Verso l’Europa dei diritti di libertà: quale libertà?

La Carta di Nizza rischia di cadere nell'irrilevanza, mentre si svuotano alcune libertà sostanziali dei lavoratori. Ne sono una testimonianza le acrobazie verbali e argomentative della Corte di giustizia e le capriole dialettiche dei tecnocrati di Bruxelles nel tentativo di accreditare la flexi-security.

E’ probabile che i cittadini dell’UE abbiano perso di vista il processo costituente dell’Europa dei diritti. I più informati ne ricorderanno il flop causato dai referendum di Francia e Olanda che bocciarono la proposta dei governi in carica in quei paesi di ratificare il Trattato costituzionale siglato a Roma nell’ottobre del 2004 che riportava testualmente le disposizioni della Carta di Nizza. Tutti gli altri non sospettano nemmeno che il processo sia tuttora in itinere (anzi sembra prossimo al traguardo). Ma ciò dipende unicamente dalla propensione della stampa scritta e parlata, in Italia particolarmente accentuata, a ritenere che soltanto le difficoltà del percorso facciano notizia – laddove il vero scoop è che si riesca a superarle. Si direbbe, infatti, che il processo costituente ha risonanza mediatica più quando s’inabissa che quando s’impenna.

Per questo, l’opinione pubblica dell’UE ha ormai perso perfino il ricordo della Carta di Nizza nata, intorno al Natale del 2000, per diventare il primo nucleo della Costituzione europea integrato nei Trattati. Ma la Carta di Nizza è rimasta ciò che era: un documento politico. Il superiore valore giuridico-costituzionale cui aspira lo acquisterà se sarà sdoganato – come sembra possibile – il Trattato di Lisbona del dicembre del 2007 che, riscrivendo con linguaggio più sobrio l’infelice Trattato costituzionale del 2004, rinvia alla Carta e la incorpora.

Può darsi che in attesa del suo ingresso nel firmamento del diritto comunitario, e dunque indipendentemente dalla sua giuridificazione formale, la Carta di Nizza  abbia influenzato le dinamiche politico-istituzionali europee. In effetti, gli organi dell’UE – in primis, il Parlamento – lo hanno recepito come documento d’indirizzo delle politiche comunitarie e la giurisprudenza delle Corti reca più di una traccia dell’esistenza del documento nizzardo. E’ sicuro però che, nel medesimo arco di tempo, si sono consumate vicende significative che dimostrano la sua irrilevanza. Alludo alle acrobazie verbali e argomentative che – nei casi Viking, Laval e Ruffert  – hanno permesso alla Corte di giustizia di svuotare l’enunciato della Carta che riconosce esplicitamente il diritto di sciopero. Alludo, come dirò con agio più avanti, alle capriole dialettiche in cui si stanno esibendo i tecnocrati di Bruxelles e dintorni per accreditare la flexi-security.

Per questo, stante la sua prolungata emarginazione nel limbo dei buoni propositi, la Carta ha attirato l’attenzione della dottrina comunitaria soprattutto come materiale suscettibile di confronti con le esperienze costituzionali dei paesi membri. Confronti più o meno sapienti, ma anche impropri, se non si tiene conto che il processo costituente dell’Europa dei diritti è una sperimentazione priva di precedenti un po’ perché pretende di dimostrare di poter fare a meno della forma-Stato e un po’ perché, avendo un numero imprecisato di padri, non ha la certezza che tutte le madri siano donne oneste.

Come dire che l’incommensurabilità delle vicende e dei testi oggetto di comparazione ha dimensioni tali per cui sarebbe un grossolano errore di metodo valutare e interpretare con criteri domestici la Carta di Nizza per poterla sminuire sul piano transnazionale. Si concederà tuttavia che è ineludibile il test diretto a stabilire se essa appartiene al genere delle carte dei diritti che celebrano l’apologia della libertà intesa come situazione di non-impedimento dove ciò che è comandato o, all’opposto, proibito è ridotto al minimo.

