Le priorità del paese anormale

Due elementi, purtroppo assai negativi, ci differenziano dagli altri paesi europei: i livelli senza confronto di evasione fiscale e criminalità organizzata. Neanche un governo d’emergenza può permettersi di trascurarli. Una sfida difficile ma irrinunciabile

Nei racconti della crisi che abbiamo letto in questi mesi, alcuni temi chiave ricorrono nelle versioni sia di destra che di sinistra. L’Europa, unione economica priva di unità politica, non è in grado di arginare la speculazione finanziaria, che a sua volta ha un potere soverchiante rispetto all’economia reale. Le banche, che sono all’origine della crisi per le spregiudicate manovre speculative, vogliono ora a scaricarne i costi sulle vittime. L’asimmetria tra lo spazio sopranazionale in cui si muove il capitale finanziario, senza confini, e quello, angusto, in cui è costretta la politica nazionale è cresciuta tanto da risultare insopportabile. La democrazia è in pericolo quando le decisioni sono sottratte al popolo sovrano da un potere assoluto, privo di legittimazione democratica, come quello finanziario. Che si personifica in consessi oligarchici impermeabili a qualunque forma di controllo (Fmi, Bilderberg, Aspen, Trilateral, ecc.).

 

Si riconosce, in ciascuna delle chiavi di lettura che ho sommariamente ricordato, l’eco di elaborazioni tutt’altro che banali, in genere riconducibili a studiosi di sinistra (nelle sue diverse espressioni mondiali). E’ però anche facile rintracciare il tratto comune che fa di ognuna di queste letture un ottimo alibi per la nostra destra, che le ha assunte quali litanie consolatorie per la vicenda del nostro paese nella crisi (e per la fine ingloriosa del governo Berlusconi): concentrano l’attenzione su processi internazionali, sminuendo peso e potere delle politiche nazionali. Così confezionati, piegati alle miserie di un’arringa a difesa del nostro governo nazionale, i racconti perdono ogni capacità esplicativa e si trasformano nell’ennesima favola assolutoria.

 

In un’intervista rilasciata al Messaggero, proprio mentre Berlusconi si accingeva a salire al Colle, Romano Prodi ha pensato bene di piantare un cuneo, acuminato, per mettere le cose nel giusto ordine. In poche parole ha fatto presente come l’Italia presenti due anomalie vistose, rispetto ai paesi partner in Europa e fuori: criminalità e evasione fiscale, tra loro strettamente intrecciate così da trarre linfa l’una dall’altra. Anomalie facilmente quantificabili con pochi dati, ben noti, collocati in un confronto internazionale che, si badi, ci accomuna a un solo altro paese: la Grecia, non a caso.

 

Di questo tema spinoso si tende a non parlare, mentre si insedia un governo di emergenza per la transizione verso la normalità. Queste sfide tuttavia l’Italia non deve vincerle contro qualche mostro straniero. Piuttosto, sono molti i paesi stranieri che trarrebbero grandi vantaggi da una lotta senza quartiere a queste anomalie nel nostro paese (così come non ci si deve nascondere che altri paesi abbiano dato benevola accoglienza alle loro terminazioni locali di questi fenomeni per trarne vantaggio). Ma la radice del problema è nel nostro territorio, ricade sotto la nostra giurisdizione e sfida la nostra politica nazionale, oltre alla capacità di tessere le alleanze internazionali utili per vincere questa guerra.

Non è un mistero che il governo Berlusconi, anziché contrastare queste anomalie, le ha poste a base del suo consenso elettorale, vero pilastro, se si va oltre la facciata, del suo programma politico. Aver tentato di risanare i conti senza intaccare minimamente nessuno di questi due macigni è stata la ragione ultima, fondamentale, del suo fallimento e del suo discredito internazionale.

 

Ora è questa la sfida per il governo Monti, se non ci si vuole fermare alla superficie delle cose. Non può non fare una politica di contrasto di questi due fenomeni, determinata e inflessibile. Non può non sapere, al tempo stesso, che si tratta di una svolta a 180 gradi rispetto alla politica di Berlusconi e al blocco sociale su cui si è retto. Comunque la si metta, questa è la Rodi dove è chiamato a danzare. In mezzo non può stare. L’unanimità non è consentita, non è nelle cose.

 

Se poi aggiungiamo la sfida cui è chiamato in Europa, che non è solo recuperare credibilità ma spenderla per portare la Germania a cambiare politica, la tenaglia si fa ancora più stringente. Altro che succube di poteri forti: deve sfidare il potere più forte sulla scena europea e vincerne le resistenze.

 

La Germania è il paese chiave, ma nel momento più delicato della sua storia nel dopoguerra ha pensato di affidarsi a una Frau-cancelliera che doveva tranquillizzare, con buon senso e moderatismo, la pancia di un paese spaventato dalle incognite della crisi. Così, proprio quando erano richieste decisioni innovative e coraggiose, quel paese si è ritrovato nelle mani di una leadership debole, aggrappata a ideologie vecchie e prive di senso nel contesto mutato. Un potere forte in mani deboli, questo deve ora affrontare il premier italiano Monti. Che, da problema principale, si trova ad essere la soluzione in cui tutti sperano (senza cessare di rappresentare un grosso problema).

