Veltroni: un interrogativo, un chiarimento, un dubbio

Il discorso di candidatura alla guida del Partito Democratico è stato universalmente apprezzato ed è, in effetti, largamente condivisibile. Ci sono però tre punti non secondari che sarebbe bene spiegare meglio

Vogliamo innanzi tutto precisare che ci collochiamo tra quei pochi (o tanti?) che non amano la politica mediatica. Perché tratta il cittadino come un consumatore, del quale cerca con ogni mezzo di suscitare la curiosità, di creargli delle attese, per poi cercare di fargli credere che esista una sola persona in grado di soddisfarle. Ma questo è il mondo nel quale viviamo e, sia pure con qualche fatica, cerchiamo anche noi di adattarci. Perciò, malgrado qualche prevenzione, e sebbene continuiamo a pensare che la proposta ed i propositi di un nuovo partito dovrebbero nascere da uno sforzo di analisi, di ricerca, di discussione, di confronto collettivo, anziché da un “discorso manifesto” di tipo individuale, dobbiamo anche aggiungere di avere seguito con particolare attenzione ed interesse l’intervento di Walter Veltroni al Lingotto di Torino. Discorso con il quale ha posto la sua candidatura alla guida del Partito Democratico.

 

Ebbene, a giudicare dai commenti letti ed ascoltati, ci sembra di poter dire che la sua capacità di comunicazione ed il suo stile sono stati largamente apprezzati e gli obiettivi politici ampiamente condivisi. In generale, la sua candidatura è stata interpretata come l’espressione di una cultura politica post-ideologica maturata negli ultimi due decenni e legata in particolare al progetto dell’Ulivo. Nel merito essa è apparsa l’espressione di un liberalismo compassionevole e, per quanto possibile, egualitario. Che cerca di tenere assieme eguaglianza delle opportunità ed interclassismo, esigenze imprenditoriali ed ambientalismo, rispetto per le religioni e laicità dello Stato, maggiore protezione sociale e lotta agli sprechi ed alla inefficienze della pubblica amministrazione, inclusione degli immigrati che vengono da noi per lavorare e maggiore severità verso coloro che vengono quì per delinquere. Tutto questo nel quadro di una chiara e ribadita impostazione bipolare su riforme istituzionali, legge elettorale e referendum e di un “partito nuovo”, a vocazione maggioritaria, che si propone di nascere mettendo tutti gli aderenti,  indipendentemente dalle esperienze politiche passate, sullo stesso piano.

 

Al termine del suo intervento, molti dei presenti e non pochi commentatori si sono detti convinti che Veltroni sia oggi l’unica persona in grado di esprimere questo progetto in maniera compiuta, convincente, senza arroganza ed, addirittura, con modi gentili. Inoltre sarebbe l’unico in grado di presentarsi, allo stesso tempo, come espressione dei partiti esistenti e come uomo nuovo. Perciò quello che nel passato veniva faticosamente ricercato attraverso il “dialogo-confronto” tra Fassino, Rutelli e Prodi, oggi non avrebbe più bisogno di continue mediazioni (con paralisi e relative perdite di tempo) perché con un unico interprete, ovviamente, la sintesi sarebbe assai facilitata. Un bel progresso quindi. In ogni caso, più o meno in questi termini, quasi tutti hanno letto l’evento del Lingotto. Per quel che ci riguarda, unendoci all’apprezzamento per il tono e per la gran parte dei contenuti del discorso di Veltroni, vorremmo anche: avanzare un interrogativo; tentare un chiarimento; sollevare un dubbio.

