Viaggio nelle capitali

Bruxelles
Entri nei palazzi delle Istituzioni Europee e ti colpisce subito di non trovare nessuno, ma proprio nessuno, disponibile a difendere l'operato del governo di centrodestra ora sconfitto alle urne. Nel gruppo dei funzionari italiani il sentimento prevalente oscilla tra l'astio e la vergogna; quanto agli altri il sentimento prevalente è l'ironia, se non la commiserazione. E percorrendo i corridoi dopo il 10 aprile si capta un corale sospiro di sollievo.

"Il perché è presto detto - spiega un funzionario non italiano che ha partecipato a tutti i Consigli Europei - l'Alfa e l'Omega del vostro quinquennio si iscrivono, nel mio ricordo, tra il Consiglio di Goteborg del giugno 2001, in cui vidi per la prima volta il vostro premier all'opera, e quest'ultimo di marzo a Bruxelles. Il Consiglio di Goteborg fu importante perché varò un programma basilare per il futuro della UE,  la Strategia Europea per uno Sviluppo Sostenibile: il vostro primo ministro approvò il documento senza commenti degni di nota. Memorabile fu invece il suo intervento durante la cena (allargata anche a Bush, per via del Vertice annuale USA-UE): all'improvviso si lanciò in una filippica anticomunista ("il mio obiettivo era di liberare l'Italia dai comunisti, che costituivano più del 30% della popolazione e controllavano il governo"), che imbarazzò il premier svedese, oltrepassò i tempi stabiliti e irritò molte delegazioni, tra cui quella francese che i comunisti al governo li aveva davvero.
 
Quanto all'ultimo Consiglio, quello del 23/24 marzo scorso, va premesso che qualche giorno prima il vostro ministro dell'Economia aveva tentato di far firmare ai paesi membri più liberisti una lettera contro il "protezionismo nazionale" (leggasi francese, per via della vicenda Enel-Suez): iniziativa lodevole, ma impraticabile se presa da un governo moribondo. Durante il Consiglio, poi, il vostro premier avrebbe potuto rilanciare la sua sacrosanta battaglia; lasciò invece tutta la scena a Chirac e abbandonò Bruxelles prima del tempo con un solo laconico commento: "Non ho nulla da dire, a meno che non vogliate che dichiari guerra alla Francia". Ecco l'Alfa e l'Omega di un quinquennio iniziato nella logorrea e terminato in un silente ripiegamento ".

In mezzo c'è stato di tutto. Il boicottaggio del mandato d'arresto europeo e del programma di ricerca sulle cellule staminali. Il contrasto sull'OLAF, l'ufficio antifrodi. La firma del documento degli Otto a sostegno dell'attacco all'Iraq, benché il Consiglio di Salonicco avesse espresso l'invito a prolungare il mandato degli ispettori Onu. La censura del Parlamento Europeo a B. - caso senza precedenti - per aver preso le difese della repressione russa in Cecenia. L'affondo contro il Patto di Stabilità e Crescita. E soprattutto il semestre di presidenza "eccentrica" (come l'ha definita Chris Patten) (5), iniziata dal Premier italiano con un "Ok corral" al Parlamento europeo e conclusa con un Consiglio Europeo che "non si è mai tenuto" - secondo l'ironica definizione del premier lussemburghese Juncker.

E' questo il sommario "cahier de doléances" di un europarlamentare italiano, il quale ci tiene anche a riesumare il giudizio "bipartisan" emesso già nell'aprile del 2001 da personalità come Jacques Delors ("Se B. vincesse e contravvenisse alle regole europee, dovrebbe aspettarsi delle sanzioni; e violazioni del genere non sarebbero sorprendenti da parte di un simile candidato") e Leon Brittan, thatcheriano di ferro e per 10 anni vice-presidente della Commissione ("Non ricordo nessun altro caso in Europa in cui si sia registrata una tale combinazione di posizione al vertice politico e di così vasti interessi economici").

