in contrasto con la retorica della neutralità dello Stato.
Quale conclusione possiamo trarre dal confronto fra la politica delle classi dirigenti italiane, sempre disponibili a corrodere fino a smantellarlo il ruolo dello Stato? La risposta è tristemente semplice. La fine della politica industriale e del ruolo dello Stato fanno parte della retorica neoliberista. Ma dietro la retorica del ritiro dello Stato e dellefficienza e dellautoregolazione dei mercati, i governi normali hanno operato con continuità e grande impegno programmatico e finanziario per garantire lo sviluppo della scienza e dell'innovazione tecnologica nel campo dellindustria tradizionale come dei nuovi servizi, peraltro fra di loro sempre più intrecciati. Paradossalmente, in Italia la retorica del non intervento è diventato il modello di riferimento dellazione pubblica. La retorica ha preso il posto della strategia.