Mito e realtà del modello danese

Spesso negli ultimi tempi la Danimarca è stata portata come esempio di un sistema che si preoccupa sì del lavoratore, ma senza proteggere affatto il lavoro, in modo da garantire la massima flessibilità. Si tratta di una lettura molto approssimativa di ciò che accade veramente
Nel dibattito sulla deregolazione del mercato del lavoro torna insistentemente il riferimento al modello scandinavo e, in particolare, danese, come esempio di flexcurity (combinazione fra libertà di licenziamento e tutele nel mercato del lavoro). Si mettono in ombra, tuttavia, le caratteristiche particolari e più o meno irripetibili di quel sistema:i periodi di disoccupazione sono coperti per quattro anni da un'elevata indennità di disoccupazione;l'indennità corrisponde a oltre il 70 per cento della retribuzione; il tasso di occupazione facilita la mobilità da un posto di lavoro all'altro, essendo dieci punti al di sopra della media europea e probabilmente, il più alto al mondo.
In questo contesto di garanzie e tutele s'inseriscono, inoltre, come spiega in quest'articolo Ronald Janssen,  procedure di licenziamento tutt'altro che automatiche, essendo previste importanti clausole di preavviso, dirette a facilitare la mobilità dei lavoratori.
(EL)
 
"Salvare i naviganti, non le navi che affondano"
Il dibattito che viene attualmente condotto in Europa è decisamente troppo angusto. Riduce la discussione alla variabile danese: quella che mette insieme poca o nessuna protezione del posto di lavoro ed alti sussidi di disoccupazione. Questo riferimento sistematico al modello danese, presentato come quello che consente il "libero licenziamento dei lavoratori", promuove l'idea che i lavoratori europei in cambio di una "mobilità protetta" dovrebbero abbandonare ogni protezione del lavoro.

In questo scenario, il termine sicurezza non significa che i lavoratori restano nel posto che occupano al presente, ma vuol dire che i lavoratori si spostano da un posto ad un altro. Di recente il commissario Vladimir Špidla, con il portafoglio occupazione, affari sociali e pari opportunità nella Commissione di Bruxelles, ha illustrato in questo modo l'approccio: "Se la nave affonda - ha detto - non si cerca di salvarla, si evacuano i passeggeri" (1)

In altre parole, andrebbe abbandonata la legislazione che protegge l'impiego e la linea scelta dovrebbe essere, invece, quella di investire sulla formazione ed assistere i laboratori licenziati a trovare altri lavori.

Ma è proprio così come dicono? Davvero la protezione del lavoro nel sistema della flexicurity  danese non gioca ruolo alcuno? Non è che quanti difendono l'idea di buttare a mare del tutto ogni protezione del lavoro saltano alle conclusioni sbagliate?

Anche la Danimarca protegge il lavoro
In effetti, le classifiche internazionali stilate dall'OCSE indicano per la Danimarca un livello, nel complesso, relativamente basso di protezione del lavoro (2). La legge danese, per licenziare i lavoratori, non obbliga i datori di lavoro ad ottenere autorizzazioni preventive di carattere, come si dice, amministrativo (pubblico), di qualsiasi tipo, né li obbliga a versare alti livelli di liquidazione a chi è licenziato. Di fatto, così, il livello effettivo di protezione del lavoro a tempo indeterminato è, in Danimarca, superiore di poco della metà alle protezioni applicate in Germania, in Francia od in Spagna…

Il che non significa, affatto, però che un lavoratore possa semplicemente essere licenziato senza colpo ferire. In linea con la ben nota tradizione forte di contrattazione collettiva dei nordici, sono i partners sociali a riempire il vuoto lasciato dalle legislazioni sul lavoro. I sindacati negoziano la protezione dei lavoratori attraverso contratti collettivi nei diversi settori dell'economia che coprono efficacemente la stragrande maggioranza dei lavoratori.