Cominciamo dall’interrogativo. Veltroni ha molto insistito sul legame tra il “no al precariato” ed il “si ad un nuovo patto generazionale”. Perciò la domanda alla quale non si può sfuggire è: in cosa dovrebbe consistere il nuovo patto generazionale?  Ora, malgrado Veltroni sia stato del tutto reticente sul punto, è facile arguire che poiché i vecchi sono in numero maggiore rispetto ai giovani  su di loro dovrebbe ricadere il costo dell’aggiustamento. Allora, in cosa dovrebbe consistere il patto proposto? Bisogna ulteriormente diminuire il valore delle pensioni? A questo proposito ricordiamo che per effetto della deindicizzazione, introdotta a partire dalla prima metà degli anni novanta, il potere d’acquisto delle pensioni viene eroso, anno dopo anno, ed ha ormai perso oltre il 15 per cento. Tant’è vero che lo stesso Governo si propone una rivalutazione delle pensioni più basse a partire dal prossimo anno, anticipandola con l’erogazione di una “una tantum” nel mese di settembre, od ottobre.

 

Occorre anche aggiungere che, a seguito dell’accordo del 1995, con la trasformazione del sistema pensionistico (da retributivo a contributivo), quando il nuovo sistema andrà a regime il valore della pensione pubblica rispetto alla retribuzione sarà più o meno del 50 per cento. Probabilmente meno che più. E’ pur vero che i lavoratori potranno farsi una pensione integrativa, ma è altrettanto vero che dovranno farsela a spese loro. Riducendo cioè in proporzione il salario spendibile durante l’arco della loro vita lavorativa. E quando il salario disponibile oscilla tra i mille ed i millecinquecento euro al mese, non è certo una passeggiata di salute. Stante questa situazione si può realisticamente pensare ad una ulteriore diminuzione delle pensioni pubbliche di vecchiaia? E’ questo che ha in mente Veltroni?

 

L’altra pista da esplorare potrebbe essere quella dell’aumento dell’età pensionabile. Considerato che si incomincia a lavorare più tardi e che a seguito delle conquiste sociali e di quelle della medicina campiamo più a lungo, non è certo una stravanga ipotizzare che il lavoro possa essere lasciato più tardi rispetto a quanto avveniva in passato. Tuttavia la discussione sullo “scalone” (innalzamento secco da 57 a 60 anni a partire dal prossimo gennaio) conferma che le soluzioni non sono facili. Intendiamoci, discutendo in astratto ed ipotizzando due deroghe: la prima relativa a coloro che in quelle classi di età si venissero a trovare in condizione di disoccupazione involontaria e la seconda per quanti svolgono mansioni manuali in lavorazioni che, in base ai dati esistenti, mettono a rischio la salute e l’incolumità fisica, con scalini al posto dello scalone (ma persino con lo scalone!) non dovrebbe essere impossibile trovare un approdo. Cioè un accordo che consenta contemporaneamente e concretamente di porre mano ai problemi assai seri che affliggono il sistema pensionistico.

 

Naturalmente per il sindacato esiste una difficoltà che non tocca a lui rimuovere. E la difficoltà consiste nel fatto che il programma di governo prevede, puramente e semplicemente, l’abolizione dello scalone. Obiettivo che una parte della maggioranza considera irrinunciabile. Ora, sebbene nelle vicende sociali e politiche può sempre succedere di tutto, è piuttosto arduo pensare che si riesca a togliere dal binario morto il negoziato se il governo si limitasse ad assumere “mansioni di semplice custodia ed attesa” nella speranza che la sponda del sindacato consenta di costituire il collante sufficiente per ricomporre una posizione comune della propria maggioranza. In ogni caso, quand’anche dovesse accadere l’inatteso, bisogna essere chiari su un punto. E il punto è che l’allungamento dell’età pensionabile non ha nulla a che fare con il “patto generazionale” contro il precariato e per accrescere le possibilità di accesso al lavoro dei giovani. Almeno nel breve periodo. D’altro canto è abbastanza facile capire che quanto più a lungo gli anziani conservano il loro posto di lavoro, tanto più crescono le difficoltà di accesso dei giovani al lavoro. Nel medio lungo periodo, se entrano in gioco altri fattori economici quali: l’aumento dei ritmi di crescita, l’accrescimento degli investimenti, il miglioramento dell’efficienza, la capacità di mantenimento e di conquista di nuovi mercati, le cose possono ovviamente cambiare e nulla preclude anche prospettive di nuova occupazione. Ma la prospettiva che cambia sicuramente è, come amava ricordare spesso Keynes, che “nel lungo periodo siamo tutti morti”. Nell’attesa che questo accada sarebbe utile che Veltroni facesse capire meglio i contenuti del suo “patto generazionale” per dire “no al precariato” ed accrescere una stabile occupazione giovanile.