Negli anni successivi non sono mancate altre dichiarazioni di Commissari europei spesso imbarazzati di fronte alla "anomalia italiana". Philippe Busquin, già Commissario alla Ricerca, intervistato sul referendum italiano del 12/13 giugno 2005: "Come tacere il fatto che, a causa della legge sulla procreazione assistita, le coppie italiane affette da sterilità sono anche vittime di una pressione oscurantista e retrograda? D'altronde molte coppie vengono in Belgio per beneficiare di quelle terapie che sono negate a casa loro". Louis Michel, Commissario allo Sviluppo, intervistato il 18 febbraio 2006 sulla maglietta anti-islamica del ministro Calderoli: "Non è stato un gesto maldestro, è stato un atto scientemente provocatorio. E quando si rappresenta un governo europeo, il discredito colpisce tutta Europa. Un esponente di governo non rappresenta solo se stesso ma l'intera Comunità…L'Italia è un grande paese. E' ingiusto per gli italiani e per gli europei che un ministro offra un'immagine tanto distorta e lontana dalla realtà del nostro mondo". 

"L'euroscetticismo del governo B. - conclude un alto funzionario della Commissione - non era appannaggio solo di Bossi (Europa = Forcolandia) e degli altri ministri leghisti, ma anche di ministri-chiave come Tremonti (che attaccava l'euro nella fase delicata del "change-over" invece di badare a giugulare l'inflazione in patria) o come Martino ("non ascoltiamo quelli che traumatizzati per la fine del comunismo lo sostituiscono col fideismo europeista"). E quando abbiamo assistito alle dimissioni di Ruggiero, si è capito che l'Italia rischiava l'isolamento in Europa. Altro che caso Haider! Se uno spettro si aggira per l'Europa, questo è lo spettro del berlusconismo. L'ha sintetizzato bene Andrea Manzella: "Siamo il paese membro fondatore della UE che ospita l'anti-Europa all'interno del governo". E per un paese che grazie all'euro ha scaricato parte del suo enorme debito sulle spalle dell'Unione l'isolamento è gravido di conseguenze negli anni a venire".

Parigi
Parigi è a meno di due ore da Bruxelles, miracoli del TGV. Vai in cerca dei circoli intellettuali che conoscono e amano l'Italia, per sondare il loro stato d'animo; e percepisci, aldilà della solita supponenza, una diffusa e sincera preoccupazione.

"Il primo choc col governo di centrodestra - racconta un testimone - risale al marzo 2002, quando l'Italia era l'ospite dell'anno al Salon du Livre. Il 30 gennaio B. aveva rilasciato al Figaro un'intervista che non aiutava a rasserenare gli animi. Cathérine Tasca, allora ministro della Cultura (e figlia di un illustre fuoruscito italiano durante il fascismo), fece sapere di "non auspicare che il presidente del Consiglio sedesse al suo fianco all'inaugurazione". Il sottosegretario ai Beni Culturali Sgarbi reagì dichiarandola affetta da "razzismo politico e culturale" in una sparata su Libération: "Vorrei chiedere a Madame Tasca se a Parigi stringe la mano a Chirac, che non è meglio né peggio di B. E' vero che il conflitto d'interesse è un'anomalia, ma non sufficiente per rifiutarsi di stringergli la mano". Francesi e italiani finirono per contestare rumorosamente la delegazione governativa giunta da Roma, tra l'imbarazzo di Cathérine Tasca che da buon ministro cercava di essere almeno educata".

Quell'evento ha siglato l'intero quinquennio dei rapporti culturali italo-francesi. Frequentando gli italianisti insigni ti imbatti in Marc Fumaroli, che ti offre un piccolo esempio del fossato culturale che si sta scavando tra le due "nazioni sorelle". Nel 2004 ricorreva il VII° centenario della nascita di Petrarca, un'occasione d'oro per collaborare su un personaggio che unisce Italia e Francia.  "Ebbene - dice Fumaroli - in Francia tutte le opere italiane di Petrarca sono state oggetto di nuove traduzioni, mentre l'edizione petrarchesca in Italia arranca da tempo e nel 2004 non ha fatto alcun passo in avanti. Insomma, su questo Grande che definisco "il Montaigne italiano con due secoli d'anticipo" lo zelo editoriale degli studiosi francesi contrasta con una certa inerzia della patria del poeta".
    