In particolare, poi, in Danimarca, la contrattazione collettiva vigente obbliga i datori di lavoro ad un preavviso ben anticipato per i lavoratori che intendono licenziare. Secondo i dati dell'OCSE (3), i padroni devono dare una notifica di 4 mesi in caso di licenziamento collettivo a tutti i lavoratori che abbiano un'anzianità di 4 anni. Con 20 anni di anzianità, il periodo di preavviso sale a 5 mesi e prevede un mese e mezzo in più di liquidazione.

Una semplice elaborazione dei dati disponibili in sede OCSE (i più completi) dice che, con 20 anni di anzianità ed in caso di licenziamento collettivo, il periodo di preavviso è in generale maggiore in tutti i paesi nordici rispetto agli altri paesi europei. La graduatoria (arrotondata al mese) vede prima la Svezia (10 mesi), poi, nell'ordine, la Germania (8), la Finlandia (7), la Danimarca appunto (5 mesi). E, a seguire, Gran Bretagna (quasi 5), Norvegia (4), Italia (3 mesi e mezzo), Francia (2 mesi e mezzo), Olanda (2 mesi e mezzo), Spagna (2 mesi).

Solo la Germania, in definitiva, ha un periodo di notifica del licenziamento analogo a quello in vigore nei paesi nordici. E quello svedese, il più alto, pur rendendo un po' meno flessibile la copertura complessiva della protezione sul lavoro non la danneggia poi tanto, visto e considerato che la Svezia raggiunge comunque uno dei tassi d'occupazione più alti dell'Europa e del mondo.

A questo punto è evidente, no?, che non esiste il "libero licenziamento" in Danimarca. E' vero, alcuni requisiti di protezione del lavoro come obbligo di procedure preventive amministrative e liquidazione sono meno dure che altrove, ma i lavoratori danesi hanno diritto a un preavviso che, nei fatti, è più alto che in molti altri paesi dell'Europa avanzata.

Altre lezioni utili dalla prassi di contrattazione collettiva dei nordici  
Ma perché Danimarca, Svezia, Finlandia danno tanto rilievo al diritto del lavoratore licenziato a un preavviso congruo? Il motivo è che il preavviso riduce i costi di aggiustamento fornendo un cruciale vantaggio ai lavoratori licenziati. Il preavviso funziona come un sistema di preallarme che segnala ai lavoratori la necessità di prepararsi, di cominciare a cercarsi un altro lavoro e, se necessario, ad impegnarsi in un'opera di ri-addestramento professionale. Non è certo granché sorprendente che la ricerca dimostri come i lavoratori cui viene fornito un preavviso restano, poi, realmente disoccupati per un periodo di tempo minore e trovano un altro lavoro più facilmente(4).

Ma c'è di più. Danimarca e paesi nordici, in generale, non si limitano semplicemente a fornire un utile preallarme ai lavoratori sull'arrivo di un mutamento nelle loro condizioni di lavoro (o di non lavoro), ma assicurano che i lavoratori abbiano a loro disposizione gli strumenti capaci di aiutarli a consentire una risposta utile, produttiva, al cambiamento che devono affrontare. Per esempio, subito dopo che in Danimarca viene annunciato il licenziamento collettivo, l'azienda che lo ha annunciato viene letteralmente "invasa" dall'ufficio di collocamento pubblico e dagli istituti della partnership sociale (lavoro ed impresa) per mettere a disposizione dei lavoratori che ricevano la notifica di licenziamento consigli, assistenza e altri strumenti di supporto. Si tratta di misure pratiche, concretamente e rapidamente efficaci, di indirizzo e di reindirizzo all'impiego.

Un altro buon esempio lo fornisce la prassi della contrattazione collettiva in Svezia. Gli accordi collettivi a livello aziendale hanno costituito dei fondi di "transizione carriera" finanziati dalle imprese e gestiti su base bilaterale col sindacato. Sono fondi che forniscono, ai lavoratori che hanno ricevuto il preavviso, formazione professionale, aiuto specifico nella ricerca di un nuovo posto di lavoro e stages pagati in altre aziende anche durante il periodo in cui sono ancora formalmente dipendenti dall'azienda che li sta licenziando.

