Lavoro, cosa manca al fine partita

Aver ottenuto, grazie all’impegno della Cgil e del Pd, la modifica dell’aspetto più indigeribile del cambiamento dell’articolo 18 è un fatto senz’altro positivo. Ma il compromesso all'esame del Parlamento rischia di essere fortemente lesivo dell’autonomia del giudice nella decisione relativa al reintegro del lavoratore ingiustamnte licenziato.

Il cambiamento del progetto di riforma del mercato del lavoro in relazione all’articolo 18 merita di essere valutato per i suoi aspetti politici generali prima ancora che nel suo significato particolare che, per molti aspetti, rimane controverso. Il governo Monti aveva fatto della riforma il banco di prova di un cambiamento di principio del rapporto fra governo e sindacato. Un cambiamento che intaccava la fisionomia stessa di una democrazia pluralista. Si “ascolta”, si dialoga, si consulta – come con qualsiasi interlocutore degno di un rapporto di cortesia – ma non si negoziano le soluzioni che il governo proporrà al vaglio e alle determinazioni finali del Parlamento. A questo cambiamento nello “stile” di governo, Monti teneva non meno che al contenuto stesso della riforma.

Il “no” iniziale della CGIL e poi delle altre confederazioni, la mobilitazione dei lavoratori e l’altolà del PD hanno bloccato questa filosofia per molti versi reazionaria, anche se l’espressione può a torto apparire forte. Le forze sociali non sono una lobby. Con la rappresentatività che gli appartiene e per consistenza degli interessi che rappresentano, non possono essere messi al margine di un democratico processo politico. Non si può con arroganza affermare: “la partita è chiusa”, quando in verità sul punto di maggiore controversia non è stata nemmeno aperta. Questo è un successo da non banalizzare.

Ciò non toglie che il compromesso sull’articolo 18 rimane ambiguo e, come vedremo più avanti, contiene in particolare un passaggio che può pericolosamente ledere l’autonomia del giudice nella decisione del possibile reintegro a favore di un lavoratore o di una lavoratrice ingiustamente licenziati.

In ogni caso,vale la pena di ricordare che il progetto originario del governo non aveva inventato nulla, se non copiato l’ultima versione del modello spagnolo che Mariano Rajoy, il capo del nuovo governo conservatore spagnolo e il più aggressivo tra i governi di destra europei, aveva fatto passare a metà febbraio, non a caso, con un decreto-legge, così come il governo Monti avrebbe fatto senza la decisa reazione prima della CGIL, poi del PD.

Secondo lo schema spagnolo, il licenziamento individuale per ragioni economiche è praticamente libero, dal momento che l’eventuale illegittimità dichiarata dal giudice si risolve senza eccezioni in un risarcimento monetario. In pratica un giudice del lavoro con le mani legate: conosce l’illegittimità del provvedimento e ne decreta l’annullamento, ma gli è vietato il ristabilimento a favore del lavoratore della condizione antecedente al provvedimento giudicato illegittimo e perciò da annullare.

Il cambiamento introdotto nella riforma Monti-Fornero, originariamente analoga a quella spagnola, ridà, sia pure con i limiti che vedremo, senso al ruolo del giudice nel determinare le conseguenze della pronuncia di illegittimità. Ma se l’"americanismo" del modello spagnolo è stato scongiurato, rimaniamo tuttavia lontani dal modello tedesco, evocato nel dibattito italiano, un modello più efficiente e più limpidamente protettivo delle ragioni del lavoratore o della lavoratrice ingiustamente licenziati.

Quanto all’efficienza, è il giudice che, in Germania, nella prima fase del ricorso, opera un tentativo di conciliazione. Per la sua stessa autorevolezza, il giudice è messo in grado di acquisire tutti gli elementi di prova della legittimità/illegittimità del provvedimento, avvalendosi anche delle valutazioni del Consiglio di fabbrica che rappresenta tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato, al quale il provvedimento dell’azienda e le sue motivazioni devono essere comunicate in via preventiva. Il momento della conciliazione sotto l’egida del giudice porta nella maggioranza dei casi a un accordo fra le parti sia attraverso una revisione della posizione dell’azienda, sia attraverso un compenso risarcitorio a favore del lavoratore.