Secondo altri intellettuali, il malessere che ha colpito l'Italia spaccandola in due si radica in alcune "forces profondes" - per usare la terminologia di Renouvin - che riportano all'Italia pre-risorgimentale, quando Lamartine in viaggio nella Penisola si lasciò scappare quel terribile verso:
Je vais cherchant, pardon ombre romaine!  -   des hommes et pas de la poussière humaine.
 
Su questo intervengono i ricordi di un altro italianista: 
"Già nel maggio 2001 Jean Daniel constatava sul Nouvel Observateur: "Le grandi firme - Bobbio, Eco, Tabucchi, Magris, Fo, Montanelli - si oppongono tutte a B., giudicano la sua ascesa umiliante per il paese". Molte di quelle "grandi firme" sono scomparse durante questo quinquennio… Malraux le avrebbe definite "les chènes qu'on abat". Ed erano davvero delle querce Bobbio, Sylos Labini, Terzani, Luzi, Raboni, Montanelli: le loro fronde proteggevano il buon nome dell'Italia liberale, nomi venerati in tutta Europa ma invisi al governo del Quinquennio".(6)

L'ultima parola spetta a Marc Lazar, autore di un libro appena uscito su "L'Italie à la dérive" (ed. Perrin).  "Come ha fatto B. a resistere? E' presto detto, è riuscito a "rassembler" l'intero suo elettorato. Benché presenti un bilancio economico più che contestabile, ha convinto il Nord di essere lui il paladino dei valori di una destra moderna e, d'altro canto, ha sedotto i qualunquisti con le sue invettive "antisistema"… Se malgrado tutto - conflitto d'interessi, leggi su misura ecc. - metà degli elettori hanno votato per lui, non vuol dire che il paese sia diventato disonesto. Bisogna distinguere: esiste senza dubbio un "incivismo" latente che ben si attaglia a un franco tiratore come B.; si nota poi anche un certo cinismo o disillusione verso la politica; e c'è infine fior di gente che vota per lui in tutta lucidità pur non approvandone i metodi. Questa attitudine è un serio motivo di preoccupazione democratica".

Purtroppo, le frizioni tra i due governi in campo culturale hanno fatto da specchio ai contrasti politici, altrettanto profondi - a cominciare dall'attacco all'Iraq. La Francia ha avuto un giorno di gloria a New York (il magistrale discorso di Dominique de Villepin applaudito con una "standing ovation") e un anno di gelo a Washington (secondo la nota boutade di Condoleeza Rice: "Punire la Francia, perdonare la Russia, ignorare la Germania"). Ma oggi Parigi ha ritrovato con Washington un bel pezzo di cammino da fare assieme su dossiers sempre più rilevanti (Iran, Siria, Libano ecc.). Mentre l'Italia?

Londra
L'Eurotunnel ti porta in meno di tre ore nel cuore della City. Bussi alle porte delle celebri redazioni - affacciate un tempo su Fleet Street - per ascoltare previsioni, giudizi e pregiudizi sull'economia italiana. Il leit-motiv comune a tutti è questo: come può B. aver negato per tanto tempo e con grave danno per l'Italia la realtà della crisi economica definendola "un'invenzione della stampa di sinistra"?(7)  C'è chi come Munchau, editorialista del Financial Times, arriva ad ipotizzare una possibile uscita dell'Italia dall'Eurogruppo entro il 2015 se gli investitori cominciassero a vendere i loro Bot per acquistare Bunden tedeschi: una ipotesi riecheggiata da altre testate conservatrici (ma non sarà un "wishful thinking" originato dal loro euroscetticismo?).
 
C'è chi come l'Economist registra con sollievo la fine del governo B. (accomunato nel suo tramonto a quello tailandese di Thaksin), ma non fa sconti al futuro governo Prodi e alla sua risicata maggioranza. C'è chi invece - come il Guardian - punta sulla capacità di Prodi a recuperare competitività e credito internazionale.

