Elezioni, cosa ha detto davvero il primo turno

Davvero il risultato segnala un'approvazione per il governo delle larghe intese? Non solo l'astensionismo si è impennato, ma, soprattutto, le coalizioni che hanno vinto sono tutte insieme a Sel e le alleanze con il centro sono praticamente assenti (1 commento)

Inutile nasconderselo. La lettura delle elezioni a Roma (primo turno) rinvia inevitabilmente al quadro politico nazionale. Si ha voglia a dire che il voto amministrativo è un'altra cosa. Nei piccoli centri è possibile che venga valutata l'affidabilità personale del candidato, spesso per conoscenza diretta, al di là della collocazione politica. Ma quando si tratta di milioni di elettori la proposta politico-progettuale del candidato viene, sì, valutata in riferimento allo specifico contesto cittadino ma la sua affidabilità personale, dunque la stessa credibilità della proposta, viene misurata nel contesto della collocazione rispetto al quadro politico generale.

 

Ignazio Marino da questo punto di vista è un candidato del Pd, appoggiato da personalità del partito decisamente importanti (se non altro in chiave locale) come Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini. Che tuttavia gli stessi avversari hanno voluto definire un “marziano”, pensando con ciò di sminuirlo. Chiunque viva la città di Roma senza essere un marziano (come piuttosto si è rivelato Alemanno, agli occhi dei suoi stessi sostenitori) sa invece che molto dell'apprezzamento personale per Marino è derivato proprio dal suo essere estraneo all'apparato storico del Pd romano e ai “poteri forti” romani, che sono perfettamente coincidenti con quelli nazionali e hanno esercitato storicamente una influenza tutt'altro che trascurabile su quell'apparato medesimo.

 

Lo si era visto già dalle primarie: i suoi concorrenti erano considerati più vicini alla dirigenza romana del partito e questo aveva giocato in modo decisivo a favore di Marino. La campagna successiva lo ha portato ad avvicinarsi in modo significativo ai problemi concreti della città. Il programma, che nelle primarie era restato alquanto sul generico, si è arricchito e ha preso consistenza come era necessario, ho avuto modo di notarlo in passato, per convincere gli elettori.

 

Se ne è reso conto anche il Pdl e perfino Alemanno. Ora Marino non è più un marziano ma si insinua esattamente il contrario. Resta, ovviamente, un estremista di sinistra che spaventa i moderati, ma si lascia intendere che l'appoggio dell'apparato Pd - e in particolare di Bettini, che fu, come è risaputo, il kingmaker di Rutelli - non sarà senza contropartite quando si dovranno prendere le decisioni che contano in materia di opere pubbliche, piani regolatori, volumi edificabili, piani del commercio. Senonché Marino ha fatto affermazioni radicalmente innovative (e impegnative) sulla crescita urbana (riuso e riqualificazione senza ampliamento di volumi) che hanno anche incontrato apprezzamenti in una parte del mondo dei costruttori ma vanno in direzione assolutamente opposta a quella della cementificazione. E l'elettorato ha mostrato di apprezzare, più di quanto abbia apprezzato la proposta di Marchini, che puntava a accreditarsi come il “nuovo doc”.

 

Ha dunque vinto “malgrado” il Pd, come si è spinta a dire Debora Serracchiani, ripetendo il commento alla vittoria in Friuli, con sommo scandalo di tutti gli “allineati e coperti”? Sì e no. Sì, perché senza quella “diversità” non avrebbe preso i voti che ha preso. No, perché il “marchio” Pd continua a avere il suo valore per una vasta area che non pensa che la soluzione ai suoi problemi stia nell'ennesima scissione quanto piuttosto nel cambio di leadership attraverso un congresso chiarificatore. Per quelli, che oggi affollano come mai prima i circoli, nelle varie sedi dove il partito discute a viso aperto senza richiudersi a riccio, Marino è “uno di loro”, non “uno di quelli”. In una parola, non è uno dei 101.

 

Non mi nascondo, naturalmente, che sta andando in onda una lettura opposta: vanno al ballottaggio Pd e Pdl (è così in tutta Italia), significa che il governo delle larghe intese convince. Mi sembra sbagliata (nel senso che non mi sembra fondata su dati reali) e pericolosa.

 

Si trascurano due dati che non sono invece trascurabili. Il primo, eclatante, è quello dell'astensione. Difficile nasconderlo ma si tende a minimizzarlo (il confronto è con una tornata congiunta alle politiche, poteva andare molto peggio...). L'altro, perfino più importante, è che le coalizioni che hanno vinto sono tutte coalizioni con Sel. Che in molti casi, e comunque a Roma, il centro era fuori e resterà fuori anche dalle giunte (se si vince al ballottaggio). Che Sel è cresciuta (mentre il Pd ha perso), per non parlare del risultato sorprendente dell'estrema sinistra a Siena, in una situazione di crisi pesante del Pd (che dopo vent'anni deve passare di nuovo da un ballottaggio).

 

La versione complementare a questa è che ha perso, clamorosamente, il Movimento 5 Stelle che rappresentava l'opposizione alle larghe intese. Dunque, identica conclusione: il governo convince.

 

Qui sta l'errore più pericoloso. La strategia di Beppe Grillo ha deluso molti dei suoi elettori. Più della metà. Perché si è opposto alle larghe intese? Ridicolo. Non c'è nessuno che lo possa pensare seriamente. La sua strategia era tutta funzionale a quel risultato. Ha lavorato perché si arrivasse a quel governo pensando di lucrarne una consistente rendita elettorale. Molti di quelli che avevano sperato in un suo impatto dirompente hanno dovuto invece constatare che ha solo ottenuto di ricacciare il Pd (con sua grandissima colpa, ma è un altro discorso) nelle braccia di Berlusconi. Non glielo hanno perdonato.

 
Ricordate? Highlander, resteremo io e Berlusconi. Forse questa prospettiva, per una grande parte degli elettori italiani, non appare attraente. L'allenatore della squadra vincitrice del campionato la definirebbe agghiacciante.
 
Commenti

Gabriele Ventura -
Può darsi che mi sia perso qualcosa o che invece a volte chi scrive non si accorge nemmeno di quello scrive chi gli sta di fianco (Valerio Selan - La differenza fra governare e sognare), ma la affermazione che "Sel cresce e il Pd perde...", riferita ai risultati delle aminnistrative
nelle diverse realtà locali (e non solo a Roma...) andrebbe quanto meno suffragata da dati in valore assoluto e in %. Ciò detto vale sempre poi una considerazione molto semplice: è meglio crescere dal 2,5 al 3,5% (ma vorrei vedere i dati in valore assoluto) o assestarsi sul 25%?
N.B. Tutto ciò che si muove alla sinistra del Pd complessivamente non vale più del 5% (a voler essere ottimisti e a mettere tutto insieme, cosa che cronicamente e pateticamente poi non riesce nemmeno a fare da sempre...).
Giovanni Principe - Forse la mia prosa non era abbastanza chiara ma ho sostenuto che non si può interpretare il voto amministrativo come un rafforzamento del governo se le coalizioni vincenti comprendono un partito all'opposizione come Sel (con cui abbiamo invece rotto a livello nazionale il sodalizio Italia Bene Comune) e se il suo risultato è stato proporzionalmente migliore. Dopodiché sono iscritto al Pd e condivido l'opinione che lo spazio elettorale di Sel sia quello che pensa Ventura.

Martedì, 28. Maggio 2013
 

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