Non rassegnarsi al deperimento della democrazia

Tra le cause che vi concorrono ci sono il controllo del premier sul sistema dei mezzi di comunicazione, la pretesa di disciplinare la critica ed il dissenso, l’insofferenza verso la democrazia parlamentare. L'apatia e l'indifferenza sono aspetti pericolosi del corrompimento della democrazia. Nell’ultimo quarto di secolo l’economia ha tenuto al guinzaglio la politica, abbiamo assistito al ripudio dell'eguaglianza e alla “commercializzazione” di fondamentali diritti di cittadinanza

Inaugurata con un discorso del presidente della Repubblica, dal 22 al 26 di aprile, si è svolta a Torino la “Biennale della Democrazia”. Cinque giorni dedicati alla cultura democratica per avviare il percorso verso il 2011. Centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. La Biennale è stata una occasione importante per tornare a riflettere sullo stato di salute della democrazia. Stato di salute che in Italia risulta piuttosto malfermo ed in certi momenti e situazioni persino esangue. Tra le cause che concorrono all’indebolimento della nostra democrazia ci sono sicuramente: il populismo, il controllo del premier e della sua maggioranza sull’intero sistema dei mezzi di comunicazione, la pretesa di ridurre a disciplina la critica ed il dissenso, gli atteggiamenti corrivi verso il razzismo e la xenofobia, l’insofferenza verso la democrazia parlamentare giudicata un intralcio, una “inutile perdita di tempo”. Aspetti che andrebbero più efficacemente contrastati, anche se non prefigurano il pericolo concreto di una fine della democrazia italiana per una imboscata, o un colpo di mano (come è avvenuto nel secolo scorso). Ma che comunque non vanno sottovalutati perché possono accelerare un suo progressivo svuotamento per apatia, indifferenza, sottonutrizione.

 

La ragione è semplice. Diceva Montesquieu che l’ethos della tirannia è la paura. Il tiranno governa infatti diffondendo paura. Ed aggiungeva che la democrazia si fonda invece sull’etica della responsabilità, della partecipazione. Si fonda quindi anche sul costante elevamento culturale della popolazione per evitare che si trasformi in un regime del numero senza qualità. Manovrabile in qualsiasi momento (in particolare da chi controlla i mezzi di informazione) perché privo di consistenza ideale, etica e culturale. In questo caso (che è appunto la situazione in cui si trova l’Italia) la democrazia può apparentemente rimanere ferma, con i suoi riti e le sue istituzioni esteriori, ma svuotata di contenuti. Può perciò corrompersi al punto di diventare irrilevante e persino insopportabile. In effetti, il crescente rifiuto della politica deve essere interpretato come un segnale preoccupante di questa involuzione. Il punto è: di fronte a questa deriva siamo impotenti? Oppure c’è qualcosa che può e deve essere fatto? 

 

Personalmente credo che si debba innanzi tutto ripartire dall’eguaglianza. Perché la democrazia si fonda sul principio di eguaglianza. Sicché ogni affievolimento del valore dell’eguaglianza, come di fatto è successo nell’ultimo quarto di secolo, comporta un progressivo indebolimento della democrazia. Non dimentichiamo quanto scriveva Aristotele nel La Politica: “La democrazia ha origine nell’idea che coloro che sono uguali sotto un qualsiasi rispetto sono uguali sotto tutti i rispetti; essendo ugualmente liberi, gli uomini pretendono di essere assolutamente uguali”. Ne deriva che declino dell’eguaglianza e svuotamento della democrazia sono due aspetti che si tengono e si condizionano reciprocamente. Intendiamoci bene. La crisi della tensione all’eguaglianza e la banalizzazione delle democrazia non coincidono in assoluto. Ma su un punto cruciale coincidono perfettamente. Mentre infatti alcune forme della democrazia, a cominciare dal diritto di voto, sono rimaste in vigore (anzi, sono state persino estese a paesi che in passato ne erano privi) la politica ed i governi hanno ceduto progressivamente terreno alle elites del potere economico.

 
La crisi economica in atto potrà probabilmente cambiare le cose (sperando che venga scongiurato il rischio che “tutto cambi perché tutto torni come prima”). Ma resta il fatto che nell’ultimo quarto di secolo l’economia ha tenuto al guinzaglio la politica. Nel senso che quest’ultima ha sostanzialmente assolto un ruolo ancillare dell’economia. Del resto, quando poco meno di un anno fa all’assemblea degli industriali Berlusconi ha proclamato, come è nel suo stile, con sfrontatezza e naiveté: “Il vostro programma è il programma del mio governo”, non ha fatto altro che rendere esplicita una scelta che invece specialmente i governi di destra di altri paesi si erano limitati a portare avanti sottobanco. In ogni caso, esplicita o implicita, questa subalternità della politica all’economia corrisponde più o meno a quanto succedeva nella fase predemocratica. E comunque contribuisce a spiegare il perché della progressiva perdita di attrattiva e persino di interesse per gli argomenti a favore dell’eguaglianza. Non è da escludere che su questo risultato abbia influito anche l’uso, diffuso quanto improprio, della formula “democrazia liberale”. Formula ambigua perché dà per scontato ciò che scontato non è. Che cioè liberalismo e democrazia siano due facce della stessa medaglia. Non è affatto così. Basta infatti  ricordare che nel settecento ed ottocento c’erano società liberali (o presunte tali), ma scarsamente, ed in certi casi per nulla, democratiche. Attenzione: non si tratta di una pura questione semantica, ma è un problema di sostanza. Infatti per essere tale la democrazia è senza aggettivi e deve essere semplicemente intesa, secondo la definizione di Norberto Bobbio, “come crescita di liberà, come compito di giustizia, come ideale di eguaglianza”.

