I commedianti e la realtà della crisi

Mentre in tutto il mondo si varano interventi massicci per evitare una recessione più dura e prolungata il governo Berlusconi recita a soggetto, invitando all'ottimismo e ai consumi e baloccandosi con magistratura e presidenzialismo. La gravità della situazione è un'occasione per l'opposizione di tornare a esistere e riconquistare fiducia

Chi farà la storia della crisi economica  del 2008 si troverà a confrontare le politiche con le quali i diversi governi hanno cercato di fronteggiarla. Si scoprirà che alcuni paesi  avranno adottato misure più efficaci, e dalla crisi saranno usciti prima o con minor danno, mentre altri avranno palesemente sbagliato. Dell’Italia il futuro storico non potrà dire nulla, sarà un buco nero. Il governo italiano si è estraniato dal resto del mondo. Berlusconi ha negato la crisi o l’ha oscurata. C’era un governo – si scriverà - che diffidava giornali e televisioni dal soffermarsi sull’argomento. Questo non significa che il governo si astenesse dal dare direttive e consigli. Rimasticando come una chewing gum un keynesismo per sentito dire, in base al quale se si consuma si aumenta la domanda, le imprese producono e nessuno è licenziato, il capo del governo non si stancava  di predicare l’ottimismo.

Un invito fasullo e irridente perché nel frattempo la più grande impresa italiana ferma la produzione per molte settimane, la Confindustria ammonisce che nel corso del 2009 si conteranno alcune centinaia di migliaia di nuovi disoccupati, e le piccole imprese denunciano l’impossibilità di accedere al credito anche nel ricco nordest. Per non parlare delle regioni del sud, dove la questione meridionale viene reinterpretata come questione giudiziaria. 

Eppure quando sta per finire il primo anno di crisi una cosa appare evidente in America, da dove la crisi è partita, come in Europa. A differenza del 1929, non abbiamo visto lunghe file di depositanti agli sportelli delle banche in procinto di fallire. Ci fu il caso della Northen Rock in Gran Bretagna, ma Gordon Brown con una tempestività da vecchio laburista non esitò a spegnere il fuoco dell’allarme, nazionalizzandola, così come in seguito ha continuato a fare con la Royal Bank of Scotland. L’unico caso di fallimento è stato quello della Lehman Brothers, e Henry Paulson, il ministro del Tesoro americano – curiosamente già presidente della concorrente Goldman Sacks – è stato universalmente biasimato per non averla salvata, come poi è stato fatto per tutte le altre banche americane sull’orlo della bancarotta.

Quello che vogliamo dire è che, avendo la maggior parte dei governi adottato misure di carattere eccezionale – si pensi all’azzeramento dei tassi d’interesse da parte della Fed – è probabile che non vedremo altre banche fallire, e questo può essere un bene. Ma, come successe negli anni Trenta, sarà l’economia reale e, in primo luogo, l’occupazione a pagare. Strauss-Kahan, direttore del Fondo monetario internazionale, ha esortato i governi a intervenire con più tempestività e energia: “Sono particolarmente allarmato dal fatto – ha dichiarato - che le nostre previsioni già oscure…diventeranno ancora più nere se non saranno adottati sufficienti stimoli fiscali”. In altri termini le misure monetarie, come il taglio dei tassi, sono necessarie ma insufficienti. La Banca centrale europea, che ha colpevolmente tardato a percepire la gravità della crisi, continuando a gridare al lupo dell’inflazione mentre avanzava l’orso della deflazione, dovrà nelle prossime settimane decidere un drastico taglio dei tassi, anche per evitare il paradosso di un cambio dell’euro intollerabile per quello che rimane delle possibilità di esportazioni europee.

La risposta dei governi alla crisi è molto differenziata. In Europa la linea più aggressiva è quella di Gordon Brown. La Germania sta modificando la propria posizione di incertezza di fronte alle previsioni economiche più recenti che contemplano la possibilità di una de-crescita del PIL del tre per cento, disastrosa non solo per la Germania, ma per tutta l’eurozona.

In questo quadro, l’impegno più deciso è quello del presidente eletto Barack Obama. Mentre aveva annunciato, durante la campagna elettorale, l’impegno a investimenti pubblici di 175 miliardi di dollari, il suo staff sta ora concordando col Congresso una spesa pubblica aggiuntiva dell’ordine di 800 miliardi di dollari che si aggiungono ai 700 già previsti per il sostegno alle banche e alle aziende in crisi. La somma delle due misure equivale a oltre il 10 per cento del prodotto interno lordo. Una cifra colossale la cui motivazione può stare solo nella convinzione che siamo di fronte alla crisi più grave dal tempo della Grande Depressione degli anni Trenta.