Più imbarazzante è far visita alla sede della Fitch Ratings, una delle tre "majors" tra le agenzie di classificazione del mondo. Con 49 uffici e 725 analisti sparsi dovunque, è in grado di valutare in 90 paesi la capacità di migliaia clienti pubblici e privati a rimborsare il loro debito. Fitch offre servizi di valutazione sul rischio Italia agli investitori internazionali (quelli per capirci che finanziano larghe "tranches" dei 1500 miliardi del debito pubblico italiano). "Diciamo che siamo incaricati di consegnare ai mercati finanziari un giudizio indipendente, puntuale e di prospettiva " - si limita a dire un funzionario, che ovviamente si sottrae a qualunque accenno al rischio Italia.
 
Ciò che invece ha sbalordito qui è la scarsa eco lasciata in Italia dall'incredibile episodio andato in onda il 4 aprile durante una trasmissione di "Ballarò". Tra gli invitati c'erano il ministro degli Esteri Fini e il presidente della Camera Casini. Ad un certo punto il conduttore si collega con la sede londinese di Fitch per chiedere a Brian Coulton un giudizio sull'affidabilità per gli investitori del debito pubblico italiano. Lo interrompe Fini: "Ma cosa vuoi che ne sappia questo qui….è un imbroglione, non è credibile, non sa neppure l'italiano….forse Fitch è l'agenzia privilegiata di Rai 3". La sceneggiata prosegue per molti minuti, con Fini e Casini che scherzano su questa misteriosa "agenzia di sinistra" (sic). Commento finale del conduttore: "Non credo che il ministro degli Esteri ed il presidente della Camera facciano bene a delegittimare Fitch". Qui a Londra ci si domanda ancora se è  possibile che un ministro degli Esteri ignori l'esistenza di una "major" come Fitch. E' un episodio che non farà abbassare il rating dell'Italia, ma che la dice lunga sulla padronanza dei meccanismi del capitalismo da parte della cosiddetta "destra liberale" nel nostro Parlamento.

Lasciati gli ambienti della City, facciamo visita ai luoghi della politica - o meglio a un luogo della politica poco frequentato dai diplomatici: quei circoli lib-lab che si sono separati dal New Labour incarnato da Tony Blair man mano che saltavano fuori le prove dell'abbraccio adulterino fra Bush e il loro leader in preparazione dell'attacco contro l'Iraq. Era un sospetto ieri, è assodato oggi che Blair aveva deciso da tempo di seguire Bush nella sua avventura irachena a tutti costi, anche in assenza di una nuova Risoluzione del Consiglio di Sicurezza.(8)  Era noto ieri, è confermato oggi che Robin Cook e Clare Short - i due eminenti rappresentanti della sinistra laburista nel governo Blair - si dimisero nel 2003 per non diventare complici di una decisione "immorale, illecita e illegittima" (come aveva detto l'Arcivescovo di Canterbury); peggio ancora, di uno "spettacolare autogol nella guerra al terrorismo" (come scrisse lo stesso Cook).

In quei circoli vicini al popolarissimo sindaco di Londra è ancora viva l'emozione di quella seduta ai Comuni del 17 marzo 2003, quando Robin Cook annunciò le sue dimissioni "with a heavy heart". Lui , il Demostene di Westminster, al termine di una accorata perorazione suscitò tra i parlamentari il bisogno quasi fisico, liberatorio, di alzarsi in piedi e tributare un lungo applauso a quel "unsung hero of an ethical diplomacy". In quei circoli ti viene mostrata - a riprova della sua lucida analisi - la lettera che scrisse a Blair per confermare le dimissioni: "In linea di principio, reputo un errore imbarcarsi in una azione militare senza un sostegno interno. In pratica, reputo contrario agli interessi britannici creare un precedente con un'azione militare unilaterale". In quei circoli - per tornare alle cose italiane - Blair viene criticato non solo per la sua fatale decisione di seguire Bush nel "pantano iracheno", ma anche per la sua "cinica amicizia" col premier italiano.(9)

In quei circoli, infine, c'è chi abbozza un'analisi più raffinata ed estesa all'intero percorso storico dei rapporti italo-inglesi. Da secoli i governi britannici intrattengono con la Penisola un costante doppio binario: guardano con ammirazione al senso estetico degli italiani e con cinismo alle loro vicende politiche - da Nelson a Wellington, da Gladstone a Disraeli, da Churchill a Blair. In fondo c'è una continuità anche "stilistica" tra Nelson che se la spassa amoreggiando nel golfo di Napoli, Churchill che dipinge paesaggi arcadici nel Bel Paese prostrato del dopoguerra, Tony e Cherie Blair che si travestono da pirati in Sardegna nell'ospitale villa del premier italiano con bandana.