 

L’altro punto su cui ci sembra opportuno un chiarimento è la citazione di Olaf Palme: “La battaglia non è contro la ricchezza, ma contro la povertà”. Si può capire l’utilizzo polemico che ne ha voluto fare Veltroni, con riferimento al manifesto di Rifondazione, dal quale veniva urlato che: “anche i ricchi piangono!” L’inelegante compiacimento di Rifondazione per lo sconforto dei ricchi può essere considerato (e probabilmente lo è) politicamente inopportuno. Ma questo non significa che sia anche infondato nel fatto. Anzi, se proprio vogliamo stare ai fatti si potrebbe addirittura dire che “soprattutto i ricchi piangono”. Così almeno la pensava il grande economista americano John Kenneth Galbraith. Il quale sosteneva infatti “che la causa della pace sociale si è sempre nutrita della grida di angoscia dei privilegiati. Nessun paese fa eccezione. I ricchi sentono più profondamente dei poveri le ingiustizie di cui si credono vittime e la loro capacità di indignazione non ha limiti. Quando i poveri sentono i loro lamenti, si mettono a pensare che quelli che stanno economicamente meglio soffrano davvero. Finiscono così con l’accettare la propria sorte con più rassegnazione. E’ una calmante ad effetto immediato”; ed aggiungeva che per confortare i tormentati occorre tormentare i confortati. Per Galbraith era esattamente questo il segreto di una “buona politica”. Vogliamo perciò dire a Veltroni che Palme condivideva pienamente questo “segreto”. Lo possiamo affermare per conoscenza diretta. Ma lo testimonia anche e soprattutto il fatto che nel periodo in cui è stato premier svedese il prelievo fiscale, in rapporto al Pil, della Svezia era di 15 punti maggiore rispetto all’Italia. Ed ancora oggi, a tanti anni di distanza, la Svezia può assicurare ai suoi cittadini consistenti diritti sociali universalistici perché il suo prelievo fiscale è di quasi 10 punti superiore al nostro. Insomma, Palme sapeva bene per esperienza diretta che se si vuole confortare i tormentati è necessario tormentare i confortati.

 

Veniamo infine al dubbio. L’approvazione e comunque l’appoggio dei capi partito alla candidatura di Veltroni e l’assenza (almeno finora) di ulteriori veri competitori per la guida del Partito Democratico possono indurre a due diverse letture. La prima è che la candidatura di Veltroni è il prodotto di un accordo tra i vecchi apparati. La seconda è che in base alla regola della elezione diretta essa si è imposta per la sua forza oggettiva, costringendo gli altri potenziali aspiranti a ritirarsi in buon ordine. Si capisce che chi corre da solo è sicuro di vincere. Ma questa può diventare una magra consolazione. Perché quando uno fa una corsa solitaria non deve certo stupirsi che ci siano anche quelli che ritengono di poter discutere le sue qualità come corridore. Che, nel nostro caso, significano dubbi sulla adeguatezza della sua leadership. Si tratta di dubbi che non potranno essere sciolti prima delle prossime settimane. Quando cioè lo stesso Veltroni sarà chiamato a misurarsi, in prima persona, con la necessità di sbrogliare tutti i nodi irrisolti relativi alle regole per l’assemblea del 14 ottobre. Solo allora infatti si potrà incominciare a capire se il Partito Democratico sarà una formazione politica davvero nuova, o la sommatoria di due vecchi apparati con qualche piccolo extra. In sostanza solo allora si avranno gli elementi per capire se le virtù di comunicatore di Veltroni non sono separate, non sono altra cosa, rispetto alla sua effettiva capacità di esercitare la  leadership.

Mercoledì, 4. Luglio 2007
 

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