Bersani dice una cosa di sinistra

In una recente intervista televisiva il segretario del Pd, alla domanda su quali sarebbero stati i suoi principali obiettivi programmatici, ha risposto con una sola parola: il lavoro. Dopo gli anni dell'egemonia liberista è un buon segnale che si voglia ripartire da lì

Quando Fazio, nel programma televisivo “Che tempo che fa” del primo novembre, ha chiesto al nuovo segretario del PD, quali sarebbero stati i principali obiettivi programmatici della sua segreteria, Bersani ha chinato la testa ed è rimasto per qualche attimo pensoso. Ci  si poteva attendere che ricapitolasse mentalmente quattro o cinque punti essenziali del suo programma. Ma non andò così. Bersani rispose con una sola parola: il lavoro. Potrebbe essere quasi un’ovvietà per un partito che intende riprendere il filo di una lunga tradizione di sinistra. Ma per molti versi si tratta di qualcosa di nuovo, qualcosa di sinistra.

 

Rispetto a un anno fa la crisi finanziaria e economica che ha scosso il pianeta ha mutato faccia. Il salvataggio del sistema finanziario ha funzionato. Le banche sono tornate alla speculazione e ai profitti, tanto da far temere che si stia ricaricando la molla di un nuova bolla finanziaria. Ma l’economia reale stenta a riprendersi, la disoccupazione continuerà a crescere nel 2010 e, per tornare ai livelli pre-crisi, ci vorranno molti anni.

 

Dunque, la disoccupazione si ripropone al centro del discorso. Per affrontarla non basta l’invocazione di più ampi ammortizzatori sociali, che pure sono indispensabili. Per essere credibile e mobilitante una piattaforma sul lavoro deve affrontare la questione della sua precarizzazione che per milioni di giovani, di donne, di normali lavoratori ha acquistato insopportabili connotazioni esistenziali. Da questo punto di vista non basteranno le buone intenzioni. La sinistra dovrà rivedere alcuni paradigmi che si sono rivelati sbagliati ma che sono duri a morire.

 

Bisogna partire dal fatto che la crisi, nata negli Stati Uniti, si è presentata col volto della bolla finanziaria, ma aveva le sue radici più profonde negli enormi squilibri sociali accumulati nel corso degli ultimi decenni. Il lavoro è stato il bersaglio di tutte le controriforme dirette ad abbattere le istituzioni di regolazione del mercato del lavoro e le misure di progresso sociale conquistate nel corso del secolo passato. Questo lungo processo è stato al centro delle politiche economiche neo-conservatrici, ma le sue idee si sono insinuate nella cultura politica della sinistra, portando a una mutazione profonda della sua visione del lavoro. Si tratta sicuramente di un’affermazione controversa, ma sarebbe un segno di profonda miopia ritenere giuste le scelte compiute in tema di lavoro dalle forze di centrosinistra (al governo e all’opposizione) senza sottoporle a un vaglio critico.

 

A me pare che la sinistra abbia subito – quando non vi ha esplicitamente aderito o se n’è fatta promotrice - l’idea (sbagliata) che la globalizzazione e la rivoluzione informatica imponevano la deregolazione dei mercati, lo schiacciamento dei salari, la compressione dello Stato sociale. In effetti, i cambiamenti dei modelli di produzione domandavano forme di flessibilità nell’organizzazione del lavoro. Questo è fuori discussione. Ma la flessibilità non è la madre della deregolazione. Al contrario, esige regole rigorose, controlli, equilibrio fra esigenze della produzione e bisogni individuali e collettivi. Affrancata da forme efficaci di regolazione e di controllo, la flessibilità che doveva essere, dal punto di vista dei lavoratori oltre che delle imprese, il superamento (auspicabile) delle rigidità fordiste, ha assunto connotazioni selvagge, dando luogo alla metamorfosi della flessibilità in una diffusa e incontenibile precarizzazione del lavoro.

 

Chi avrebbe mai negato – non l’hanno certamente fatto i sindacati italiani – una corretta flessibilità degli orari nel corso della settimana, del mese, dell’anno? Chi un cambiamento, arricchimento, agglomerazione delle mansioni e una corrispondente dinamica delle professionalità? Ma queste forme di flessibilità, pur importanti nella nuova organizzazione del lavoro rispetto alla variabilità  e alla turbolenza dei mercati, una volta acquisite, sono state considerate secondarie non ostante consentissero il rivoluzionamento del vecchio modello produttivo.

 

L’inesausta domanda di flessibilità si è spostata a questo punto sul mercato del lavoro. Ma anche in questo caso le nuove forme di flessibilità si sono progressivamente affermate. Chi ha mai negato forme di lavoro “atipiche” come i diversi modelli di part time, adatte ancora una volta a rispondere a diverse esigenze organizzative? O forme di lavoro temporaneo, una volta definite le condizioni contingenti e reversibili del loro uso? Ma nemmeno questo è bastato per soddisfare la vorace domanda di deregolazione. Col risultato di avere oggi una quantità, alla lettera, indicibile di contratti precari, la cui caratteristica è l’incertezza della condizione di lavoro elevata a paradigma esistenziale.

 

Ma, attenzione. Nemmeno questo è sufficiente. Quando la Banca centrale europea chiede la riforma  del mercato del lavoro (e, ossessivamente, l’ennesima riforma delle pensioni) si riferisce a una cosa precisa , benché spesso velata da impacciate circonlocuzioni: la libertà di licenziamento. E a cosa si riferisce, sia pure con più schiva ipocrisia, la Commissione europea quando introduce la “flexsecurity”, se non alla libertà di licenziamento compensata da un risarcimento monetario per la perdita del lavoro, e alla mitica formazione, miracolosamente destinata all’improbabile incontro fra offerta e domanda di lavoro?

 

Mai come in questo caso le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Ora, dopo che un’analoga riforma molto più modesta, proposta da Sarkozy, è stata rigettata in Francia, si propone in Italia un finto contratto unico a tempo indeterminato (si vedano gli articoli in questo numero di EL di Clericetti, Principe e Fioretti) che con sofisticati passaggi di cosmesi, porta a un analogo risultato di ampliamento della libertà di licenziamento. E’ un castello di paradossi incrociati. Per superare l’ineguaglianza generata dalla precarietà del lavoro si rendono tutti più precari.

 

Il dibattito è oggi fondamentalmente concentrato sulla ricerca di nuove regole per la finanza. Ma le questioni del lavoro, della sua protezione, dei salari, del principio di eguaglianza come sostanza della democrazia, non sono meno importanti. Individuare una piattaforma per il lavoro non è un compito semplice. Ma aprire una nuova riflessione prendendo atto della rottura ideologica che accompagna la crisi può (dovrebbe) essere un compito decisivo per una rinascita della sinistra. Le forze intellettuali e le esperienze da cui prendere le mosse non mancano. Volendo, il nuovo segretario de PD potrà non solo dire, come sarebbe piaciuto a Moretti, ma ricominciare a praticare, partendo dal lavoro, qualcosa (autenticamente) di sinistra.

Giovedì, 5. Novembre 2009
 

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