Madrid e Berlino
E' una doppia tappa che va compiuta con spirito di umiltà, ricacciando in gola l'amaro sapore dell'orgoglio ferito. Nel Quinquennio, infatti, mentre l'Italia restava ferma al palo, Spagna e Germania conquistavano de facto quelle posizioni che venivano loro negate de jure. La Spagna non è entrata nel G8, ma è riuscita ad occupare tre spazi d'influenza che nel loro insieme sono ben più rilevanti di un formale accesso nel G8: il Fondo Monetario (con Rodrigo Rato), le istituzioni europee (con Borrell, Solana e Almunia), l'America Latina (dove sta scalzando gli Stati Uniti come polo di riferimento non solo culturale, ma progressivamente anche economico-finanziario). La Germania, dal canto suo, non è potuta entrare nel Consiglio di Sicurezza, ma riesce ormai a proiettarsi nelle aree di crisi del mondo - e non solo sul dossier iraniano - come se fosse membro a pieno titolo del CdS: ad esempio raddoppiando gli effettivi (da 7500 a 15.000) dei propri contingenti dispiegati per le operazioni di "peacekeeping" dell'Onu.
 
Sbarcare a Madrid e frequentare qualche ambiente della Izquierda oggi al potere è un'esperienza impareggiabile. Ti riporta indietro agli anni migliori della "movida" italiana, quando appunto era l'Italia (con la Francia) il paese cui facevano riferimento gli spagnoli appena usciti dal torpore franchista. Oggi le parti appaiono rovesciate: chi l'avrebbe mai immaginato 30 anni fa il laicismo delle leggi del governo Zapatero? e l'antilaicismo di un presidente del Senato italiano che va a Madrid - come ha fatto Pera nel 2005 - a "insultare con toni da crociata leggi votate democraticamente"?  Ma non siamo venuti a Madrid per recriminare, quanto piuttosto per imparare: imparare a fare sistema, a preporre agli interessi di partito quelli della nazione, a vedere governo e opposizione marciare uniti dovunque nel mondo vada piantata la bandiera nazionale. Senza sciovinismi, senza la patetica "altivez" di un passato imperiale ormai remoto.
 
Un amico spagnolo ci dice: "Se si è convinti che la guerra in Iraq è sbagliata, si ritirano le truppe fino all'ultimo uomo senza temere di passare per codardi. Se si è convinti che l'inviato di Aznar a Washington vada sostituito, lo si sostituisce con un'eminente personalità socialista come Carlos Westendorp, senza timore di offendere la Casa Bianca.(10) Se si è convinti che un economista come Rodrigo Rato può concorrere alla testa del FMI , il governo Zapatero lo candida anche se è stato ministro del governo Aznar (ossia, il contrario di quanto è accaduto in Italia con Monti) ". Aznar aveva messo a punto nel 2001 un Piano Strategico d'Azione all'Estero, con l'obiettivo di "divulgare un'immagine di qualità della Spagna e una proiezione della Spagna che mobiliti l'insieme dei protagonisti dell'azione all'estero". Dopo cinque anni l'obbiettivo sembra raggiunto. Gli amici spagnoli ci incoraggiano a seguire l'esempio.
 
L'osservatore italiano atterra a Berlino sperando di essere preso da un sentimento di Schadenfreude, quel senso di consolazione che ti coglie nel constatare che qualcun altro (specialmente se è il tuo Grande Vicino) soffre dei tuoi stessi guai. In questi anni di stagnazione italiana il leit-motiv di ogni nostro ministro è stato quello di citare la crisi tedesca (e francese) per consolarci della nostra. Ma sbarcando a Berlino non si è colpiti da alcuna Schadenfreude, piuttosto da ammirazione verso l'audace architettura e la rinnovata urbanistica della metropoli. Anche la lettura dei dati macroeconomici lascia stupiti: si scopre che pur nel più profondo della crisi la Germania ha mantenuto il posto di primo esportatore mondiale.
 
