Storia di un sindacalista negli anni 'formidabili'

In un’intervista autobiografica - a cura di Bruno Liverani - Rino Caviglioli racconta vent'anni di sindacato, da quando era vietato entrare in fabbrica agli anni ruggenti delle conquiste oggi sotto attacco. Da segretario della Fim visse il processo unitario che portò alla Flm. Un'avvincente testimonianza su un importante pezzo di storia

E’ opinione diffusa che la nostra sia un’epoca di grandi cambiamenti. Il che è vero, ma non sempre ne è chiaro il senso di marcia. Il caso del sindacato è indicativo. Insistente è, infatti, la sollecitazione a liberarsi dai paradigmi del Novecento per inserirsi  pienamente nel nuovo mondo del XXI secolo.

Ma, stranamente, ciò che si chiede al sindacato da parte delle élite politiche neoconservatrici e delle tecnocrazie che si sono impossessate del governo dell’Europa non è niente di più dell’adeguamento definitivo al paradigma neoliberista che ha attraversato e egemonizzato il mondo anglosassone nell’ultimo trentennio. In pratica si spaccia per il nuovo al quale il sindacato dovrebbe ispirarsi e conformarsi il modello economico e sociale che ha portato alla crisi del 2007-08. Paradossalmente,  ciò che, in nome del cambiamento, si propone per il futuro del sindacato è un modello sociale che prese l’avvio negli anni Ottanta con la rivoluzione thatcheriana nel Regno Unito e reaganiana in America.

Da questo punto di vista è utile, e non un semplice esercizio nostalgico, spingere lo sguardo più indietro  per scrutare cos’era e come era stato sviluppato quel tipo di sindacato che è entrato in conflitto con la rivoluzione neoliberista, e che nel corso degli anni è stato oggetto di un attacco  che ancora oggi si manifesta in tutta la sua asprezza. Basti pensare che il governo “tecnico” di Monti ha dovuto ancora una volta impegnarsi, a 40 anni distanza dallo Statuto dei lavoratori, nell’opera di demolizione dell’articolo 18, e a dare ancora un colpo privo di logica e di giustificazione al sistema pensionistico, mentre si sviluppa l’attacco alla contrattazione collettiva nazionale, per non citare che alcuni cardini delle lotte e delle conquiste sindacali di quello che fu una sorta di New Deal dei diritti di cittadinanza sociale del mondo del lavoro a cavallo degli anni ’70.

Rino Caviglioli, ex dirigente sindacale della Fim e della Cisl, nella sua breve biografia-intervista raccolta da Bruno Liverani  "La mia storia nel sindacato", senza l’ambizione di vestire i panni dello storico, c’introduce in quella fase di cambiamenti degli anni Sessanta e Settanta che segnarono una svolta profonda  nella storia del movimento sindacale italiano. Cambiamenti sofferti, a volte lenti e quasi impercettibili, altre volte tumultuosi, nei quali l’esperienza individuale si confondeva con gli eventi e i processi collettivi. Il lettore di oggi, soprattutto se giovane e lontano da un’epoca che oggi può apparire una remota preistoria, sarà attratto non solo dallo sguardo dall’interno di quelle vicende, ma anche dalla progressiva formazione  di un giovane sindacalista, la cui Identità s’intreccia  con gli accadimenti di cui è testimone e protagonista.

Nel suo racconto autobiografico, Rino parte dalla sua origine di ragazzo appartenente a una famiglia piccolo-borghese con un padre cattolico e democristiano, rigido, come usava a quel tempo, nell’educazione dei figli. Ma quella che potrebbe svolgersi come una convenzionale adolescenza, si arricchisce della dimensione comunitaria tipica di un quartiere intermedio della periferia romana, distante dal centro della città, ma ugualmente dalle borgate nelle quali si muovono i “Ragazzi di vita” di Pasolini.

La sua maturazione è segnata dall’incontro in Parrocchia con Don Luigi che lo inizia alla trafila dell’Azione cattolica. Sono, a quell’epoca, insieme con la frequentazione del cineclub, ordinarie forme di socializzazione, ma che lo aprono alla volontà di sperimentare forme di impegno collettivo, che si rifletteranno nelle sue scelte di vita. Quando prende un diploma tecnico, Rino cerca un lavoro nel campo delle costruzioni, ma alla ricerca di nuove esperienze di formazione, approda al Centro studi della Cisl di Firenze. E’ la svolta verso quello che sarà il “mestiere” di sindacalista, al quale forse non aveva mai pensato: “a quel tempo avevo una idea assai vaga di cosa fosse il sindacato, il lavoro operaio in fabbrica, i metalmeccanici da me conosciuti riparavano moto e autoveicoli”.

