Per l’articolo 8 la mossa del cavallo

Mentre sta per iniziare la campagna per il referendum abrogativo l’attenzione al problema appare ancora tiepida. Eppure la posta è la destrutturazione delle relazioni sindacali e dello stesso diritto del lavoro. Per usare la metafora scacchistica cara a Vittorio Foa, il coinvolgimento va costruito con gradualità

Qualcosa dev’essere successo nella testa degli italiani, se il segmento del decreto di ferragosto che destruttura le relazioni sindacali e lo stesso diritto del lavoro è arrivato al capolinea praticamente intatto e il suo iter approvativo è apparso inarrestabile. Se lo sciopero generale di protesta proclamato dal più grande sindacato ha indispettito settori dell’opposizione parlamentare ed è stato giudicato “demenziale” nello stesso mondo sindacale. Se anche i migliori si sono comportati come si fa di fronte ad una calamità naturale. Sì, qualcosa dev’essere successo, se la decisione di fabbricare un’auto-bomba a disposizione di soggetti privati interessati a demolire quello che può essere definito il più importante edificio normativo di stile novecentesco ha prodotto (e seguita a produrre) una specie di coazione a subire.   

 

Dico subito che il giurista incline a registrare con partecipe interesse, se non con compiacimento, la debole o distorta percezione sociale della devastante rottura ordinamentale è, tutto sommato, più comprensibile del giurista che se ne meraviglia. Questa è una licenza che possono permettersi le nottole, che arrivano di sera a cose fatte. I giuristi, no. Tutt’al contrario, dovrebbero chiedersi se e in quale misura sono responsabili di una situazione che ha le caratteristiche di una mutazione antropologico-culturale di ampie proporzioni.

 

Fatto sta che i promotori dell’iniziativa referendaria per abrogare l’art. 8 della legge di conversione del decreto si stanno interrogando sull’esito che avrà la raccolta delle firme tra i cittadini. Essi infatti non si nascondono che l’effetto di mobilitazione collettiva e di trascinamento potrebbe risultare meno esteso di quello che in teoria si aspettano quanti criticano severamente la scelta legislativa anche sotto il profilo costituzionale. Non che, stavolta, il sospetto d’incostituzionalità sia meno fondato di quelli che, la primavera scorsa, contribuirono a far andare alle urne referendarie 27 milioni di elettori. Il fatto è che c’è anche il sospetto che l’abrogazione non sarebbe risolutiva e ciò può agire da freno. Nella migliore delle ipotesi, infatti, essa permetterà che, con la sorniona formula einaudiana dell’heri dicebamus, i discorsi giuridico-politici riprendano là dove si erano bruscamente interrotti; niente di meno, ma neanche niente di più.

 

Sennonché, è proprio questa prospettiva a non suscitare grandi entusiasmi. Come dire: il forte sospetto d’incostituzionalità è bilanciato dal sospetto che la proposta referendaria possa contare sul solo argomento che, non diversamente dalle nostre case, gli ordinamenti giuridici ogni tanto hanno necessità di disinfestazioni per ripristinarne le condizioni di abitabilità. L’argomento è di per sé persuasivo; ma potrebbe non bastare, perché la pur necessaria bonifica dell’ordine normativo vigente riporterebbe il diritto sindacale e del lavoro al punto in cui era giunto in seguito all’intesa interconfederale del 28 giugno, con le sue luci e le sue ombre. Ombre ingigantite dalla stessa norma da abrogare.

 

In effetti, se è cosa buona e giusta credere alla Confindustria quando, il 21 settembre, dichiara che non attiverà l’art. 8 della manovra e darà attuazione all’accordo del 28 giugno, essa non è meno credibile quando afferma che non c’è contrasto tra l’art. 8 e l’intesa negoziale. Certo, il disposto legale è sguaiato e sgangherato – al confronto, l’intesa negoziale è un modello di equilibrio e di sapienti ammiccamenti – ma non fa che dilatare, sia pure oltre ogni limite di ragionevolezza, le criticità dell’accordo interconfederale e, mettendone in cruda evidenza tutti gli sviluppi deduttivi astrattamente immaginabili, ne estremizza la logica. Una logica orientata più nella direzione di radicalizzare l’opzione degli anni ’50 che in direzione opposta. Mentre è l’ormai accertato logoramento di un’opzione compiuta in epoca risalente che rende palese l’opportunità di legare la richiesta referendaria alla prospettiva di un diverso orizzonte di senso che possa irrobustire la spinta ad uscire dal pantano. A questo fine c’è bisogno di idee semplici e passioni forti. Per appropriarsi delle quali però dovrà cessare la pigrizia (o l’ipocrisia) di dare per scontata l’insignificanza di un dato di realtà. Per la ristrettezza dello spazio disponibile, lo descrivo così: se la situazione carceraria (come ripete sempre più spesso il Presidente della Repubblica) ferisce a morte la Costituzione che assegna alla pena detentiva una funzione rieducativa ed è “indegna di un paese appena appena civile”, la somma di vecchie inadempienze costituzionali e di nuovi sbreghi (come il decreto d’agosto) minaccia la stessa credibilità democratica del nostro paese.