Gli amici tedeschi che hanno seguito con tristezza le gaffes commesse da vari esponenti del nostro governo (caso Schulz, caso Stefani ecc..) hanno tirato un sospiro di sollievo al cambio di maggioranza a Roma. Ti mostrano un sondaggio effettuato un anno fa da Allensbach, un rispettato istituto demoscopico, sul grado di apprezzamento di cui godono tra i tedeschi i principali statisti del mondo: ahimè, B. è penultimo con un 58% di "opinione negativa", superato solo da Bush (70%) e preceduto da tutti, incluso Sharon (38%) e Putin (33%). Gli amici dell'Italia si aspettano ora che Prodi rimetta a posto i conti e, grazie anche al traino della ripresa tedesca, si generi un nuovo avanzo primario in grado di ridurre lo stock spaventoso del debito pubblico.(11)

Mosca 
Da Berlino a Mosca il viaggio aereo è breve. Si affaccia timida la primavera nella metropoli, ma neppure lo sciogliersi delle nevi invita gli apparatcki moscoviti a sciogliere le loro lingue, tenute a freno da radicati timori gogoliani. Allora è preferibile puntare sui circoli della nuova dissidenza: quella - per capirci - che ha trovato il suo mentore in Andrei Illarionov, fino a poco tempo fa consigliere economico di Putin e suo sherpa al G8, poi dimesso da ogni incarico per aver duramente criticato la "corruttela" di un governo sempre più "aziendalistico" (a partire dall'operazione Yukos, da lui definita la "truffa dell'anno").
 
A proposito di energia, i nuovi dissidenti vorrebbero parlare dei misteri che si celano dietro l'enorme partita che Cremlino e Gazprom stanno giocando con i principali clienti occidentali come l'Italia. Ma in fondo non ne sanno granché. Sanno solo dell'amicizia sincera che lega Putin a B. "Si sono incontrati almeno due volte all'anno - dicono - e non ci sarebbe nulla di male se non fosse per un dettaglio: che in tutti i loro colloqui a Mosca l'ambasciatore italiano è stato sempre tenuto fuori dalla sala, una anomalia che sarebbe inconcepibile per le altre diplomazie occidentali ".

Si è radicato un sospetto ulteriore negli ambienti libertari di Mosca - quelli almeno che si intendono di cose italiane - e cioè che in nome della Realpolitik il governo B. abbia scelto di buttare a mare i propri principi liberali, pur di cogliere al volo ogni occasione di penetrare l'enorme mercato russo. E citano i gesti ricorrenti in cui il premier italiano si è smarcato dalla disciplina della Ue per compiacere il Cremlino: nel 2002 invitando a Roma il dittatore ucraino Kuchma (poi defenestrato dalla "rivoluzione arancione"), nel 2003 difendendo platealmente la repressione russa in Cecenia, nel 2005 e 2006 schierandosi col fronte dei pochi paesi contrari a sanzionare la Bielorussia. "Ma è proprio necessario - ci chiedono - "svendere" i consolidati principi dell'Osce e delle democrazie europee per "vendere" i prodotti italiani sul mercato russo? Stati Uniti, Germania, paesi scandinavi ed altri esportano in Russia senza bisogno di compromessi ideologici ".

Un'ultima visita è di rigore agli ambienti letterari e musicali vicini alla nostra cultura. Quando incontri esponenti dell'intelligentzia ti raccontano in perfetto italiano una storia allucinante. Nel 2003 avevano saputo che il nostro ministero intendeva nominare alla direzione dell'Istituto di Cultura di Mosca una certa Angela Carpifave, scelta dal MAE "per chiara fama". Chiara fama?! La fama che aveva in Russia non era affatto chiara, anzi era gravata dai guai che aveva combinato in più occasioni, da ultimo violando l'impegno di restituire tutti gli oggetti appartenenti ad una mostra sugli "Splendori alla corte degli Zar". Contro questa nomina si sollevò sia il mondo accademico russo sia gli slavisti italiani, ma non ci fu nulla da fare. La direttrice di "chiara fama" si installò all'Istituto circondandosi di guardie del corpo. L'attività culturale italiana in Russia si paralizzò finché il ministro Fini al suo primo viaggio a Mosca decise di incontrarla e la cacciò all'istante. Gli intellettuali moscoviti si chiedono ancor oggi se quella nomina ostinatamente voluta dal MAE era dettata da autolesionismo o da insensibilità, perché il danno fu incalcolabile.

