Una politica economica europea: ora o mai più

Sedici anni fa il Piano Delors affrontava una situazione di crisi: non si trovò mai la volontà di attuarlo. Anche oggi, di fronte a problemi ben più gravi, l'Unione si muove in ordine sparso. Ma se non si trova una soluzione concordata, protezionismi ed egoismi nazionali prenderanno il sopravvento

Quasi sedici anni fa la Commissione dell’Unione Europea, presieduta da Jacques Delors, presentò un Libro Bianco incentrato su tre temi: crescita, competitività e occupazione. In quel momento l’Europa attraversava una seria fase recessiva, anche se meno drammatica di quella attuale. Le cause dipendevano da una politica monetaria restrittiva che era stata effettuata da Greenspan negli USA e dalla Bundesbank in Germania, dalla guerra nel Golfo e dalla caduta dell’Unione Sovietica. Tra le varie proposte del Libro Bianco vi era quella di una politica coordinata a livello europeo di investimenti (pubblici e privati) lungo alcune grandi linee direttrici: reti trans europee, ricerca e sviluppo, biotecnologie, ecc… Per il finanziamento degli investimenti Delors proponeva l’emissione di bond europei, emessi cioè dalla Commissione stessa, e sottratti quindi ai vincoli sul deficit e debito posti dal Trattato di Maastricht e dal Patto di Stabilità.

 

La proposta è sempre stata respinta, in particolare dalla Germania e dal Regno Unito, per ragioni diverse. Nel caso del governo britannico, l’ostilità alla proposta Delors dipendeva dal fatto che essa portava ad un maggior ruolo delle strutture comunitarie, al coordinamento delle politiche economiche, quindi in sostanza verso un’accentuazione del carattere federale dell’Unione. Nel caso del governo tedesco, la contrarietà dipendeva dalla preoccupazione che l’emissione dei bond gravasse eccessivamente sulla Germania. Questa preoccupazione poteva anche avere un senso prima della nascita dell’euro; si poteva pensare che emettere bond europei avrebbe richiesto dei tassi di interessi determinati dalla media dei tassi europei; la Germania aveva i tassi più bassi e quindi poteva temere che il costo si sarebbe abbassato per altri paesi (come l’Italia), ma si sarebbe alzato per lei.

 

In realtà con la nascita dell’euro si è visto che la struttura dei tassi tendeva verso il livello più basso (BCE permettendo); pertanto una ripresa della proposta Delors oggi non dovrebbe trovare ostacoli da parte della Germania, se veramente la preoccupazione fosse solo quella del costo. Anzi, in un recente articolo (Il Sole 24 Ore del 13 febbraio) Alberto Majocchi afferma che in uno studio dell’ISAE (di cui è il presidente) si è posto in luce che la Germania sarebbe il paese che più beneficerebbe da un piano di investimenti finanziato dall’UE.

 

Ma vi è un’altra ragione per cui la proposta Delors è rimasta inascoltata, malgrado i tentativi di Tremonti di riprenderla, in vario modo. La ragione sta nella contrarietà delle grandi banche ad avere un temibile concorrente sui mercati finanziari. Malgrado la crisi finanziaria globale abbia messo a terra larga parte delle banche, l’influenza del settore presso i governi è ancora notevole, e si è potuto verificarla quando il governo tedesco, a cominciare dalla premier Merkel e dal ministro delle Finanze, il socialdemocratico Steinbrueck, aveva dichiarato che la crisi finanziaria non  toccava il paese e che non c’era nessuna ragione di avventurarsi in pericolosi programmi vetero-keynesiani di spesa.

 

Non è sorprendente quindi che ogni paese europeo è andato per la sua strada; chi con politiche di bilancio molto espansive, come il Regno Unito (non è una novità: il governo conservatore di Major nel 1992 aveva fatto lo stesso), chi meno come la Francia, chi meno ancora come la Germania, e chi per nulla come l’Italia. In tutti i paesi comunque si interviene a sostegno delle banche e dei settori industriali più colpiti come l’auto, e ciò sta causando varie alzate di sopraciglio del Commissario alla concorrenza Neelie Kroes, nonché un serie di preoccupati articoli di commentatori, che paventano un ritorno al protezionismo. Il tema travalica l’Europa, e nelle riunioni internazionali (ultimo il G7) si discute del buy american; il presidente di turno della UE, il ceco Topolanek, ha convocato una riunione per mettere sotto accusa l’achetez francais, e le affermazioni di Sarkozy “se un’impresa francese produce auto in India per venderle agli indiani va bene, ma se le produce a Praga per venderle in Francia no”.

 

Si dovrebbe però spiegare a Topolanek  che è troppo comodo invocare il mercato unico e la libertà di movimento dei capitali, nonché i fondi strutturali europei, e poi fare la concorrenza fiscale, che determina una continua tendenza alla diminuzione delle aliquote sulle imprese in tutta l’Europa occidentale. Si dovrebbe anche spiegare al Commissario europeo che quando manca un’azione concertata è inevitabile che i lavoratori, che vedono i soldi pubblici (quindi anche loro) andare alle imprese, non  vogliano essere “mazziati e cornuti”. Si potrebbe citarle anche il caso di una banca del suo paese (l’Olanda) che sta facendo pubblicità in Italia promettendo alti interessi ai depositanti, e guarda caso, la banca ha ricevuto in cospicua iniezione di vari miliardi dal governo.

 

Beninteso, che il ricorso al protezionismo finisca per danneggiare tutti i paesi è vero sia a livello internazionale che a livello europeo, ma l’unico modo per uscirne è quello di accordi internazionali e, nel caso dell’Europa, di una politica concordata, con criteri comuni. Un tempo si diceva “se non ora, quando?”; c’è da temere che la risposta sia: mai.
Venerdì, 27. Febbraio 2009
 

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