 

All’origine del processo di de-costituzionalizzare lo sviluppo del diritto sindacale e del lavoro c’è l’inattuazione dell’art. 39. L’opzione non va demonizzata, ma nemmeno mitizzata. Va semplicemente contestualizzata; il che però non si fa più ed è una sciagura, perché si è perso di vista che le originarie motivazioni avevano natura prevalentemente strumentale. Nei fatti, e al di là delle intenzioni, a furia di sostenere che il lavoro, come il sindacato che lo rappresenta, avrebbe dovuto rompere irreversibilmente i legami col diritto pubblico per tornare a sfruttare il formidabile giacimento di risorse esistente nel sottosuolo del diritto dei privati di cui, secondo una narrazione diventata in fretta una leggenda metropolitana, si sarebbe giovato in epoca prefascista, un poco alla volta si è finito per alterare la stessa ragion d’essere, in un regime di democrazia costituzionale, del sistema delle fonti collettive di produzione normativa in materia di lavoro dipendente

 

Proprio questa è la questione del momento ed è da qui che bisogna ripartire. Ma il nuovo inizio avrà una fine precoce senza la disponibilità a rivisitare la concezione cui aderivano i padri costituenti. E’ la concezione che fa del sindacato un libero soggetto di diritto privato munito del potere di gestire interessi altrui sulla base di un mandato associativo identico a quello disciplinato dal codice civile e, al tempo stesso, l’incaricato di una funzione di pubblica utilità. E’ la concezione che, ravvisando in questa bipolarità genetica più una risorsa che un’anomalia, attribuisce ai prodotti dell’autonomia collettiva una dimensione normativa in bilico tra privato-contrattuale e pubblico-statuale, perché permette di fronteggiare l’esigenza di tutelare i diritti degli individui con riguardo non tanto alla loro eventuale veste di iscritti ad un sindacato quanto piuttosto a quella – che di fatto non possono dismettere – di destinatari finali degli effetti dell’azione sindacale. E’ la concezione che fa della contrattazione collettiva con efficacia generale il vettore principale dell’istanza egualitaria che percorre il mondo del lavoro dalle origini.

 

Per essere proficua la rivisitazione dovrà essere condotta con molta umiltà, un po’ perché le difficoltà del disimparare sono di gran lunga superiori a quelle che bisogna superare per imparare e un po’ perché andare in contro-tendenza costa fatica. Ma ne vale la pena.

 

Si può soltanto congetturare come sarebbe il paese in cui viviamo, se la Costituzione che oggi occupa stabilmente la piazza ci fosse andata con la stessa continuità e la stessa carica di aggressività sin dal giorno della promulgazione e se il suo processo attuativo avesse potuto contare su di un ceto professionale di operatori giuridici intenzionati a valorizzarne la capacità regolativa, anziché a sancire l’inettitudine di molte delle sue norme ad incidere sulla realtà delle relazioni tra le persone. Al riguardo, la storiografia non può darci risposte. Piuttosto, ci racconta perché la Costituente non potesse non lavorare in un’atmosfera “brumosa”: come scriveva nel 1946 Piero Calamandrei, “la gente ignora la sua attività e se ne disinteressa”. I padri costituenti se ne rendevano conto e, non essendo dei giacobini, avevano chiaro che, in democrazia, non è possibile anticipare il futuro con azioni che non siano sostenute da larghi consensi. Uno di loro ce lo ha detto apertamente.

 

Vittorio Foa, nel saggio che raccoglie le “riflessioni” sulla sua vita, celebra l’apologia della mossa del cavallo, che metaforizza un modello dell’agire, “nella politica come in generale nella vita”. La gradualità, confessa Foa, “mi era sempre apparsa come una timidezza. (…) Da vecchio, però, mi rendo conto che è spesso qualcosa d’altro”: è considerazione degli altri e valutazione della necessità del loro concorso all’azione (…) e l’apporto della gente richiede tempo”. Infatti, benché il disgelo costituzionale fosse stato avviato dal centro-sinistra nella prima metà degli anni ’60, senza l’accelerazione impressa dall’autunno caldo non ci sarebbe stato lo Statuto dei lavoratori, che si proponeva di sconfiggere l’eresia giuridica che faceva dello stato occupazionale e professionale acquisibile per contratto il prius e dello stato di cittadinanza il posterius, e, senza l’impetuosa ascesa del movimento femminista nel decennio successivo, si sarebbe continuato a considerare la sindrome anti-egualitaria che colpisce le società organizzate da e per uomini, se non un bene in sé, il loro indistruttibile connotato. Orbene, anche la gradualità del processo culminato in questi anni nell’incontro della Costituzione con la piazza ha qualcosa a che fare con la mossa del cavallo, perché ci fa assistere al “coinvolgimento del prossimo nella realizzazione di un progetto”.

 

Ecco: è in questa cornice d’ampio respiro che bisogna situare la campagna referendaria contro l’art. 8 che sta per avviarsi. E’ una scelta tanto di merito quanto di metodo che si può compiere col conforto di sapere che anche i padri costituenti frequentarono il futuro, come Antonio Tabucchi sostiene che a un certo punto imparò a fare Pereira. Come dire: l’art. 8 va rimosso perché simboleggia l’approdo conclusivo della tendenza di lungo periodo a privatizzare il diritto sindacale e del lavoro; una tendenza che ha smarrito per strada l’unico, vero obiettivo che la giustificava: cercare fuori della Costituzione ciò che nella Costituzione è già scritto.

Mercoledì, 23. Novembre 2011
 

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