Ora tocca al lavoro: avanti gli ipocriti

Dopo la manovra, la politica imposta dall’asse Francoforte-Bruxelles, che ci condanna alla recessione, prevede un ulteriore passo: la libertà di licenziare, spacciata come uno strumento per favorire la crescita e l’occupazione dei giovani. Nulla di più spudoratamente falso

E, ora, che cosa ci attende dopo la manovra? Gli analisti economici sono chiari almeno su un punto: prescindendo dall’entità del debito, la capacità di pagare gli interessi dipende da due fattori principali: il livello dei tassi di interesse e la dinamica della crescita. Su entrambi  i fronti la prognosi è negativa. L’austerità imposta dall’Unione europea nel mezzo della recessione fa inorridire non solo un “keynesiano”, ma qualsiasi persona di buon senso.

Naturalmente, le autorità dell’Unione europea non ignorano le conseguenze della loro politica. Se la Bce intervenisse (o soltanto annunciasse esplicitamente il suo intervento) sui mercati finanziari ponendo un freno alla speculazione sui debiti sovrani, un paese come l’Italia che ha lo stesso debito di prima della crisi del 2008, ma il più basso disavanzo tra i grandi paesi dell’Unione, sarebbe affrancata dal ricatto degli spread.

Ma, come ha spiegato Jens Waidemann, presidente della Bundesbank, la pressione dei mercati finanziari serve a imporre ai paesi della periferia l’austerità e le riforme di struttura. Quali riforme di struttura? Dopo le pensioni rimane il mercato del lavoro. Monti lo sa e ha annunciato che questo sarà il nuovo passo. Che cosa chiede l’asse Francoforte - Bruxelles lo sappiamo con chiarezza, anche perché fu messo nero su bianco nella famosa “lettera” di mezza estate. L’obiettivo della riforma del mercato del lavoro è la madre di tutte le flessibilità: la libertà di licenziare.

L’aspetto più sconcertante è che questa misura è spacciata come uno strumento per favorire la crescita e l’ occupazione dei giovani. Nulla di più spudoratamente falso. La libertà di licenziare è tipica del modello di relazioni industriali americano. Considerate per un momento i dati. La disoccupazione americana è raddoppiata dopo la crisi, rimanendo stabile intorno al 9 per cento. La produttività è cresciuta e con essa i profitti , mentre il lavoro diminuiva più che proporzionalmente rispetto alla produzione. Un tipico uso capitalistico della crisi. Ma non fatale. In Germania, imprese, sindacati e governo hanno operato diversamente, assumendo l’impegno a non licenziare, praticando la riduzione dell’orario di lavoro per tutti con una compensazione del salario a carico dello Stato. Il risultato è stato prima un lieve aumento della disoccupazione, poi il recupero e infine, nel 2011, la riduzione  della disoccupazione al disotto del livello pre-crisi.

Bisognerà dire al governo Monti che la liquidazione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori non ha niente a che vedere con la crescita economica, ma solo con la crescita della disoccupazione. Il fatto che a sinistra (o in una presunta sinistra) vi siano i vari Ichino che propugnano  la libertà di licenziamento, magari mascherata da “contratto unico” o flexicurity, non è una buona ragione per americanizzare i rapporti di lavoro, operazione i cui esiti sono sotto gli occhi di tutti.

I giovani non trovano lavoro perché senza crescita il lavoro non c’è, non perché i loro padri e le loro madri, tra 45 e 50 anni, non sono licenziabili senza giusta causa. La precarietà si combatte riconducendo le tipologie di lavoro che giustificano i contratti a termine a un numero ragionevole e nell'ambito di precise condizioni contrattuali, non generalizzando la precarizzazione. Cercare l'eguaglianza nel peggioramento generalizzato delle condizioni di lavoro e di vita sarebbe grottescamente privo di senso se non corrispondesse all'ideologia dell'autoregolazione dei mercati, compreso il mercato del lavoro che, per definizione, è caratterizzato dallo squilibrio nei rapporti di forza delle parti contraenti.
 

L’altro esempio di flessibilità dei diritti e delle condizioni di lavoro secondo il modello americano è stata fornita da Marchionne: la demolizione della contrattazione nazionale con l’aziendalizzazione dei contratti di lavoro. Marchionne sa bene di cosa si tratta, e non ha torto quando afferma di aver realizzato una (contro)riforma  epocale del diritto del lavoro. Nel settore dell’auto in America ogni grande impresa ha il suo contratto e impone le sue regole. Toyota, Volkswagen, Honda, che hanno le maggiori fabbriche nel sud degli States, pagano salari differenziati e benefit (assicurazione sanitaria e pensione integrativa) ridotti. In queste imprese, l’Uaw, il sindacato dell’auto, il più famoso sindacato americano, è tenuto fuori dalle fabbriche mentre manca un contratto nazionale a tutela dei lavoratori.

Ma l’assenza di una normativa generale in grado di regolare l’organizzazione del lavoro e i livelli salariali si ripercuote anche nelle aziende di Detroit dove il sindacato è sempre esistito. Negli ultimi contratti aziendali, Marchionne ha ottenuto condizioni salariali più vantaggiose rispetto a Ford e General Motors. Ma il punto essenziale è un altro. I nuovi assunti hanno un salario orario dimezzato, circa 14 dollari contro 28 dei lavoratori assunti col vecchio contratto. Così si può lavorare fianco a fianco con un valore del lavoro dimezzato. Sono le aberrazioni della privatizzazione aziendale dei rapporti sindacali.
 
Negli anni Trenta, Franklin Roosevelt volle combattere la crisi non solo con la riforma del sistema bancario, con la creazione del sistema pensionistico pubblico e dell’indennità di disoccupazione, ma con l’istituzione di un nuovo sistema di relazioni industriali – la famosa legge Wagner –  che mirava a fare del sindacato un diffuso e forte contropotere nei confronti delle imprese.

Oggi, si strumentalizza la crisi per far girare all’indietro la ruota della storia. Ma il ricatto della crisi e la condizione di emergenza in cui opera il governo Monti non debbono diventare il grimaldello per scardinare ciò che rimane del sistema di tutele e di diritti essenziali del lavoro conquistati dalle generazioni passate, ma non meno importanti per le generazioni future, alle quali oggi si fa un continuo, ipocrita e ingannevole richiamo. Non fosse altro che per lealtà, il Partito democratico,  in quanto parte essenziale della maggioranza parlamentare, in sintonia con Cgil Cisl e Uil, deve avvertire Monti che vi sono soglie che non possono essere superate.

Sabato, 17. Dicembre 2011
 

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