Giovani e lavoro, strategia per un disastro

La drammatica situazione attuale è il risultato delle numerose riforme del lavoro e delle pensioni varate negli ultimi vent’anni. La previdenza andava riformata, ma affrontando anche gli effetti collaterali. E tutta la flessibilità introdotta nell’impiego non ha prodotto occupazione, anzi. I dati che sfatano le affermazioni demagogiche
“Dobbiamo farlo per i giovani”; “E’ necessario per i nostri figli”; “La flessibilità del lavoro farà crescere l’occupazione”. Quante volte abbiamo sentito ripetere queste frasi dal governo di turno, quando si trattava di far inghottire qualche riforma peggiorativa sulla previdenza o sul lavoro? E siccome di queste riforme ne sono state fatte ormai parecchie, e anche molto pesanti, bisognerebbe supporre che qualche risultato si sia cominciato ad ottenere. Magari non da rovesciare il “vecchio ordine”, si sa che per queste cose ci vuole tempo. Ma almeno una tendenza, una direzione visibile delle variabili più importanti che testimoni che si sta andando nella giusta direzione, almeno quello è lecito aspettarselo.
Però, se si guardano alcuni di questi dati, non sembra proprio che la direzione sia quella giusta. “Ma sono riforme che hanno effetto nel lungo periodo”, è la consueta obiezione. Bene: vent’anni è un periodo abbastanza lungo? Abbastanza, almeno, per vedere come si muovono le tendenze? Difficile negarlo.

Nicola Salerno è un economista del Cerm che ha la pregevole abitudine di prendere i dati statistici e farci del grafici. Di recente ne ha fatto uno (utilizzando le serie Istat) che a guardarlo lascia un po’ a bocca aperta. Eccolo qui.

Preso come base il primo trimestre 1993, il grafico mostra come è variato, rispetto a quella base, il tasso di attività per le varie fasce di età. Come si vede, la classe di età più giovane sprofonda, quella immediatamente successiva è sotto il punto di partenza e si impennano invece le due classi di età più elevate. L’ultima mostra un aumento dell’11,5%, mentre quella dei più giovani è sotto di quasi il 15.

Il tasso di attività, com’è noto, comprende occupati e disoccupati (questi ultimi sono quelli che nell’ultimo mese hanno cercato attivamente un lavoro, altrimenti non vengono considerati tali). Ci sarà differenza con il tasso di occupazione? Si può verificare osservando un altro grafico, che tra l’altro considera anche la distinzione per genere (in azzurro le linee degli uomini, in verde delle donne).

 
 
Come si vede gli andamenti sono abbastanza simili (la prima classe di età, meno significativa, è stata eliminata in questo grafico, per ridurre l’”affollamento” di linee). Ricaviamo un’altra informazione: in tutte le classi di età le donne sono andate molto meglio degli uomini, con una eccezione: dopo lo scoppio della crisi, ossia dal 2008, l’occupazione delle donne più giovani (25-34 anni) ha iniziato un trend negativo, mentre quella degli uomini più anziani (55-64 anni), che era in netto aumento fin dal 2000, ha continuato a salire e con l’inizio di quest’anno ha effettuato il sorpasso sulle giovani colleghe.
 
Come mai le donne sono andate tanto meglio? Alcune ipotesi. Innanzi tutto bisogna considerare un effetto statistico. Per fare il confronto abbiamo fatto partire tutti dalla stesso punto, ma i numeri assoluti sono ovviamente diversi e quello delle donne è più basso, quindi uno stesso aumento in numeri assoluti fa salire di più le linee delle donne che quelle degli uomini. In secondo luogo, negli ultimi vent’anni quasi tutti i nuovi posti di lavoro sono stati creati nei servizi, ed è ovviamente più facile trovare una donna in un ufficio che in una fonderia. In terzo luogo, le donne andavano in pensione mediamente prima degli uomini, ma le varie riforme previdenziali hanno inciso fortemente su questa possibilità, e infatti sono le due classi femminili di età maggiore che si impennano con più decisione. Poi, il tasso di occupazione non ci dice chi lavora a tempo pieno. Negli ultimi anni c’è stata una forte crescita del part-time, e questa è una forma di impiego particolarmente applicata alle donne, a volte per loro scelta, altre volte no. Infine, un ultimo fattore (ma probabilmente non il meno importante) è la normale evoluzione sociale: come si sa, il tasso di attività femminile è sempre stato in Italia molto minore che negli altri paesi comparabili, e quindi un recupero non può certo sorprendere.
 