Ma, se il tentativo di conciliazione esperito dal giudice in sede stragiudiziale si rivela improduttivo, si apre la fase giudiziaria in senso stretto. A questo punto lo scenario cambia. Rientrato nella sua funzione giudicante, il giudice ha il compito specifico di verificare sulla base di tutte le circostanze acquisite se il licenziamento è legittimo o illegittimo. Se licenziamento è giudicato illegittimo, per mancanza o insufficienza dei requisiti addotti come giustificazione, il giudice decreta l’annullamento del provvedimento e, come logica conseguenza, il reintegro del lavoratore nella condizione antecedente al provvedimento.

Nella proposta del governo Monti, la fase della conciliazione resa obbligatoria è prevista in una sede amministrativa, così come già esiste, senza, perlatro, aver dato risultati significativi rispetto alla soluzione del contenzioso. Una volta che l’obbligo del tentativo di conciliazione si sia concluso senza esito, la parola passa al giudice che dovrà riaprire l’indagine sui termini del contenzioso. In sostanza un iter meno efficiente dal punto di vista dei soggetti coinvolti e dei tempi di soluzione della controversia,

Ma non è solo una questione di minore efficienza e di capacità di individuare una soluzione equa ed accettabile. Secondo la riforma in discussione il ruolo del giudice e le garanzie per il lavoratore sono rese meno trasparenti, più incerte e meno garantite dalla distinzione, per molti versi arbitraria, fra illegittimità per “manifesta insussistenza” e illegittimità in quanto tale.

Mettiamo il caso che il giudice non consideri “manifestamente insussistente” la motivazione addotta dall’impresa in ordine a una riorganizzazione in corso nel sistema produttivo che riduce una determinata tipologia di mansioni nel cui ambito è inquadrato il lavoratore licenziato. Ma, al tempo stesso, il giudice  ha preso atto del fatto che il lavoratore può essere ricollocato in una diversa mansione o trasferito in un’altra unità produttiva senza pregiudizio per l’economia dell’organizzazione. Sulla base di tale fondato argomento, il giudice sentenzia l’illegittimità del provvedimento per mancanza di una giustificata motivazione, ma non ricorrendo la “manifesta insussistenza” del motivo addotto dall’impresa che fa riferimento a un processo organizzativo effettivamente in corso, non potrà reintegrare il lavoratore, dovendo limitarsi a un risarcimento sostituivo.

O potrà reintegrare il lavoratore? Può essere che i giuristi del lavoro si eserciteranno nello stabilire i confini interpretativi di questa distinzione. Ma è un modo confuso di regolare un aspetto essenziale del rapporto di lavoro e della giusta protezione che spetta al lavoratore e alla lavoratrice di fronte a un atto giudicato illegittimo, il cui annullamento dovrebbe ripristinare come logica conseguenza lo stato antecedente. Tanto più che la lesione sanzionata dalla pronuncia di illegittimità incide profondamente nella condizione della persona che è rimasta vittima di un’azione riconosciuta illegittima.

Fin qui la questione dell’articolo 18. Ma la riforma del mercato del lavoro dei “Professori” presenta molti altri punti che in parte non innovano, se non marginalmente, nelle questioni della precarietà, lasciando in vita un numero insensato di modelli contrattuali di ingresso. Dall’altro, andando verso una riforma degli ammortizzatori che, in nome di una malintesa unificazione, stabilisce garanzie del reddito per chi ne rimane privo che sono palesemente al di sotto degli standard europei. Ma questo è un altro discorso, non meno rilevante di quello sull’articolo 18, sul quale i sindacati dovranno tornare con la massima attenzione e la necessaria mobilitazione nel corso del dibattito parlamentare.
Giovedì, 5. Aprile 2012
 

SOCIAL

 

CONTATTI