Votare per salvare la dignità del lavoro

La politica stessa, con i suoi comportamenti, è spesso la fabrica dell'antipolitica. Ma sbaglierebbe chi da questo fosse spinto d astenersi: al Parlamento resta un ruolo importante per difendere diritti conquistati con fatica, e non è lo stesso avere una maggioranza di destra o di sinistra
Secondo i sondaggi fatti, nell’intervallo tra la crisi del governo Prodi e lo scioglimento delle Camere, due italiani su tre si sono dichiarati nettamente contrari ad elezioni anticipate in assenza di un preventivo cambiamento della legge elettorale. Invece tra due mesi andremo a votare, sempre con lo stesso “Porcellum”. Come è noto, a questo epilogo ha alacremente lavorato il centrodestra ansioso di incassare i dividendi di una lunga e massiccia campagna di discredito verso il governo in carica. Ma indipendentemente dalla responsabilità, è piuttosto evidente che la soluzione imposta non aiuterà una ripresa di fiducia degli italiani verso i partiti e la politica. Per altro scesa ai suoi minimi storici  dalla istituzione della Repubblica. La ragioni sono più che comprensibili. Lasciando immutata la proliferazione di partiti e partitini (con poteri di ricatto) e per di più con gli elettori che non potranno mettere becco sulla composizione della rappresentanza parlamentare, è fatale che aumenti il numero di quanti pensano ai politici percepiti come rentier, ovvero come una casta. Dalla quale cercare di stare alla larga.
 
Tanto più che nell’immaginario collettivo la politica ed i politici sono diventati sinonimi di doppiezza, di corruzione, di dogmatismo, di inefficienza, di clientelismo. Colpa dell’antipolitica, dicono gli addetti ai lavori. Certo. Ma parliamoci chiaro: è soprattutto la politica ad alimentare l’antipolitica. Si pensi ad esempio quando la politica, la cui ragione d’essere dovrebbe essere solo e soltanto il bene comune, viene invece presentata dagli stessi protagonisti come il regno della furbizia, del  machiavellico. Come pura tecnica di conquista e di mantenimento del potere. Oppure si pensi alla dissennata campagna dei politici cosiddetti neoliberisti (cosiddetti, perché restano saldamente devoti alla prassi di “privatizzare i profitti e socializzare le perdite”; da questo punto di vista la vicenda Alitalia-Malpensa è un esempio da manuale) indaffarati a predicare la inefficienza di tutto quello che è pubblico; che è Stato; che è politica. La domanda è persino ovvia: se sono per primi i politici a non credere nella politica, chi  dovrebbe crederci? Beppe Grillo? Si pensi ancora, ad esempio all’Udeur, che mentre criticava la maggioranza di cui faceva parte, perché “incapace riforme liberali”, rivendicava contemporaneamente la nomina di ginecologi di partito. Si pensi infine alla lezione “liberale” dei cinque anni di governo Berlusconi (che ora si candida a replicare) con al centro: il suo fatturato; le sue televisioni; la modifica delle leggi per uscire indenne dai suoi processi. Insomma, troppo spesso la politica ha delle “ragioni” che la “ragione” non capisce. Naturale quindi che non piaccia. Che aumenti il disincanto, il disamore.
 
Attenzione però. Se è vero che la politica non si fa necessariamente solo dal Parlamento, è altrettanto vero che la politica non si può fare solo fuori dal Parlamento: nel volontariato, nell’associazionismo, nel sindacato. Perché ci sono questioni sulle quali l’orientamento politico-parlamentare è molto importante. Si pensi in particolare al lavoro che costituisce la preoccupazione di milioni di persone. Perché non lo trovano, perché temono di perderlo, perché è insicuro, perché è malpagato.
 