La filosofia di fondo è quella di aiutare immediatamente e concretamente i lavoratori, di impedire loro di affondare nel baratro della disoccupazione attivandosi ed attivandoli, poi, solo dopo sei mesi o un anno. Ma la premessa che lo consente è, naturalmente, l'obbligo per l'azienda di un periodo di preallarme anticipato nel quale questo sostegno attivo possa essere fornito ai lavoratori coinvolti.

Conclusione: l'Europa deve strappare il diritto di discussione sulle scelte da prendere
Dunque, un'occhiata più da vicino mostra quanto sia scorretto il modo in cui oggi viene presentato il modello danese di protezione dell'impiego. La componente flessibilità nella flexicurity danese non può affatto essere presentata come qualcosa che non pone ostacolo alcuno alle imprese che vogliono licenziare. Certo, alcuni elementi di protezione del lavoro sono meno accentuati in Danimarca, ma Danimarca ed altri paesi nordici sono al contempo assai rigidi nel garantire i diritti di preavviso ai lavoratori. E, insieme, il preavviso viene utilizzato nei paesi nordici come cruciale opportunità di dare una mano attiva ai lavoratori nel corso di processi di cambiamento strutturale.

Tutto ciò ha implicazioni importanti sul tentativo in atto di far avanzare la flexicurity a livello europeo complessivo. L'Europa dovrebbe raddrizzare, dunque, i termini stessi del dibattito. La questione di fondo, l'obiettivo di fondo, non è quello di offrire agli imprenditori, oltre alle opportunità cresciute di avvalersi delle delocalizzazioni verso i paesi a basso costo del lavoro, altri regali come il liberarli del tutto - e in non pochi lo auspicano - di qualsiasi protezione offerta al lavoro.

Invece, parte importante di un'agenda realmente riformatrice potrebbe essere quella di cambiare il mix dei sistemi di protezione del lavoro. Scelte coerenti in questa direzione - inclusa sempre e comunque la prassi della contrattazione collettiva - dovrebbero garantire sistemi di protezione che forniscano ai lavoratori adeguati periodi di preavviso e dovrebbero usare questa finestra temporale di protezione per "accompagnare" i lavoratori nella transizione che li porterà ad occupare lavori nuovi ma, anche e insieme, come si dice decenti.

Così, di certo, abbiamo bisogno di proteggere il lavoratore e di investire nelle sue professionalità e nella sua mobilità. Ma, per poterlo fare, abbiamo anche bisogno di proteggere il lavoro così che i lavoratori, al termine del loro rapporto di impiego con un'impresa, siano molto più preparati ed equipaggiati di quel che sarebbero col licenziamento ad libitum.

Resta, infine, un caveat importante. L'analisi, finora, è stata focalizzata su modalità e procedure dirette a far dimagrire l'occupazione e ad investire sulla protezione della mobilità esterna. Ma ancor più importante è anticipare la ristrutturazione facendo sì che le aziende investano in tempestivi processi di innovazione, nella formazione e nella mobilità interna della forza lavoro. Il licenziamento, cioè, in casi di ristrutturazione dovrebbe essere, sempre e sul serio, l'ultima delle opzioni disponibili.
 
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Note
(1) Intervento al vertice dei ministri del Lavoro tenuto nel primo semestre 2006, sotto la presidenza austriaca.
(2) Gli indici OCSE variano tra 0 (nessuna protezione) e 6 (massima protezione del lavoro: nel senso proprio di posto di lavoro). La protezione complessiva del lavoro include i periodi di preavviso e la liquidazione, ma anche tutte le formalità amministrative e le procedure di ordine burocratico come, per esempio, la richiesta e la concessione del permesso preventivo di licenziamento.
(3) OCSE, Employment Outlook, 2003.
(4) T. Raymonde, Social Accompaniment Measures for Globalisation: Sop or Silver Lining?- Misure sociali di accompagnamento per la globalizzazione: un contentino o un utile strumento? mimeo 2005.
Venerdì, 28. Luglio 2006
 

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