 

Ma proprio perché la democrazia va intesa in questi termini non si può non riconoscere che gli adattamenti introdotti, in particolare negli ultimi decenni, su aspetti importanti delle politiche economiche e sociali hanno influito negativamente sulla parabola della democrazia. Mi riferisco in particolare: al welfare state che ha subito aggiustamenti e trasformazioni che l’hanno reso tendenzialmente residuale, sempre più cioè destinato al povero bisognoso invece che parte inalienabile dei diritti universali  di cittadinanza; all’aumento del divario tra ricchi e poveri; alla tassazione sempre meno utilizzata come strumento essenziale anche ai fini della redistribuzione del reddito; alla politica tendenzialmente incline a interloquire soprattutto con le grandi imprese alle quali consente sia di trasformare i propri interessi particolari in politiche generali, che di appropriarsi dei profitti scaricando sulla collettività le perdite; alla condizione dei poveri sempre più sospinti al margine fino a convincerli di essere politicamente irrilevanti, al punto che un buon numero di loro non va più nemmeno a votare e torna perciò volontariamente nella posizione in cui era relegato nella fase predemocratica. Ovviamente l’elenco potrebbe continuare. Ma ritengo questi pochi accenni più che sufficienti per capire alcune delle ragioni di affievolimento della democrazia.

 

C’è poi un altro punto essenziale che non può essere offuscato. Mi riferisco al cambiamento che negli ultimi decenni ha favorito la “commercializzazione” di alcuni dei diritti di cittadinanza. Si tratta di un cambiamento rilevante. Teniamo infatti presente che nel corso del XX secolo le nozioni di Servizio  pubblico e Stato sociale, come la loro realizzazione pratica, hanno rappresentato una componente fondamentale nel processo di democratizzazione della politica. Inutile rimarcare che la relazione tra Stato sociale ed il settore di mercato è sempre stata complessa e che si è anche diversificata notevolmente da paese a paese. Quello che conta, ai fini del ragionamento che sto proponendo, è che ovunque si è ritenuto che una seria impostazione dello Stato sociale dovesse distinguersi dalla competizione propria dell’economia di mercato e dalle logiche di profitto. Questo presupposto è stato di fondamentale importanza per la nozione di cittadinanza democratica. Perché ha implicato l’affermazione di un sistema di allocazione delle risorse e di distribuzione della ricchezza non soggetto alla spinta ed alle diseguaglianze tipiche del capitalismo.

 

Il dato nuovo con cui si deve ora fare i conti è che negli anni più recenti questa esigenza è stata progressivamente messa in discussione da lobby sempre più potenti e da interessi privati che hanno chiesto in maniera perentoria, trovando quasi sempre compiacente ascolto, che i servizi pubblici e le politiche di welfare fossero messi a loro disposizione. Come qualsiasi altra attività economica. Si sono così perseguiti, con crescente successo, i tentativi di coniugare con le prassi capitalistiche quelli che in passato erano invece considerati servizi pubblici. Questo matrimonio ha assunto una varietà di forme. Logiche di mercato nell’ambito della proprietà pubblica. Privatizzazioni con o senza adesione al libero mercato. Appalto all’esterno di progetti finanziati da capitali privati ed erogazioni di servizi, talora anche senza privatizzazioni, o mercato. La relazione fra mercato e proprietà privata è, del resto, molto più ambigua di quanto spesso si sia ritenuto. In ogni caso, per gran parte del secolo scorso, una serie di attività e servizi di base erano stati sottratti alla sfera degli interessi del capitalismo e delle logiche di mercato in base al principio che le persone avessero acquisito il diritto a certi beni e servizi, non perché non potevano acquistarli sul mercato, ma in virtù del loro status di cittadini. E così, allo stesso modo come era considerato un tratto distintivo della democrazia che il diritto di voto o il diritto ad un giusto processo non fossero in vendita, la stessa considerazione valeva per il diritto a godere di determinati servizi pubblici. Se infatti essi fossero stati messi sul mercato questo avrebbe costituito una diminutio del valore della cittadinanza.