Questa è la libertà da che, tanto nei paesi di civil law quanto nei paesi di common law che si incamminavano verso il superamento delle barriere di una società divisa in ceti e classi, trovò il veicolo più adatto ed insieme la sua icona-simbolo nella libertà contrattuale, ossia nella libertà degli individui di obbligarsi su base consensuale, di co-determinare il contenuto del contratto e, mediante il contratto, disporre autonomamente della propria sfera economica nonché del proprio destino.

Cara ai classici del pensiero liberale, è una nozione che enfatizza il protagonismo individuale, l’orgoglio del far-da-sé, e dunque assegna un valore prioritario all’assenza di interferenze di natura eteronoma.

Alle sue spalle c’è una storia il cui racconto è istruttivo, ma non è edificante, perché la categoria giuridica sotto il cui manto avvengono le transazioni tipiche del mercato del lavoro favorisce l’auto-inganno. Tutti gli scienziati sociali che hanno misurato lo spazio che il mercato del lavoro assegna al libero scambio dei consensi sono giunti alla medesima conclusione: l’orizzonte di libertà che il contratto dischiude corrisponde ad una speranza non realizzata. Come dire che la condivisione universale dell’idea della libertà contrattuale non ha potuto risparmiarle uno dei più brucianti fallimenti della storia giuridica.

Il diritto del lavoro ne è, ad un tempo, testimonianza e conseguenza. Fin dai suoi primordi, infatti, è andato alla ricerca di un’altra idea di libertà.

Più complementare che alternativa rispetto alla nozione di libertà da, che è costruita a misura di un soggetto avulso dalla rete di relazioni sociali in cui è inserito, la nozione di libertà di si riconnette strettamente al valore dell’eguaglianza, perché “mentre è vero che l’autodeterminazione dell’individuo richiede libertà contrattuale”, scriveva nel 1992 Massimo D’Antona, “non è vero che la libertà contrattuale garantisca l’autodeterminazione dell’individuo”.

Insomma, in questa distinta accezione la libertà non consiste nella mera possibilità di fare. “Libero”, ci ha insegnato Norberto Bobbio, “non è colui che ha un diritto astratto senza il potere di esercitarlo, bensì colui che oltre al diritto ne ha anche il potere di esercizio”. Un potere che in una società dove le diseguaglianze di fatto tendono a crescere non si forma spontaneamente, bensì in dipendenza da una quantità di fattori che interagiscono a livello meta-individuale non senza sollecitare al tempo stesso comportamenti attivi dei governanti. Un potere che, nonostante le timidezze di un testo compromissorio come la Carta di Nizza, non è estraneo al suo orizzonte di senso dal momento che riconosce ad “ogni lavoratore (il) diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato”.

A voler essere pignoli, si potrebbe osservare che sarebbe stato più corretto inserire questo disposto normativo, anziché nel Capo III della Carta di Nizza dedicato alla solidarietà, nel Capo dedicato all’uguaglianza – e non solo per renderlo meno esangue di quanto la sua articolazione non gli consente di essere. La domanda che inquieta, infatti, è la seguente: siamo proprio sicuri che il rilievo critico testé formulato sappia di formalismo deteriore? che la collocazione prescelta sia ininfluente sul risultato finale?

L’ubicazione testuale potrebbe non essere tanto innocua, se (come temo) fosse il sintomo d’un’incertezza del pensiero sistematico che ha guidato gli autori della Carta, inducendoli ad astenersi dal ravvisare nella mancanza o fragilità di una disciplina vincolistica del licenziamento un moltiplicatore degli “ostacoli di ordine sociale” che, per usare l’impegnativo lessico dei nostri padri costituenti, vanno rimossi per realizzare l’eguaglianza sostanziale tra le persone. Un’incertezza, questa, che la nostra Corte costituzionale non ebbe allorché, molto tempo fa, statuì la regola della non-decorrenza della prescrizione dei diritti economici durante il rapporto di lavoro là dove e finché vigesse la licenza di licenziare.

