La riforma della contrattazione/7: Gian Primo Cella

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Gian Primo Cella è docente di sociologia economica all’Università Statale di Milano
 
Il modello contrattuale del 1993, davvero appare così lontano, così destinato ad essere sorpassato dagli eventi?
 
Io vorrei rammentare il rapporto della commissione Giugni, alla quale partecipavo, sei anni fa, accanto a Gino Giugni, Massimo D’Antona, Marco Biagi, Paolo Tosi, Lauralba Bellardi. Era una commissione nominata da Romano Prodi, allora presidente del Consiglio, perché l’accordo del 1993 conteneva proprio l’impegno di esaminare, entro cinque anni, l’eventualità di una correzione dell’accordo stesso. Nelle conclusioni finali sostenevamo, innanzitutto, che quell’intesa nella sostanza andava bene e che si potevano fare alcuni ritocchi.
 
C’è da rilevare il fatto che in quel novembre-dicembre del 1997, avevamo ascoltato tutte le parti sociali: la Banca d’Italia, le Confederazioni, la Confindustria, gli istituti di ricerca. Erano state svolte innumerevoli audizioni ufficiali a Palazzo Chigi. Tutti dichiararono allora il proprio apprezzamento, senza ombra di dubbio, compresi i tre segretari confederali D’Antoni, Cofferati, Larizza, compresa la Confindustria. Mi ricordo Ciampi, allora ministro del Tesoro. Raccontò come quello fosse stato l’atto più importante della sua vita e che in Europa nessuno credeva che l’Italia sarebbe riuscita ad arrivare ad una simile intesa. Tanto che Helmut Khol gli aveva detto che sarebbe dovuto andare anche in Germania per tentare di realizzare qualcosa del genere.
 
Un giudizio ancora valido?
 
Io sostengo che quella impostazione ha funzionato bene, ha dato una minicostituzione alle relazioni industriali italiane, ha definito i poteri nella contrattazione, ha definito la rappresentanza di base, ha instaurato le regole della politica dei redditi, ha avuto un successo indubbio, testimoniato dal risanamento finanziario dell’Italia. E allora perché dovrebbe essere cambiata? Teniamocela stretta. Anche perché poi la contrattazione nazionale, in tutti questi anni, sia nel privato che nel pubblico, ha funzionato con le regole previste dall’accordo del 1993. Può essere ritoccato, certo…
 
Molti però spiegano che molte cose sono cambiate e che quindi anche quel modello non sarebbe più adeguato…
 
Certo, molti sindacalisti, alcuni anni fa dicevano: quell’accordo non sta più in piedi perché l’inflazione ormai non c’è più. Io ribattevo: guardate che l’inflazione potrebbe ritornare… Adesso mi sento dire che quell’accordo non va bene perché l’inflazione è alta. Allora, semmai, bisognerebbe rivendicare che il governo, su questo punto, stia al gioco delle regole adottate. E così se fissa dei tetti d’inflazione che non sono realistici, dovrebbe essere l’occasione per smentire il governo, per chiamare in causa la Banca D’Italia.
Voglio ricordare che nei paesi scandinavi intese simili durano parecchio. Ne esiste uno in Danimarca che funziona da più di cento anni.
 
Dunque l’impianto regge?
 
Si. Quello che si poteva fare e che andava fatto era una possibile flessibilizzazione. Sempre nelle conclusione di quel rapporto della commissione Giugni se ne parlava. Non se ne fece nulla, anche perché tutta l’attenzione a quell’epoca si spostò sulla vicenda delle 35 ore.
 
Che cosa si intendeva per flessibilizzazione?
 
Era la proposta di individuare una qualche forma d’apertura alla tedesca. Era possibile pensare, in parte e con molta cautela, ad esempio, a clausole d’uscita parziale dal contratto nazionale. Clausole di flessibilizzazione che in Germania sono state fatte, nella maggior parte dei casi, al ribasso e hanno permesso, ad esempio all’Est, di fissare livelli salariali un po’ più bassi o una gestione dell’orario differente.
 