Ma torniamo al problema iniziale, ossia che aumentano i più anziani al lavoro mentre sempre meno giovani riescono a entrare. Per ragionare meglio vediamo però anche un terzo grafico (anche questo fornito da Nicola Salerno) che ci fa vedere l’andamento, nello stesso periodo, di occupazione e Pil.
 
C’è da considerare che la scala è relativamente piccola, in modo da evidenziare gli andamenti. Solo per questo sembra che il Pil cresca in modo robusto, mentre in realtà sappiamo bene che, specie nell’ultima decina d’anni, il suo aumento è stato molto modesto, prima di precipitare per la crisi tornando, come si vede, più o meno ai livelli di inizio secolo. L’andamento dell’occupazione totale è rappresentato dalla linea verde. Inizia con un tuffo in basso: sono gli effetti della crisi del ’92, quella della svalutazione della lira, con il suo strascico nel ’95. Poi riprende, ma certo non fa sfracelli: non riesce a star dietro neanche alla debole performance del Pil. E comunque ne segue l’andamento, almeno fino ai primi anni 2000, quando la forbice comincia ad allargarsi. Poi dal 2008 crolla il Pil e l’occupazione lo segue, anche se con maggiore vischiosità (grazie anche alla Cig: i cassintegrati non sono computati tra i disoccupati).
 
E le “riforme strutturali”, quelle che avrebbero dovuto far aumentare i posti di lavoro? Ricordiamo le più importanti. Nel ’93 c’è il grande accordo governo-parti sociali, che un effetto sicuramente l’ha avuto, quello del contenimento della dinamica salariale. Da allora, come si sa, la quota dei salari sul Pil ha perso terreno a vantaggio di quella dei profitti. Sull’occupazione, però, la linea verde non registra grandi effetti. Poi ci sono le norme del luglio ’97, il “Pacchetto Treu”, che inietta nel sistema una massiccia dose di flessibilità (e di precarietà). Sì, nel periodo successivo l’occupazione sale, ma sta salendo anche il Pil, e anche a un ritmo maggiore. Sarebbe difficile sostenere che quelle norme siano state determinanti.
 
Ma forse la flessibilità era ancora troppo poca. Così nel 2003 viene emanata la legge 30 (quella che la destra si ostina a chiamare “legge Biagi”) che la aumenta ancora. Conseguenze? La linea verde non solo resta piatta, ma non segue neanche il Pil che sta ancora salendo.
 
E arriviamo così al 2007, quando il governo Prodi vara la legge sulla detassazione del “salario di produttività”, che l’anno dopo sarà incrementata dal successivo ministro del Lavoro Maurizio Sacconi. Al di là del nome accattivante, detta in soldoni è un modo per permettere alle imprese di eludere un po’ di tasse trasferendo qualche pezzo di salario sotto questa voce. In tempi normali avrebbe avuto di per sé un effetto negativo sull’occupazione, perché rende più facile richiedere straordinari (che i lavoratori sono più propensi ad accettare vista la tassazione molto favorevole), che in parte vanno al posto di nuove assunzioni, come anche la Banca d’Italia aveva rilevato. Dal secondo semestre 2007 l’occupazione comincia a scendere, ma il provvedimento arriva proprio mentre la crisi sta esplodendo (esce a luglio sulla Gazzetta Ufficiale) e l’economia sta per crollare, quindi è difficile dire quanto sia dovuto a quella legge.
 
Insomma, in conclusione, a guardare quel grafico viene da concludere che l’occupazione è un po’ aumentata quando è salito il Pil, mente tutto quel rimestare sulle norme sul lavoro ha lasciato il tempo che ha trovato, a parte il peggioramento della situazione dei lavoratori.
 
Ma altre leggi, invece, effetti ben visibili li hanno avuti. Torniamo al grafico precedente, quello sull’occupazione per fasce di età. Sarà un caso che quelle più elevate mostrino una irresistibile tendenza a crescere? Naturalmente no. Quella dell’innalzamento dell’età pensionabile è stata una scelta politica dichiarata esplicitamente e ripetutamente, dai governi di ogni colore. Una scelta giusta? Certamente, prima che si iniziasse con le riforme, il nostro sistema previdenziale si avviava a diventare insostenibile. Era stato disegnato all’inizio degli anni ’60, tenendo conto del fatto che, all’epoca, erano ben pochi i lavoratori con regolari versamenti di contributi e dunque era necessario regalar loro qualcosa per questione di sopravvivenza. Per di più, i conti erano stati fatti ipotizzando anche per il futuro un tasso di crescita simile a quello dell’epoca, l’epoca del “miracolo economico”. Aggiungiamo infine i “regali” politici, come le baby-pensioni o i rendimenti maggiorati per alcune categorie, e il miscuglio fra previdenza e assistenza. Le pensioni di invalidità, per esempio, prevedevano fra i criteri di assegnazione anche quello sulla difficoltà di trovare lavoro in certe zone territoriali (ovviamente, soprattutto del Sud) e potevano dunque essere concesse anche senza una invalidità effettiva. Nient’altro che un sussidio, un “reddito di cittadinanza” che nulla aveva a che fare con la previdenza. E così via.
 