 

Naturalmente, la lista dei servizi pubblici variava da una società all’altra. Ma di norma essa includeva: il diritto a certi livelli di istruzione; alla cura della salute; alla mobilità; alla sicurezza; all’accesso all’acqua; alla tutela dell’ambiente; alle varie forme di assistenza (compresi i servizi per l’infanzia e per la vecchiaia non autosufficiente); ai servizi per l’impiego; al sostegno del reddito per la perdita temporanea,  o permanente, della capacità di guadagnare, a causa della perdita del lavoro, o per malattia ed invalidità.

 

Come detto però negli ultimi anni, in molti paesi dell’Occidente, con una martellante campagna si è imposta l’idea  che il mercato sia sempre meglio del pubblico. Perché il mercato sarebbe il regno in cui i consumatori sono sovrani. Le aziende possono infatti vendere beni e servizi solo se noi scegliamo di comprarli. Abbiamo però imparato a nostre spese che non è così. Perché in realtà sono i fornitori a scegliere inizialmente i loro clienti, decidendo a quali segmenti di mercato indirizzare i loro prodotti, od  loro servizi. Del resto nessuna azienda è obbligata a soddisfare i bisogni di chicchessia. Al contrario, la portata del servizio pubblico non può invece che essere universale. Almeno in potenza. Quindi stringere accordi di fornitura tra pubblico e privato significa, tra l’altro, consentire al secondo di scegliere anche il segmento che preferisce. Mentre il primo deve garantire la fornitura a tutti coloro ai quali il privato non è interessato. Non è l’aspetto principale, ma si deve anche mettere in conto che quando la fornitura pubblica diventa residuale anche i servizi erogati diventano a loro volta di scarsa o pessima qualità. Per fare un solo esempio è esattamente ciò che si verifica nelle ferrovie con la distinzione tra treni ad alta velocità e treni dei pendolari.

 

Oltre tutto la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente quando ai servizi pubblici sono imposti uno status residuale od una qualità degradata perché il decisore politico vuol fare deliberatamente posto a forniture di tipo privatistico-commerciale. Inutile sottolineare che un servizio pubblico residuale non può rientrare nella “cittadinanza”. Per la buona ragione che l’accesso ad esso finisce per costituire più una penalizzazione che un diritto. Senza contare che il meccanismo della protesta, essenziale alla democrazia ed alla cittadinanza, quando esercitato da fruitori residuali finisce per essere considerato irrilevante e per questo mai preso in eccessiva considerazione. Per tante ragioni. Non ultima quella di non avvalorare richieste di miglioramenti che potrebbero entrare in competizione con le forniture di tipo commerciale.

 

Si può naturalmente discutere cosa debba essere inteso per servizio pubblico e cosa invece possa essere tranquillamente escluso. In ogni caso ciò che conta è avere ben chiaro che questo tema coinvolge i diritti democratici e di cittadinanza. Il problema diventa particolarmente acuto perché con la privatizzazione o l’appalto dei servizi pubblici si stabilisce una relazione tra tre soggetti. Il governo (sia centrale che locale), il cittadino, il fornitore privato di servizi pubblici. Ebbene, il cittadino ha un legame, attraverso il sistema politico ed elettorale, con il governo (nazionale, o locale). A sua volta il governo  ha un legame (attraverso la legge, o il contratto) con il fornitore privato. Ma il cittadino non ha alcun rapporto, né di mercato né di cittadinanza, con il fornitore. Per di più, dopo la privatizzazione, non può nemmeno sollevare questioni con il governo relative all’erogazione del servizio. Perché il governo ha privatizzato o appaltato la prestazione ad un soggetto terzo. Di conseguenza una parte dei servizi pubblici finiscono per essere collocati in una sorta di limbo post-democratico. Risultato: il governo è responsabile verso il demos per le generiche opzioni di politica generali. Ma non più per come, nella pratica, vengono riconosciuti e rispettati i suoi diritti.

 

Come se ne esce? Intanto incominciando a fare chiarezza su quali servizi pubblici sono da considerare irrinunciabili perché concorrono alla affermazione dei diritti di cittadinanza. E quali invece no. Chissà mai che una discussione sul punto non costituisca anche l’occasione per un dibattito finalmente serio sulla Rai, che è uno dei casi più singolari di ermafroditismo. Comunque deve costituire la circostanza per costringere i persistenti, ideologici furori privatizzatori, specie nei servizi locali, a dare risposte persuasive alla questione dei diritti di cittadinanza, come parte essenziale dei diritti democratici.

 

Per concludere. La Biennale della Democrazia di Torino, che coincide non casualmente con il 25 aprile, è stata una occasione importante per iniziare ad esaminare ed indagare le molteplici cause di indebolimento della democrazia. Soprattutto una occasione per una presa collettiva di coscienza circa il fatto  che la democrazia non è mai una conquista che si fa una volta per tutte. E che quindi non possiamo comportarci come giardinieri imprevidenti che non sarchiano il terreno solo perché l’estate è stata umida. Perciò se vogliamo veramente impegnarci a difendere e consolidare la democrazia abbiamo una sola scelta: fare nostro il convincimento di Vittorio Foa. Vale a dire: considerare ogni giorno una nuova partenza; mai un punto di arrivo.

Venerdì, 24. Aprile 2009
 

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