E qual è l’atteggiamento del governo italiano nel mezzo di questa tempesta? Non allarmatevi, anzi non lasciatevi allarmare da giornali e televisioni irresponsabili...e, per favore, riprendete a consumare – ripete Berlusconi. Intanto, Tremonti si compiace del fatto che la finanziaria elaborata nell’estate è stata approvata da una maggioranza senza voce, come se nulla fosse successo in questo autunno del 2008.

Il PD e i sindacati hanno avanzato un certo numero di proposte. Ora è il momento di raccoglierle e articolarle in un piano complessivo che non può essere sfrondato, assumendo ora l’una ora l’altra proposta. La loro efficacia dipenderà dal simultaneo funzionamento di un piano organico, senza di che si tratterà di gocce d’acqua nel mare della crisi.

Un pacchetto di interventi dovrebbe prevedere un insieme di misure complementari. Un primo intervento è quello che si prospetta sulla  Cassa integrazione a rotazione - una misura per la quale si sono in passato costantemente battuti i sindacati. Essa ha il vantaggio di non emarginare gruppi di lavoratori, implicitamente avviandone una parte alla perdita del posto di lavoro. Ma se si tratta di una misura apprezzabile in circostanze ordinarie, oggi per essere efficace e diventare una vera alternativa alla minaccia del licenziamento, deve essere estesa a una grande massa di lavoratori che operano al di fuori dei settori e delle dimensioni aziendali attualmente previsti. E debbono inoltre essere rivisti  i “tetti” che limitano fortemente l’integrazione del salario. In mancanza di questi aggiustamenti, saremmo di fronte a un provvedimento che lascerebbe alla mercé della perdita del posto di lavoro la maggioranza dei lavoratori delle piccole e medie aziende e a un consistente abbassamento del salario medio dei lavoratori che ne fruiscono. Un secondo intervento dovrebbe  provvedere all’aumento e all’estensione dell’indennità di disoccupazione per tutti coloro che perdono (o hanno già perduto) il lavoro, indipendentemente dalla forma contrattuale. Un terzo intervento dovrebbe riguardare la restituzione del fiscal drag a favore dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, che negli ultimi anni hanno subito il taglio dei salari reali per il forte aumento dei prezzi dei generi di prima necessità.

Si tratta fin qui di misure tendenti a scongiurare la minaccia di licenziamenti di massa e a fornire un sostegno al reddito. Ma, isolate, non bastano. L’economia ha bisogno di misure di rilancio per evitare l’approfondimento della recessione. Da questo punto di vista, è essenziale sostenere le piccole e medie imprese. Visto che il governo ha garantito alle banche tutto l’aiuto necessario a scongiurare pericoli d’insolvenza, è necessario un accordo col sistema bancario per garantire il credito d’esercizio a tutto il sistema delle piccole e medie imprese. Infine, ma non meno importante, di fronte alla caduta generalizzata degli investimenti, il governo dovrebbe mettere in atto un piano di investimenti pubblici infrastrutturali in grado di essere immediatamente operativi.

Si tratta di piani d’intervento in direzione dei quali si muovono con diversa intensità i governi di tutto il mondo. Possiamo farne a meno in Italia? Abbiamo alternative diverse? Su questi punti l’opposizione e i sindacati (perché non unitariamente?) dovrebbero confrontarsi e incalzare il governo. (Tralasciando temi improvvisati e inconsistenti , come l’imbroglio del “contratto unico” o la sciocchezza della pensione a 65 anni per le donne – si veda a questo proposito l’articolo di Benetti).

Conosciamo l’obiezione a una complessiva piattaforma anticrisi: il disavanzo di bilancio e l’ingente dimensione del debito pubblico. Nelle circostanze attuali si tratta di un'obiezione infondata e, in sostanza, di un alibi. La recessione accresce automaticamente il disavanzo per le minori entrate e per un inevitabile aumento della spesa assistenziale. Ma non basta. Se il paese rimane bloccato in uno scenario di recessione per tutto il 2009 e oltre, il rapporto fra debito e Pil è automaticamente condannato a crescere.

Da qualsiasi punto di vista si giudichi la politica del governo, siamo di fronte all’irresponsabile tentativo di sviare il dibattito da parte di commedianti che recitano a soggetto - dalla separazione delle carriere dei magistrati all’elezione diretta del capo dello Stato. L’opposizione, se  vuole veramente fare il suo mestiere, ha tutte le condizioni per battere un colpo, per tornare a esistere e riconquistare la fiducia di quanti osservano con frustrazione la debolezza e l’incertezza delle sue posizioni.

Martedì, 23. Dicembre 2008
 

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