Terminati gli studi presso il Centro di Firenze, “un posto magnifico, verde e silenzioso, dove si studiavano, insieme alla storia del sindacato, economia e tecniche contrattuali” , e  dove sono già passati molti di quelli che saranno i futuri dirigenti della Cisl,  Rino è inviato a Milano. Qui, ancora ventenne, all’inizio degli anni ’60, intraprende il percorso tipico di un giovane sindacalista di quel tempo. La prima destinazione è Sesto San Giovanni, la cittadella rossa dove si concentra un numero straordinario di fabbriche e di operai.
 
Nelle fabbriche i sindacalisti non possono entrare. Ma bisogna essere sul posto quando i lavoratori  varcano i cancelli delle fabbriche al primo turno della mattina, diffondere i volantini, provare a instaurare un colloquio fuggevole con altri giovani che provengono dal sud, che sanno poco della fabbrica nella quale sono capitati più o meno casualmente,  e che vivono in un mondo ancora estraneo, nel quale il sindacato, la contrattazione, l’azione collettiva, sono appannaggio esclusivo della vecchia guardia di lavoratori professionalizzati, che hanno conosciuto la Resistenza, conoscono il ruolo delle Commissioni interne e spesso hanno fatto il loro apprendistato politico nelle scuole del Partito comunista.

Un mestiere difficile arrivare come giovane e inesperto funzionario sindacale, ma Rino è molto determinato e anche fortunato, se è vero che a Milano operano nella Fim giovani di pochi anni più vecchi, ma ai quali potersi rivolgere, come Pierre Carniti, Pippo Morelli, Franco Bentivogli,  che l’hanno preceduto alla scuola di Firenze, tutti destinati a crescere nel sindacato dei metalmeccanici e ad assumerne la direzione.

Sono anni difficili per il sindacato. Mettere piede in una fabbrica è per un attivista sindacale ancora un miraggio. Le lotte raggiungono, come accade per gli elettromeccanici, una forte asprezza, spesso connotate dagli scontri con la polizia che protegge i “crumiri”. Ma la talpa dell’azione collettiva scava nei bisogni e nelle aspirazioni di lavoratori che hanno visto passare il miracolo economico senza grandi miglioramenti delle loro condizioni di vita, e che a metà degli anni sessanta sono improvvisamente precipitati in una fase di recessione e di licenziamenti. Ma nel ‘66 i metalmeccanici conquistano il contratto nazionale che aprirà la strada a un’intensa stagione di contrattazione aziendale a cavallo del 1968, mentre nelle Università cresce la protesta dei movimenti studenteschi.

Col beneficio della memoria, oggi tutto sembra dovesse convergere verso la straordinaria esplosione di lotte dell’”autunno caldo”del ‘69. Ma, in realtà, non vi era nulla di facile e di scontato. L’”autunno” era stato preceduto da un cammino pieno di incertezze e ostacoli. Non era stato facile per il sindacato superare  la soglia dell’indifferenza e di diffidenza in un mondo di giovani lavoratori che lentamente dovevano imparare a conoscere il sindacato, il suo linguaggio, il senso delle rivendicazioni, i luoghi della rappresentanza e l’impegno dell’azione collettiva.

Avendo compiuto, nel corso di quel memorabile decennio, il suo apprendistato in diverse sedi, da Milano a Lecco a Latina, Caviglioli è ancora un giovane sindacalista di trent’anni quando è eletto segretario nazionale della FIM. Il suo racconto incrocia in quegli anni i processi che cambiano in profondità il sindacato con i suoi successi e le sue delusioni. Dopo l’esperienza unitaria  del ‘69 FIM, FIOM e UILM puntano all’unità organica dei metalmeccanici, ripromettendosi di sciogliere le rispettive organizzazioni. Ma il passo si rivela troppo lungo e ambizioso. O così appare alle Confederazioni che lo contrastano con decisione. Bruno Trentin, segretario generale della Fiom, è posto di fronte all’alternativa della rottura con la CGIL, in pratica alla minaccia della scissione interna. Fallisce il disegno di dar vita a una sorta di CIO  (il Congress of Industrial Organizations, nato in America  alla fine degli anni Trenta), che nelle intenzioni di alcuni dirigenti  Fiom, fuori della corrente comunista, doveva  preludere alla futura unità di CGIL, CISL e UIL.