New Delhi, Tokyo, Astana
Non occorre volare fino a quelle tre capitali per captare i sentimenti che vi prevalgono nei riguardi dell'ex premier italiano. Tutti i tre governi hanno ricevuto da B. la medesima scortesia: una visita accuratamente preparata e poi cancellata all'ultimo momento.

All'aeroporto di New Delhi il 28 novembre 2003 tutto era predisposto per accogliere B. nella sua doppia veste di premier italiano e di Presidente del Consiglio Europeo, in occasione del Vertice annuale UE - India. Qualche settimana prima egli aveva discretamente sondato l'Amministrazione indiana per vedere se era possibile sottrarsi a quella missione. La reazione di New Delhi era stata netta: la sua eventuale assenza sarebbe stata stigmatizzata come uno sgarbo imperdonabile. B. si accingeva dunque a partire, quel mattino di novembre, quando venne colto da un leggero malore. L'aereo della delegazione italiana decollò senza di lui, i diplomatici accreditati nei rispettivi paesi passarono un brutto quarto d'ora, il governo indiano infuriato restò convinto che il suo malore fosse la classica scusa per evitare un viaggio indesiderato. Soltanto la successiva visita compiuta da Ciampi nel 2005 ha rimarginato la ferita; ma i rapporti commerciali italo-indiani non ne hanno certo guadagnato, visto che il nostro paese è solo il 17° fornitore di quel gigantesco mercato in espansione.

Alla Corte Imperiale di Tokyo tutto era pronto, con la proverbiale perfezione del protocollo nipponico, per ricevere il presidente B. il 18 ottobre 2005. Anche l'incontro di lavoro nella residenza del premier Koizumi, fissato per la mattina del 19, era stato preparato da mesi con ogni cura, nella forma e nella sostanza; e per la successiva conferenza stampa si erano accreditati fior di giornalisti. Anche all'Istituto italiano di Cultura, destinato a diventare l'elegante faro di irraggiamento della cultura italiana in Giappone, tutto era pronto per l'inaugurazione ufficiale.
 
Ma alla vigilia della partenza, B. comunicò che non poteva lasciare Roma a causa dei lavori parlamentari sulla "devolution" (per l'esattezza, la Lega richiedeva la sua presenza per sorvegliare i deputati della maggioranza durante le votazioni sulla contestata riforma costituzionale). Difficile da spiegare ai giapponesi, impossibile da giustificare all'Imperatore Akihito, incalcolabili i danni arrecati alla credibilità dell'Italia negli ambienti economici di un Giappone in piena ripresa. E' stato un duro colpo anche per i diplomatici italiani, invitati dallo stesso presidente del Consiglio a diventare agenti del Made in Italy nel mondo. Nessuno di loro, tuttavia, ha osato citare il memorabile episodio di un loro illustre predecessore degli anni Venti, il segretario generale Salvatore Contarini, che aveva ammonito Mussolini così: "Chiunque dà un calcio a un interlocutore straniero, per cinque anni resta con la gamba alzata".

Anche ad Astana, la nuova capitale del Kazakhstan, tutto era predisposto per ricevere la visita del presidente del Consiglio italiano, prevista in calendario sulla via del ritorno dal Giappone. Ovviamente anche questa sosta venne cancellata all'ultimo momento, con l'aggravante però che la visita in Kazakhstan era già stata rinviata una prima volta. Inutile sottolineare le dimensioni degli interessi italiani in quel paese, dove il gruppo ENI lavora da un decennio all'attuazione di un gigantesco contratto di estrazione e messa in circolazione del gas metano.