 

Un inciso sul PD, partito che continua a distinguersi per la generosa ospitalità che riserva a chi si ingegna pervicacemente a inventare sempre nuove forme di autolesionismo. Nel momento in cui il Paese intero (“l’Italia prima di tutto” è il concept di questa fase, per il partito, o no?) deve scommettere sulla capacità di Monti di ricondurre alla ragione la rigidità un po’ ottusa della Germania, scoppia una polemica interna contro il responsabile di Economia e Lavoro in segreteria, Stefano Fassina, reo … di aver preso le distanze da una politica europea troppo rigida e troppo ottusa. Non è questione di ritorno al centralismo democratico: sarebbe sufficiente una sana autolimitazione del gigantismo dell’ego, ovvero un po’ di senso di responsabilità.

 

Va detto che c’è una seconda versione dei racconti assolutori, meritevole anch’essa di attenzione, piuttosto diffusa tra alcuni commentatori e chierici che non se la sentono di nascondere la lampante verità di cui sopra ma ne danno tuttavia una spiegazione di comodo. Le due anomalie sarebbero, secondo costoro, il frutto e la manifestazione vistosa della corporativizzazione che ha pervaso la nostra società in tutti i suoi gangli e - conclusione assolutoria - in tutte le sue articolazioni politiche.

 

Sarebbe ipocrita negare responsabilità anche a sinistra. Gli argomenti per un’indulgenza eccessiva non sono mai mancati. Tanto per dire: “la soluzione è solo in una società diversa, non più capitalistica”; “se il consenso è la base di tutto, non si può scendere in guerra contro un tratto genetico del popolo italiano”; “c’è crimine e crimine, c’è evasione e evasione: fare la faccia feroce può far del male a povera gente che con quei comportamenti difende la pura sopravvivenza”. Pur con questo, nella notte in cui tutte le vacche sono nere si fa violenza alla realtà dei fatti e si stravolge la storia del nostro paese. Se nell’area moderata che ha governato nel dopoguerra vi sono state singole personalità che hanno fatto del rigore contro queste anomalie una bandiera, le sole organizzazioni che hanno fatto politica, formulato proposte, mobilitato masse, ottenendo concreti risultati nella liberazione del paese dai lacci corporativi, sono state quelle del movimento operaio.

Gli esempi compongono un quadro che risalta nella storia repubblicana, motivo di vanto e di orgoglio per chi ne è stato protagonista.

 

Pensiamo alla fase delle grandi riforme sociali (pensioni, sanità, scuola, casa, statuto dei lavoratori, perfino la vituperata abolizione delle gabbie salariali) che corrispondevano all’interesse del lavoro dipendente ma allargavano l’orizzonte a un universo di diritti per l’insieme degli strati deboli della società, dando vita ad un welfare che, oggi sotto accusa per la sua generosità, di fatto ha pesato sulle finanze pubbliche meno degli omologhi istituti nei principali paesi europei. Poi la fase della lotta al terrorismo, su cui non serve spendere parole. Ancora, dopo una fase di grande travaglio e di divisioni, i lavoratori dipendenti si sono accollati l’onere di riassestare le finanze pubbliche senza che nessuno degli altri ceti o gruppi sociali partecipasse neanche in minima misura a quel sacrificio. Dal drammatico luglio ’92 (Trentin si dimise da segretario generale e andò incontro a fischi e bullonate, ma dopo aver firmato un accordo che definì al tempo stesso iniquo ma senza alternative) passando per l’accordo del ’93 con Ciampi e la riforma delle pensioni del ’95 con Dini, fino al Patto per il Lavoro del ’96 con Prodi e Treu sono state gettate le basi per riforme di struttura rigorose e proiettate verso il futuro in un’ottica di sostenibilità intergenerazionale.

 

Quale altra organizzazione di rappresentanza di interessi può dire di aver fatto altrettanto? Si può ricordare un solo atto proveniente da altri settori sociali in cui si possa riconoscere un’analoga attenzione all’interesse generale, nazionale?

 

Non è compito dell’impresa fare beneficenza, si è sentito dire. Devono dunque farla i lavoratori dipendenti, a favore per di più dei ceti abbienti? Doveva pur essere restituito qualcosa di ciò che era stato acquisito in eccesso, si è anche detto. Eccesso rispetto a che? Restituire a chi? Cedere qualcosa per rilanciare la crescita? Perché mai, allora, all’aumento della quota di reddito distribuita ai profitti è corrisposto un rallentamento del PIL?

 

Nossignori, la moderazione salariale serviva a frenare l’inflazione e non ad altro. Si doveva anzi evitare ogni effetto collaterale sulla distribuzione del reddito e sulla crescita adottando una politica dei redditi rigorosamente equa. Ma questa è clamorosamente mancata e si sono invece registrate le vistose alterazioni nella distribuzione a favore di profitti e rendite finanziarie.

 

Il change over dell’euro e il dilagare del lavoro precario sono state le manifestazioni più vistose di questa “guerra di classe” scatenata dalle corporazioni, da tutte le altre corporazioni, contro lavoratori dipendenti e pensionati. Cosicché oggi molti si chiedono semmai se quei sacrifici fossero giustificati. Se il gioco sia stato leale. Se non sia stato compiuto un errore storico.

 

Anche chi, come me, non crede che di questo si sia trattato, è però cosciente che l’egoismo corporativo, la “guerra di classe” delle corporazioni (e il silenzio complice dei chierici che hanno tradito la loro missione) non possono continuare oltre, senza colpire a morte la coesione sociale e gli stessi presupposti della democrazia. Detto in parole povere, non si tratta né di rivincite né di vendette, ma di giustizia. Ma, benché sembri affiorare qualche segnale di presa di coscienza in alcune delle organizzazioni di rappresentanza, sarà tutt’altro che facile.

Martedì, 29. Novembre 2011
 

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