Si obietterà che il rilievo formulato poc’anzi è figlio del vizio sessantottino di interpretare a destra una scelta del legislatore per poterla attaccare da sinistra. Tuttavia, vista la piega che hanno preso le cose nell’UE, non si può nemmeno escludere a priori che il medesimo rilievo abbia il merito di svelare, al di là delle intenzioni, la propensione a disegnare un progetto di Europa all’interno del quale l’enunciato della Carta di Nizza è meno perentorio di quanto sembra a prima vista e potrebbe finire per svigorirsi.

Come quelle del Signore, infatti, anche le vie della solidarietà sono infinite. A differenza di quelle del Signore, però, non sono necessariamente lineari e, più virtuali che virtuose, non sono tracciate con la limpidezza che esige l’obiettivo di rimodellare i rapporti interindividuali in base al principio dell’eguaglianza sostanziale. Infatti, i punti di arrivo della solidarietà simulata – una volta si diceva: carità pelosa – sfumano non di rado in forme di compassione sociale incapaci di rimuovere le cause della disuguaglianza: pur apparendo in qualche misura tollerabili, esse restano intatte.

Come dire che, nonostante le apparenze che le attribuiscono immancabilmente un carattere salvifico, la solidarietà non è un valore immacolato, insuscettibile di manipolazioni e contaminazioni. Lo diventa a condizione che si attui nel contesto di un ordinamento giuridico che assegna all’eguaglianza il primato che le spetta nella gerarchia dei valori, perché – senza eguaglianza – anche la libertà si rovescia nel suo contrario e i diritti che ne sono espressione cambiano natura. “Per coloro che stanno in alto”, ha scritto di recente un fine costituzionalista come Gustavo Zagrebelsky, “diventano privilegi e per quelli che stanno in basso concessioni o carità”. 

Orbene, si dà il caso che il progetto di flexi-security elaborato in sede comunitaria e sponsorizzato dalla commissione Europea abbia le proprietà di un anestetico somministrato per ubbidire ai dettami di un’etica opaca. In realtà, fllexi-security è una formula che si compone di una coppia di opposti e, come sapeva Karl Kraus che di ossimori era uno specialista, rivela una mezza verità. Ci dice che c’è qualcosa di meglio del tradizionale diritto del lavoro e che la protezione sostitutiva deve concentrarsi sulla posizione soggettiva del lavoratore nel mercato, prima e fuori del rapporto. Quel che non dice, però, è che anche la versione più perfetta e completa di flexi-security – di cui ancora nessuno può conoscere con precisione strutture e costi – abitua la gente all’idea che ogni rapporto di lavoro introduce fatalmente nella vita dei comuni mortali un intervallo durante il quale si entra in contatto con un potere sostanzialmente insondabile e incontrollabile. Come dire che l’erosione delle tutele nella fase di amministrazione del rapporto di lavoro comporta che il principio d’eguaglianza sostanziale cui si richiama il modello di società prefigurato da una costituzione post-liberale come la nostra sia relegato in soffitta e che “la lotta all’oppressione”, come la chiamava Bruno Trentin, sia espunta dall’agenda tematica del diritto (e dei giuristi) del lavoro. Ciò che si va delineando, pertanto, è un’operazione di giustizia redistributiva tra outsider e insider ininfluente sui rapporti di potere interni all’impresa, e anzi ne aggrava lo squilibrio a danno di tutti gli insider e dunque a vantaggio di chi il potere, che il diritto del lavoro aveva eroso, se lo riprende intatto, come era una volta.

Ecco, allora, cosa si propone e a cosa serve la costruzione ideologico-discorsiva della flexi-security. Serve ad attutire i danni sociali prodotti dal ritorno ad epoche in cui il principio dell’eguaglianza formale tra le parti dominava incontrastato il diritto del contratto di lavoro: anche questa è solidarietà.

 

 

 

 

Martedì, 5. Maggio 2009
 

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