Pechino e Shanghai
Pochi giorni di sosta nella capitale politica e nella capitale economica della Cina sono sufficienti per capire che questo è un viaggio di "ritorno al futuro". A spiegarlo basta un dettaglio dell'episodio di B. che in campagna elettorale ha detto che i comunisti cinesi "non mangiavano i bambini, ma li bollivano per concimare i campi." A parte l'irritazione delle autorità cinesi che la Farnesina si è subito adoperata a lenire,(12)  la vera significativa novità che scopriamo arrivando a Pechino è questa: un tempo l'episodio sarebbe rimasto ignoto ai più (a meno che il Partito avesse deciso di renderlo pubblico), mentre ora è conosciuto da tutti quelli che utilizzano Internet: cioè qualche centinaio di milioni di persone. La potenza della "rete" - in una popolazione culturalmente attrezzata ad utilizzarla - è la vera rivoluzione, che le autorità stesse ammettono di non riuscire più a controllare pienamente.

La seconda scoperta che si fa sul posto è che, mentre per noi la Cina è vicina, per i cinesi l'Italia è lontana. Negli ultimi tempi ogni leader occidentale ha preso la via di Pechino quasi una volta all'anno, eccetto il premier italiano che si è recato in Cina solo nel 2003 in veste di Presidente del Consiglio Europeo; e non si è visto neppure nel 2006 per inaugurare l'Anno dell' Italia in Cina. Chirac, Schroeder e Putin - ci rammentano i nostri amici a Pechino - sono venuti qui più volte e hanno facilitato la conclusione di contratti miliardari. Dall'Italia invece riceviamo soprattutto l'eco delle polemiche sui dazi doganali che il governo B. chiedeva a gran voce di imporre contro i prodotti cinesi. E' curioso - aggiungono - che il governo italiano dimentichi che dal dopoguerra in poi l'Italia si è sviluppata grazie anche alle svalutazioni monetarie, ai bassi costi del lavoro, all'evasione fiscale e - perché no - ad un'estesa attività di contraffazione.

A Shanghai, nella selva dei mille grattacieli che caratterizzano il nuovo profilo della metropoli, il dialogo con gli imprenditori locali si fa ancora più insistente sul tema della competitività. E' vero che l'export cinese aumenta ogni anno a ritmi quasi esponenziali, ma altrettanto aumentano le importazioni, e non solo di prodotti petroliferi. C'è inoltre un dato poco noto: che i profitti di oltre il 50% delle esportazioni finiscono nelle tasche delle società occidentali che hanno investito miliardi in Cina. Ad ogni modo, i nostri interlocutori riconoscono che la base produttiva italiana è più penalizzata di altre dalla concorrenza cinese, sia per la natura dei prodotti sia per le piccole dimensioni delle nostre imprese. "Ma proprio questa fragilità - aggiungono - dovrebbe incitare il vostro nuovo governo a cambiare registro: basta con i desueti appelli ad elevare barriere daziarie contro di noi, incoraggiate invece le vostre imprese ad integrarsi con le nostre. Il vero problema non è tanto la nostra concorrenza sleale quanto la vostra assenza sui mercati asiatici". Il 2006 è l'Anno dell'Italia in Cina: perché mancare quest'ultima occasione?

Washington e New York
La primavera a Washington rallegra al punto da far dimenticare che si è sbarcati nella capitale di un impero in crisi d'identità e carico di debiti. I ciliegi in fiore lungo il Mall ingentiliscono le auliche architetture neoclassiche volute dai Padri Fondatori a simboleggiare l'"utopia realizzata". Ma se Franklin, Jefferson o Lincoln si risvegliassero e scendessero dai loro piedestalli di marmo, troverebbero una società immemore delle sue gloriose radici filadelfiane. Paura del terrorismo e petrolio, Enron e Halliburton, deficit di bilancio e deficit commerciale, neocons e avventure belliche, Abu Ghraib e Guantanamo, ambasciate nel mondo ridotte a cupe fortezze: è questo il paese un tempo tanto amato e ora detestato da tre quarti dell'umanità? si chiedono gli esponenti democratici che incontriamo. Un malinteso senso di patriottismo li ha soggiogati dopo l'11/9; ora si stanno preparando a dar battaglia alle elezioni di novembre e parlano volentieri di allacciare nuovi rapporti con la vecchia Europa. Meglio Venere che Marte. Better soft than hard power.

E l'Italia? Mario Cuomo usa accenti severi: "In questo quinquennio
Giovedì, 27. Luglio 2006
 

SOCIAL

 

CONTATTI