Le imprese: l'art. 18? Non ci interessa

Sul campione di 100.000 aziende dell'indagine Unioncamenre nessuno cita questo motivo per le mancate assunzioni. Anche le statistiche storiche dicono che lo Statuto dei lavoratori non ha frenato l'ccupazione. Il problema emerge per quel che è: un'istanza di destra

La pietra tombale sulle disquisizioni intorno all’articolo 18 dovrebbe averla messa una indagine tra le aziende italiane. Dovrebbe, ma non è detto, perché si è già più volte dovuto constatare che in questo dibattito i fatti contano poco, anzi, per la verità non contano affatto.

 
L’indagine, di cui ha dato conto Repubblica, è quella periodica Unioncamere-Excelsior ed è svolta su un campione di ben 100.000 imprese di tutte le dimensioni, quindi è particolarmente significativa.
 
Ebbene, alla domanda sul perché l’azienda non ha assunto nel 2011 il 77% delle imprese ha risposto “perché l’organico è adeguato”, il 14,1 per la congiuntura sfavorevole, il 5,7 “assumerei se avessi nuove commesse”.
 
Ecco la tabella elaborata da Repubblica in base ai risultati dell’indagine:
 
 

E l’articolo 18? Fuori dall’orizzonte e dai pensieri degli imprenditori. Una riprova? Tra il 22,5% del campione che invece ha assunto, oltre i tre quarti (il 76,9%) è costituito da imprese con oltre 50 dipendenti, che ricadono quindi nell’ambito di efficacia dell’articolo 18. Serve altro?

 

Se servisse, potremmo sempre ricordare un altro dato. Consultando le serie storiche Istat sull’occupazione, si può constatare che che tra il 1997 e il 2008 (anno del massimo storico degli occupati, prima che la crisi dispiegasse i suoi effetti) le unità di lavoro sono aumentate di 2.268.000. Le unità di lavoro, lo ricordiamo, si calcolano aggregando le posizioni lavorative a tempo parziale, principali o secondarie, e indicano dunque il numero teorico di posti di lavoro a tempo pieno equivalente, indipendentemente dal numero degli occupati. E perché partire dal ’97? Perché è l’anno in cui fu varato il “pacchetto Treu” (seguito poi dalla legge 30 del 2003, impropriamente detta “Biagi”), con i contratti di lavoro atipici tutti privi, ovviamente, della copertura dell’artcolo 18. Per valutare se abbiano avuto un impatto favorevole sulla creazione di posti di lavoro facciamo il confronto con un periodo di durata analoga partendo dal 1970, anno di approvazione dello Statuto dei lavoratori. Ebbene, tra il ’70 e l’81 le unità di lavoro sono aumentate di 2.110.000. Quasi la stessa quantità, ma bisogna ricordare che nel periodo più recente ci sono state le regolarizzazioni degli immigrati, che hanno fatto emergere circa 700.000 nuovi lavoratori.

 

Se ne potrebbe concludere che dopo l’entrata in vigore dell’articolo 18 sono nati più posti di lavoro che dopo l’introduzione dei contratti atipici. Naturalmente non avrebbe molto senso considerare una sola variabile economica per spiegare le dinamiche del mercato del lavoro. Ma quello che invece si può affermare con una ragionevole sicurezza è che questa è un’ulteriore dimostrazione che quella garanzia non ha alcun effetto negativo sull’occupazione e sulle decisioni degli imprenditori di assumere o meno.

 

E dunque, ripetiamolo ancora una volta. Il divieto di licenziamenti individuali senza giusta causa non è un problema per l’economia e per le imprese: chi lo dice adopera una mistificazione al solo scopo di destrutturare quanto più possibile le garanzie per i lavoratori e sbilanciare i rapporti di forza sempre più a favore della parte datoriale, anche al di là di quanto questa stessa ritenga necessario. Un’istanza squisitamente di destra, che non ha altre motivazioni che quelle politico-ideologiche. Ci riflettano bene quegli esponenti del centro-sinistra che si sono lasciati affascinare dall’ideologia che dagli anni ’80 è stata purtroppo dominante.

Venerdì, 23. Dicembre 2011
 

SOCIAL

 

CONTATTI