Come riprendersi il futuro rubato

L'era Thatcher-Reagan e l'avvento di governi di centro-destra hanno aperto il periodo del liberismo vero o presunto. Il fallimento di queste politiche è stato certificato dalla crisi mondiale con il suo corollario di massicce redistribuzioni dei redditi dai poveri ai ricchi. Ora è tornato il momento della programmazione come strumento di politica economica

Lo sviluppo della programmazione economica nei Paesi occidentali ha subito negli ultimi sessant'anni una serie di oscillazioni connesse con le mutazioni dei sistemi economici e politici nonché dei modelli teorici ed applicativi ai quali tali sistemi si ispiravano.

Le economie di guerra caratterizzarono quasi tutti i Paesi del mondo nel periodo 1939-1945. Essi usarono la programmazione come strumento operativo. La pianificazione militare discendeva dall'unicità dell'obiettivo (annientare il nemico) e dalla necessità dell'uso razionale di risorse scarse; essa risultava divisa in tattica e strategia, al variare di parametri spaziali e temporali. Ma la guerra mondiale assunse altresì caratteri totalitari che implicarono la pianificazione dell'intera economia di un Paese. Rimase un esempio straordinario di efficienza organizzativa e di assoluta segretezza il progetto Manhattan, con una pianificazione colossale sfociata nella sperimentazione del primo ordigno nucleare ad Alamogordo.

 

Nell'immediato dopoguerra, non, come si crede, per una imitazione dei sistemi economici del socialismo reale, ma come naturale prosecuzione dell'esperienza militare per il perseguimento di obiettivi di tipo civile, si è assistito ad una fioritura di "Piani". La programmazione venne impiegata per indirizzare le risorse, anche private, verso finalità ritenute prioritarie per il benessere collettivo. Nacquero una miriade di Piani: il Piano Marshall, il Piano Bevan, il Piano Sinigaglia (per ricostruire la siderurgia italiana), i Piani per il Mezzogiorno d'Italia, i Piani La Malfa, Giolitti e Pieraccini. Uno degli ultimi grandi Piani occidentali, nato sulla carta e sulla carta defunto, è stato a livello europeo il Piano Delors, seguito poi dagli “Obiettivi di Lisbona” e ora da “Europa 2020”. Nelle azioni comunitarie, la programmazione rimane come metodologia, con quel tanto di burocratismo e con quel corteo di complessa modulistica che questo modo di orientamento delle risorse spesso comporta.

 

L'era Thatcher-Reagan e l'avvento di governi di centro-destra in alcuni Paesi europei aprono il periodo del liberismo vero o presunto e segnano la fine della stagione della programmazione come strumento di politica economica. La pianificazione delle azioni, sia  nella scelta tra alternative contemporanee che in proiezione futura è connaturata alla specie umana. Secondo Kipling, questa seconda caratteristica, e cioè programmare per il futuro, sarebbe quella che distingue l'uomo dalle scimmie, le quali, sempre secondo il romanziere, non ne sarebbero in grado (cosa che, naturalmente, non è esatta). Ma la distinzione radicale fra la programmazione accettabile negli schemi neo-liberisti e quella esplicitamente esclusa, dipende dunque dai soggetti, dagli strumenti e dagli obiettivi.

    

Il liberismo prende le mosse da lontano. L'individualismo, sia etico che economico, affonda le sue radici nel pensiero di Hobbes, di cui si ricorda anche l'"homo homini lupus", famosa battuta smentita dagli etologi, perché il lupo, tipico animale di branco, socializza con i suoi simili. Altri riferimenti si trovano nelle monadi di Leibniz e nel pensiero scientifico e politico dell'800. In questo quadro la pianificazione farà dunque capo a soggetti individuali, o comunque privati (produttori, consumatori, imprese societarie); lo strumento sarà quello dello scambio in regime di mercato; l'obiettivo il profitto individuale o aziendale o la soddisfazione, anch'essa personalizzata. L'incontro-scontro dei piani individuali sul mercato sotto particolari condizioni dovrebbe produrre un massimo colllettivo. Nella realtà storica i governi di centro-destra non hanno mai realizzato - né, probabilmente, voluto perseguire - le condizioni molto stringenti di questa costruzione utopistica, fra cui l'eguaglianza tendenziale delle posizioni di partenza, una relativamente equa distribuzione dei redditi e una libera concorrenza trasparente. Di conseguenza in Italia abbiamo registrato per un periodo ventennale, con fragili interruzioni sottoposte al fuoco dei mezzi di comunicazione di massa controllati da oligarchie politico-economiche, una strana concezione della programmazione. Essa risultava caratterizzata dal prevalere di un individualismo anche etico (padroni in casa propria), accompagnato dalla pianificazione di gruppi di potere che tendevano a realizzare obiettivi settoriali o di sotto-governo, solleticando le pulsioni dei piani individuali insieme all'impiego di una coazione centralistica in aperto contrasto rispetto ad un conclamato cammino federalista. Questo incontro-scontro di interventi non gerarchicamente coordinati, dove la classe politica espressa dalla maggioranza scivolava gradualmente verso l'obiettivo riduttivo della propria sopravvivenza, ha originato una politica economica decisamente incoerente, nella quale l'unico elemento razionale era rappresentato dal vincolo esterno della quadratura dei conti.

