Non tutte le scissioni vengono per nuocere

Le divisioni nel Partito democratico non sono frutto di una normale dialettica, ma di due filosofie politico-sociali incompatibili. La vicenda del mercato del lavoro, che le ha di nuovo fatte emergere chiaramente, dovrebbe essere l’occasione per scegliere una delle due strade, lasciando che chi non è d’accordo segua il suo percorso altrove

Se qualcuno non aveva ancora ben inquadrato la situazione politica italiana le vicende di questi ultimi giorni dovrebbero esser servite a togliere ogni dubbio. Quello guidato da Mario Monti non è un governo bipartisan, che cerchi la mediazione meno indigesta possibile per ognuna delle variegate forze che lo sostiene. E’ un governo di destra, una destra meno populista di quelle a cui purtroppo ci eravamo abituati in Italia ma una destra senza se e senza ma, perché così volevano i mercati, la Commissione Ue, la Bce, la signora Merkel e via dicendo. Semmai ci si può un po’ stupire del fatto che anche persone ritenute credibili raccontino balle per giustificare le scelte che fanno, alla stregua di macchiette come i professori Giavazzi e Alesina, che hanno scritto un libro intitolato “Il liberismo è di sinistra”. Sarebbe più serio che motivassero queste scelte in base alle loro reali convinzioni, ma questo farebbe forse scendere un po’ i loro indici di popolarità. Comunque si tratta di un particolare secondario.

 

Il Pd non ha potuto sottrarsi allo sgradevole compito di appoggiare questo governo, perché la situazione non lasciava scelta. Hanno potuto farlo l’Idv perché non era decisiva e Sel che è addirittura fuori dal Parlamento. Il Pd no, e su questo non ci dovrebbe essere da discutere.

 

Da discutere è se sia pensabile che il peso del senso di responsabilità debba ricadere su una sola parte – il Pd, appunto – che ne pagherebbe poi le conseguenze elettorali, e se tutto il peso dell’aggiustamento – o almeno, quello di gran lunga maggiore – debba essere sopportato dai redditi medi e bassi e da lavoratori dipendenti e pensionati, come appunto sta accadendo. Il ruggito di Pier Luigi Bersani a “Porta a porta” ha mostrato che nei programmi del segretario del Pd non c’era quello di inghiottire qualsiasi cosa. Ma subito le minoranze rumorose del partito hanno fatto sentire le loro voci, dal più cauto Enrico Letta che concludeva “comunque il nostro voto non è in discussione” all’”Elsa, siamo con te” del veltroniano Walter Verini, passando per la lettera al Corriere della Sera di Pietro Ichino i cui contenuti con molta fatica si distinguevano dall’altra lettera, pubblicata accanto, firmata dall’ex ministro Maurizio Sacconi e da Roberto Maroni.

 

Che in un partito ci sia dialettica è sempre una buona cosa Ma possono coesistere posizioni non solo contrastanti, ma una parte delle quali coincide con quelle prevalenti nello schieramento che dovrebbe essere alternativo?

 

La risposta a questa domanda non è scontata come a qualcuno potrebbe sembrare, e segna un’altra faglia, di non minor rilievo, che attraversa il Partito democratico. Se si pensa a un sistema politico bipolare, quindi tendenzialmente bipartitico, dove diventano decisive le decisioni dell’”elettore mediano” per dare la vittoria elettorale all’uno o all’altro, quella situazione ha senso. I due partiti maggiori non solo devono essere poco differenziati, ma devono essere “partiti pigliatutto”, secondo la vecchia definizione del politilogo Giorgio Galli. Hanno senso, allora, le candidature veltroniane di Ichino e di Massimo Calearo, ex “falco” di Federmeccanica in seguito approdato alla sua collocazione naturale nella destra. Hanno senso perché bisogna acchiappare voti di tutti gli orientamenti, quindi bisogna presentare candidati che rappresentino tutte le posizioni. Un partito del genere non ha identità e non deve averla, deve cercare di vincere convincendo gli elettori con un generico “noi siamo più bravi” (marketing), soprattutto è fondamentale la figura del leader, la sola cosa che unifichi quella congerie di orientamenti. Ma tanto destra e sinistra sono concetti superati, anzi arcaici, e conta solo “governare bene”. Come (a vantaggio di chi, per arrivare dove) è una questione che ormai non si pone più: i movimenti spontanei della società vanno solo assecondati cercando al massimo di temperarne gli eccessi e di tamponare le crisi che generano.

 

Un’opzione alternativa è quella di un partito identitario, che persegua cioè una sua visione della società, seppure non dogmatica e dinamica. Un partito del genere non può essere “pigliatutto” e difficilmente da solo è maggioritario. Il suo habitat è dunque un sistema politico multipolare (che non significa frammentato: le tecniche per evitarlo esistono e sono ben note), dove le maggioranze parlamentari si formano tra forze contigue anche se distinte, e richiede dunque preferibilmente (non necessariamente) non una scelta diretta dell’elettore dello schieramento che governerà, ma una delega al suo partito a trattare, dopo l’esito del voto, il miglior compromesso possibile per realizzare gli scopi dichiarati.

 

Un modo per fare pastette, come ai tempi della Prima Repubblica? Forse, ma le pastette non si evitano se la trattativa avviene prime delle elezioni; in compenso si aggiungono i pasticci.

 

Delle varie anime che convivono nel Pd una è quella, maggioritaria, per cui “sinistra” non è una parolaccia né un termine obsoleto. Dire “sinistra” o “socialdemocrazia” non significa tornare al ‘900 o addirittura all’800, significa riferirsi ad un sistema di valori e di visione dei rapporti sociali che ha una sua coerenza e che senza difficoltà può essere coniugato con il mondo del terzo millennio. Così come “socialdemocrazia” non è sinonimo di “statalismo”, come vorrebbero accreditare i suoi detrattori.

 

Un’altra anima, la cui consistenza non sembra rilevantissima, ma che annovera molti leader interni e molti intellettuali che hanno accesso ai media, anche i più importanti, è quella del “new”. Quella la cui ispirazione prende piede con i New Democrats di Clinton e poi con il New Labour di Blair e per cui il liberalismo – anzi, il liberismo – è ormai la sola strada possibile e si può interpretato in chiave progressista. Ecco dunque la perdita di senso dei termini “destra” e “sinistra” e la tendenza a semplificare il sistema politico in senso bipolare, con due schieramenti teoricamente alternativi ma di fatto indistinguibili se non per i personaggi che vi militano.

 

Naturalmente esistono varie sfumature intermedie. Quel che è certo è che tra queste due concezioni c’è una frattura, che appare davvero inconciliabile. Così, la spaccatura che emerge oggi sulla questione del mercato del lavoro non si inquadra in una normale divergenza di opinioni su un problema specifico, ma in una differenza di filosofia politica e sociale che non si vede come possa convivere in uno stesso partito, a mano che non voglia essere il “partito pigliatutto” con le caratteristiche di cui si è parlato.

 

E dunque, al di là di come si concluderà questa vicenda contingente, seppure enormemente importante, questa può essere – dovrebbe essere – per il Pd l’occasione di scegliere una delle due strade. Chi non fosse d’accordo con la scelta che sarà fatta divida i suoi destini e i suoi percorsi. Alle elezioni del prossimo anno (se non saranno prima) bisognerebbe arrivare offrendo una prospettiva definita. Solo così si potrebbero convincere gli elettori che il “senso di responsabilità” non ha ucciso l’intenzione di tendere ad una società un po’ meno ingiusta.

Giovedì, 22. Marzo 2012
 

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