Intervenire dunque era necessario. La prima riforma è quella di Giuliano Amato nel ’93, perfezionata poi nel ’95 dal governo di Lamberto Dini. Come si vede non ha effetti subito sulla classe più anziana, perché prevede un regime transitorio: comincerà a “mordere” dal 2000. Per le donne invece comincia subito, sia per l’eliminazione delle pensioni-baby, sia perché il passaggio al metodo di calcolo contributivo (che scatta subito per chi nel ’95 ha meno di 18 anni di anzianità) ridurrebbe troppo i vitalizi di chi va in pensione troppo presto. Negli anni 2000 gli interventi si susseguono, fino a quello di Sacconi del 2011 che provoca quella vistosa impennata delle linee dei più anziani. Le ultime norme del governo Monti certamente accentueranno ancora questo andamento, anche perché eliminano definitivamente i prepensionamenti per crisi industriali: un altro uso improprio della previdenza, da sempre gradito in egual misura da sindacati e imprenditori, che però colmava il vuoto – anche se solo per una parte dei lavoratori – dovuto all’assenza di strumenti di sostegno del reddito dei disoccupati.
 
Cosa c’è di sbagliato? Uno degli errori è certamente la rigidità. Si è perso del tutto, specie con gli interventi dei governi Berlusconi, uno dei principi importanti delle riforme Amato e Dini. Ognuno vada in pensione quando vuole, sapendo che il suo assegno sarà determinato da un coefficiente applicato sul totale dei contributi accumulati in modo che il suo assegno sia tanto più basso quanto la sua età è minore. Così la spesa per il sistema è uguale, sia che si vada a riposo a 70 anni che a 50: in quest’ultimo caso si prenderà un importo molto basso, perché è prevedibile che dovrà essere pagato per più anni. E perché è stata bloccata questa possibilità, che avrebbe liberato posti di lavoro senza maggiori oneri per il sistema? Perché ad opporsi è la Ragioneria generale, vero e proprio ministero-ombra, secondo cui applicare quel principio renderebbe aleatorie le previsioni a lungo termine.
 
Il risultato è che viene imprigionato al lavoro anche chi – per ragioni che possono essere le più diverse – vorrebbe smettere nonostante la riduzione del vitalizio e occupa così, senza nessun vantaggio per l’equilibrio del sistema, posti a cui potrebbero accedere i giovani. Possibile che nessumo ci avesse pensato? Il fatto è che ha vinto la teoria secondo cui il numero di posti di lavoro non è limitato, ma aumenta con l’aumento dell’offerta. Il che può essere vero quando la torta diventa più grande, cioè quando l’economia cresce, ma non quando l’aumento del Pil è asfittico. E infatti, anche prima della crisi, come si vede dal terzo grafico, non c’era un grande aumento di posti di lavoro. Per far crescere il Pil è necessaria la domanda, cioè qualcuno che spenda. La domanda può venire dall’estero, ma se non basta serve quella interna: e se non spendono i privati (investimenti e consumi) dovrebbe essere lo Stato a farlo, esattamente come non sta facendo adesso.
 
Cerchiamo di trarre qualche conclusione. I numerosi interventi sia sulla flessibilità del lavoro che sulla previdenza hanno influito poco o nulla sulla creazione di posti di lavoro: per quello ci vuole altro. Lo hanno fatto invece, e pesantemente, sulla distribuzione della forza lavoro, per genere e per età. Con uno svantaggio per i giovani che emerge clamorosamente dai grafici, proprio quei giovani che si diceva di voler favorire. E tutta la flessibilità introdotta, con decine di contratti precari, dove è andata a finire? A guardare le linee del grafico sull’occupazione, neanche la classe maschile dei 34-44anni e quella femminile dei 25-34 se la passano bene. Viene il sospetto che la flessibilità sia finita proprio lì (oltre che per i pochi giovani che riescono a lavorare). E’ stata appena varata l’ennesima riforma del lavoro che continua a seguire la strategia precedente. Sarebbe il caso di metterne in cantiere un’altra, magari facendo qualcosa di diverso.
 
(Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su L’Espresso il 30 nov 2012)
 
Sabato, 29. Dicembre 2012
 

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