L’elemento importante è dato dalla possibilità che tali “uscite parziali” dal contratto siano controllate dall’alto, non siano un’occasione di uso opportunistico. Altri ritocchi ancora sono possibili: non sono più sicuro, ad esempio, che vada bene la distinzione di due anni per le scadenze salariali e quattro anni per quelle normative e anche salariali. Quel che in ogni modo conta è il mantenimento della struttura e della logica di quella struttura, in altre parole contratto nazionale e articolazione a livello decentrato.
 
C’è stata, però, molta polemica sulla possibilità di deroghe. La Cgil ad esempio più volte ha additato il rischio di soluzioni che finiscano con il mandare a gambe all’aria l’intero contratto nazionale o di ridar vita alle cosiddette gabbie salariali…
 
Io risponderei dicendo che queste deroghe, in ogni caso, dovrebbero essere frutto di una contrattazione tra le parti sociali. Se entrambe le parti ritenessero in taluni casi utili queste soluzioni e controllassero la loro esecuzione, potrebbero rappresentare un esperimento positivo.
 
C’è anche chi ha sollevato il problema della cosiddetta contrattazione territoriale…
 
La Confindustria, proprio nel 1993, minacciò di non firmare l’accordo se si fosse instaurato un nuovo livello di contrattazione. Gli imprenditori temono sostanzialmente questo: la moltiplicazione dei livelli. Io devo dire che la posizione della Cisl su questo punto è un po’ contraddittoria. Non si capisce bene se vuole tre livelli, e a questo punto avrebbe tutti contro o se vuole una contrattazione di territorio solo per le piccole imprese. Visto che la contrattazione aziendale si fa solo nel 30 per cento delle imprese. Il problema è che anche questa ultima strada è nettamente respinta dagli imprenditori. A meno ché la Cisl non abbia in mente qualcosa, ma anche questo non lo vuole nessuno, che porti allo smantellamento del contratto nazionale.
 
Il contratto nazionale ha ancora dunque un suo ruolo?
Continua ad avere un ruolo d’identificazione, di riferimento, perché la struttura produttiva continua ad essere dualistica tra grandi imprese e piccole imprese. E le tieni assieme col contratto nazionale.
 
E’ possibile immaginare un rapporto tra contratto nazionale e i nuovi lavori, il fiorire di contratti temporanei?
 
Per questi settori probabilmente sarebbe necessario un quadro di riferimento morbido, di tipo legislativo, tipo statuto dei lavori che garantisca alcune prerogative. E poi bisogna saper inventare qualche soluzione, non indicare soluzioni burocratiche come il contrattone dei metalmeccanici con dentro gli atipici. Il sindacalista dovrebbe riuscire a proporre vari strumenti non uno solo. Certo, con diritti minimi eguali per tutti.
 
C’è chi come Umberto Romagnoli, nel corso di questa inchiesta sulla possibile riforma del sistema contrattuale, ha ricordato come il vero pilastro dell’accordo del 1993 fosse l’unità d’azione. Senza unità crolla anche il ‘93. E’ così?
 
E’ ovvio che accordi di questo tipo sono possibili solo se sono unitari. Ricordiamo che i sindacati si erano quasi spaccati nel 1992. Non è stato semplice arrivare a quel risultato. Io direi che il ‘93 è l’ultima barriera. Manteniamo quell’accordo perché è una condizione che rende possibile l’unità, invece di dire che siccome non c’è più unità, allora lo buttiamo. Sarei per usarlo come scudo di difesa e per richiamare alla ragione gruppi dirigenti sindacali che in taluni momenti mi sembrano dissennati.
 
A Milano qualcosa si è mosso? Sempre Romagnoli ha accennato ad un’iniziativa promossa da Cgil, Cisl e Uil…
 
Siamo stati incaricati di studiare qualche proposta atta a ricucire i rapporti . Un patto sulle regole di convivenza che potrebbe essere significativo perché proprio a Milano in fondo era nata una frattura.
Mercoledì, 5. Febbraio 2003
 

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