Naturalmente per tutelarlo la contrattazione resta lo strumento fondamentale. Ci sono tuttavia aspetti che stanno fuori del perimetro della contrattazione e con i quali si deve fare i conti. Anche per rendere praticabile la stessa contrattazione. Senza stare a fare discorsi lunghi e complicati si tenga soltanto presente che mentre il capitale è globale, il lavoro è locale. Servono quindi orientamenti politici culturali e regole. Non per neutralizzare questa asimmetria (che, allo stato, appare impresa abbastanza velleitaria), ma quanto meno per ridurla. Insomma, per dirla in breve: per quanto i margini di manovra siano stretti,  non è esattamente la stessa cosa avere un Parlamento con una maggioranza di destra, invece che di sinistra. Non lo è in particolare per quanti  ritengono che la “dignità del lavoro” debba essere salvaguardata.
 
Secondo il vocabolario della lingua italiana della Treccani la parola dignità esprime “la condizione di nobiltà morale in cui l’uomo è posto dalla sua stessa natura di uomo ed insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e che egli deve a sé stesso”. Poiché stiamo celebrando i sessant’anni  della nostra Costituzione, giova ricordare che la parola dignità ricorre in tre disposizioni della Costituzione: all’articolo 3, primo comma, dove si afferma che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”; all’articolo 36, primo comma, dove si afferma che la retribuzione del lavoratore deve essere tale da “assicurare a sé ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa”; all’articolo 41, secondo comma, dove si afferma che l’iniziativa economica privata “non può svolgersi...in modo tale da recare danno…alla dignità umana”.
 
Dignità è quindi il termine riassuntivo dei diritti fondamentali della persona umana. Sia come singolo, che nelle formazioni sociali dove si esprime la sua personalità. Non a caso è il termine utilizzato per esprimere quasi tutti i diritti proclamati nei principi fondamentali ed, in generale, nella prima parte della Costituzione. Vale la pena di sottolineare che non si tratta di diritti meramente declamati, ma riconosciuti come effettivi secondo il disposto dell’articolo 3, secondo comma. Dignità del lavoratore è pertanto il termine riassuntivo dei diritti fondamentali dell’uomo in quanto lavoratore. Per altro è opportuno ricordare che nel nostro ordinamento l’elenco relativo alla tutela della personalità del lavoratore (e quindi della sua dignità) è significativo ed importante. Si va dal diritto alla salute (articolo 2087 del c.c. ed articolo 32 della Costituzione); al diritto alla sicurezza (articoli 2087 e 2050 del c.c. ed articoli 32 e 41, secondo comma, della Costituzione); dal diritto del lavoratore a lavorare in un ambiente in cui possa sviluppare la sua “personalità morale” (articolo 2087 del c.c. ed articolo 2 della Costituzione), al diritto a trattamenti non discriminatori per ragioni di sesso (legge 903/77 e 125/91) religione, o etnia (legge 67/06 e 300/70)  che impegnano alla repressione ed alla nullità degli atti e dei comportamenti discriminatori; dal diritto all’onore, alla professionalità, all’immagine (articolo 2103 del c.c.), al diritto  alla libertà di opinione nei luoghi di lavoro (articolo 11 della legge 300/70); dal diritto alla riservatezza (articoli 2,3,4,,5,6,8, della legge 300/70), al diritto al riposo (sentenza della Corte Costituzionale 616/87).
 
Ebbene, chi è convinto che tali diritti (per altro frutto di impegnative battaglie) non debbano finire nel dimenticatoio, nel “magazzino dell’usato”, magari in omaggio ad una malintesa modernità, non  può sottrarsi al dovere di difenderli. Con tutti i mezzi democratici che sono a disposizione. Si possono perciò anche capire le diverse ragioni di disamore verso la politica ed i politici. Ma, a questo riguardo, la prima cosa da fare è andare a votare. Andare a votare per scongiurare il rischio che nel Parlamento, per apatia ed indifferenza, finisca per prendere sciaguratamente piede una maggioranza cinicamente propensa a rottamarli.


Venerdì, 22. Febbraio 2008
 

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