    

Il tipo peculiare di applicazione della dottrina neo-liberista alla realtà italiana ha prodotto conseguenze negative di fondo che incidono sulla struttura socio-economica ed anche sulla morale collettiva del Paese. Prescindiamo da questi riflessi di tipo etico, che pure hanno contribuito ad intaccare la solidarietà fra gruppi sociali e a favorire fenomeni di disgregazione e disagio, e soffermiamoci su quelli economici. La vocazione autoritaria dei nostri governi di centro-destra si è mescolata con tensioni individualistiche in un cocktail indigeribile. A parte qualche guizzo nominalistico (Piano Casa), i governi Berlusconi non hanno implementato in un arco temporale di quasi un quarto di secolo nessuna forma di programmazione a medio-lungo termine. Si è assistito ad una pioggia di provvedimenti, talora vincolanti, ma tra loro slegati o conflittuali. Il venir meno della programmazione-quadro ha inciso sfavorevolmente non solo sulla programmazione aziendale (escluse le multinazionali), ma anche sui piani individuali. In questo senso la gioventù italiana ritiene di essere stata derubata del proprio futuro.

    

La manifestazione più eclatante consiste nella manovra  in discussione in Parlamento, nella quale, in assenza di indirizzi organici di politica economica, si presenta un'accozzaglia di scelte o di non scelte apparentemente casuali con la preoccupazione di schivare reazioni settoriali in un quadro molto dubbio di equilibrio finanziario. Una specie di tentativo di disordinata "captatio benevolentiae" - non sempre riuscita -  del blocco sociale di riferimento.

 

Il fallimento dell'individualismo etico, dell'edonismo socio-economico, del capitalismo rampante e del conseguente oscuramento culturale della programmazione strategica a soggetto pubblico è stato del resto certificato dalla crisi mondiale con il suo corollario di massicce redistribuzioni perverse dei redditi dai poveri ai ricchi. Possiamo immaginare un ritorno alla programmazione nelle forme più adatte allo sviluppo armonico delle economie moderne?

    

Occorrerà innanzi tutto ricostruire il ruolo degli individui e degli operatori economici, alla luce di principi fondamentali radicalmente diversi. Si deve ridefinire la figura dell'individuo nella collettività come persona solidale, partecipe, cioè, delle gioie e delle sofferenze dei suoi simili. Esemplificando all'estremo, i ricchi dovrebbero essere più felici in un Paese dove non vi siano poveri né poverissimi. Un ragionamento analogo vale per gli operatori economici. La stessa concezione della concorrenza (peraltro mai correttamente realizzata) come meccanismo conflittuale cade di fronte alle economie di scala, a quelle di varietà ed alle sinergie fra imprese e settori. Ma cade del pari la dicotomia, intesa come contrapposizione fra pubblico e privato. In questo quadro può rinascere la programmazione a soggetto pubblico. Essa assumerà caratteristiche differenti a seconda degli strumenti impiegati e degli obiettivi prescelti.

 

Avremo, dunque, una programmazione normativa che disegna i confini e crea di fatto i percorsi di lungo periodo dell'attività economica privata. Essa rappresenta l'esatto opposto del legiferare convulso, contraddittorio e personalistico che ha caratterizzato una fase politica durata, con intervalli non sempre entusiasmanti, circa un ventennio. Le imprese, pur refrattarie in linea di principio rispetto alla normativa in qualche caso vincolistica, ne traggono di fatto beneficio e sono sostanzialmente favorevoli, perché essa fissa i cardini entro i quali può muoversi senza incertezze di tipo legislativo la loro stessa pianificazione a medio-lungo termine.

    

La programmazione finanziaria, che è spesso imposta da vincoli esterni. Essa ha un aspetto quantitativo, che i governi europei a fatica cercano di rispettare nei limiti in cui la virtù viene premiata e la devianza punita; ed uno qualitativo. Quest'ultimo rispecchia problemi ed istanze di ciascun Paese e comporta l'impiego di meccanismi come la "spending review", riscoperta da Tremonti nel disprezzato bagaglio delle esperienze prodiane. E' come se assistessimo alla programmazione del film "Prodi 3 - La vendetta", o, "La resurrezione di Visco-Dracula", constatando la riadozione del sistema della tracciabilità dei pagamenti e del tanto odiato redditometro (tramutato in spesometro). Una paradossale convergenza con le battaglie dell'estrema sinistra, all'epoca giudicate "deliranti", si coglie nella introduzione dell'imposta di bollo sul deposito titoli. Di fatto, una patrimoniale (orrore!) sui risparmiatori. Per incidens, finisce per favorire quelle aziende, di Berlusconi, che offrono il cosiddetto "conto deposito". A pensar male si fa peccato, ma...

    

La programmazione degli investimenti pubblici. A chi obiettasse che si tratta di una pianificazione che non è mai scomparsa, si possono opporre due ordini di considerazioni: a) la necessità di osservare scrupolosamente i collegamenti con la programmazione finanziaria; b) il fatto che, di fronte ai rapidi ritmi del progresso tecnico, la pianificazione ad arco temporale troppo lungo può produrre rigidità che si traducono in obsolescenza dei progetti. Qualche tratta dei corridoi europei andrebbe forse ripensata.

 

In una società caratterizzata dal recupero del ruolo delle sinergie come fattore non solo tecnico, ma anche morale e civile, l'analisi costi-benefici dovrà anch'essa essere rivalutata e le sue metodologie raffinate. In questa direzione sembrano muoversi gli studi che indicano nella felicità collettiva e non nel Pil la misura della dinamica del reddito. Ritornando così alle geniali intuizioni degli economisti italiani di fine '800 e dei primi del '900, riprese nel filone dell'economia del benessere che per qualche decennio sembrò gettata nei rottami della storia.

 

Il tramonto dell'individualismo etico e il risorgere del solidarismo sociale e dell'economia a costi e ricavi congiunti potrebbe segnare la rinascita in forma non autoritaria, ma autorevole, della programmazione pubblica. Una società civile in grado di programmarsi in un quadro macroeconomico strutturato si riappropria, per così dire, del proprio futuro.

Lunedì, 11. Luglio 2011
 

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