Per Rino è un motivo di grande delusione, come del resto fu per alcuni di noi che ci eravamo impegnati nella Fiom in direzione di quel balzo in avanti che avrebbe dovuto cambiare la storia sindacale. Non ostante il passo avanti  compiuto con la costituzione della Federazione unitaria di CGIL, CISL e UIL,  l’unità organica delle confederazioni rimase un miraggio.

 Ma questo non arrestò il percorso unitario dei metalmeccanici segnato negli anni 70 dalla nascita della FLM che, per molti versi agiva come un sindacato unico, con un numero crescente di lavoratori iscritti direttamente all’FLM, la nascita e il consolidamento dei consigli di fabbrica, l’intreccio fra autonomia, democrazia e unità sindacale. Alle conquiste dell’autunno caldo seguirono nel decennio 70 tre contratti nazionali segnati dalla realizzazione dell’inquadramento unico fra operai, impiegati e tecnici, da una progressiva riduzione dell’orario di lavoro, dalle “150 ore”, dai diritti di informazione e consultazione  sulle strategie di investimento e di occupazione delle aziende.

La contrattazione aziendale si affermò non in alternativa alla contrattazione nazionale, ma come suo completamento in relazione alle specificità dell’organizzazione del lavoro, degli assetti produttivi e della produttività delle aziende.  Ricorda Caviglioli: “Contrattavamo tutto:  superminimi, premi di produttività e di produzione, istituzione della mensa, indennità  per lavori nocivi e per i turnisti, passaggi di categoria, diritti sindacali, cottimi, organizzazione del lavoro a catena, riduzioni dell’orario di lavoro per i  turnisti, copertura della carenza per i primi tre giorni di malattia allora non retribuiti, scatti di anzianità, passaggio degli equiparati tra gli impiegati, organici, indennità di mensa e di trasferta, ambiente di lavoro, indennità per i giovani”.

Rino dopo un periodo di direzione nazionale torna a Milano, dove aveva conosciuto Regina, poi diventata sua moglie, come segretario regionale mentre si afferma l’esperienza unitaria della FLM. E’ una fase di forte impegno di innovazione del modello sindacale: “Teorizzammo la rotazione degli incarichi, anche se nella pratica non riuscimmo ad arrivare a tanto, e la parità tra lo stipendio dei sindacalisti e quello degli operai. Con la Fiom e la Uilm ci dedicammo a costruire la Flm: sede unitaria alla Umanitaria, sedi unitarie di zona, avvio della pratica dell’operatore unico, organismi unitari”.

Per molti la FLM dovrebbe essere un ponte verso l’unificazione organica delle tre confederazioni. Ma non sarà così. I segretari generali dei sindacati metalmeccanici sono chiamati nelle segreterie confederali e in tempi diversi, Benvenuto, Carniti e Trentin ne saranno i segretari generali. Ma negli anni Ottanta l’occasione dell’unità non si ripresenterà più, e il disegno di democrazia e unità sindacale che ha accompagnato la FLM comincia a sbiadire, fino a rimanere un ricordo, ai giorni nostri lacerato dalla divisione.

L’intervista di Caviglioli si ferma alla soglia degli anni 80. Dopo essere tornato alla segreteria nazionale della FIM, sarà prima segretario dei tessili, poi membro della Segreteria della Cisl. I due decenni che ci racconta sono parte di una storia personale che ha avuto la ventura di incrociare una delle fasi più intense e della vita sociale e sindacale del paese. Paradossalmente la sinistra ha allontanato la memoria di quella fase di edificazione di una nuova identità del sindacato italiano fino a cancellarla o corroderla con una critica superficiale che ha consegnato quell’esperienza al tentativo di realizzare un disegno considerato tipicamente velleitario, come molte utopie del Novecento. Una strana deriva della memoria e un tabù che l’intervista di Rino Caviglioli  viola con la semplicità di un racconto che vuole essere quasi ordinario, e privo di enfasi nostalgica, pur riferendosi a un’ epoca tutt’altro che ordinaria.

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Venerdì, 24. Maggio 2013
 

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