Usa: come far votare ricco chi vive povero

Bush ha vinto nonostante la sensazione generalizzata che oggi in America si viva meno bene e più insicuri, proponendo i valori religiosi e della tradizione. Che cosa accadrà ora e che cosa si dovrebbe fare


Qualcosa bisogna pur dire su queste elezioni vinte da Bush.

Inaspettatamente? Non si può dire: s'era capito da tempo che Kerry non riusciva ad entrare in sintonia con una larga parte d'America… l'americano medio - la maggioranza: non quello sofisticato tipico delle città, di New York e di San Francisco - sentiva Bush, nella sua semplicità semplicistica e provinciale, più vicino del bramino cosmopolita di Boston.

Poi, Kerry è caduto a piedi giunti nelle trappole bushiste. Prima s'è lasciato incastrare in uno scontro, per la gente in realtà irrilevante, tra il suo curioso passato di eroico combattente del Vietnam (un passato reale), però poi (altrettanto realmente) pentito e il dubbio foglio di congedo di Bush che, durante quella guerra s'era, invece, saggiamente inguattato… prima di convertirsi anche lui: a rovescio, però. E fra un convertito e un pentito la gente di quello s'é fidata più che di questo. Poi ha pasticciato sulla guerra all'Iraq: ha votato a favore, poi ha detto che era sbagliata, poi che lui l'avrebbe condotta diversamente: insomma, tutt'altro che una posizione netta.

Inopinatamente, Bush ha vinto queste elezioni? bè, certo.

Tutte le ragioni, o quasi, per cui avrebbe dovuto perdere le aveva puntigliosamente elencate, nel più strano, e coraggioso, endorsement - appoggio, sostegno - ricevuto da Kerry, il piccolissimo (circolazione 600 persone: e, però, dopo il fatto, 1 milione su Internet...) e colorato giornale di Crawford, in Texas - "casa del presidente degli Stati Uniti", come ricordato a fianco della testata -The Iconoclast, l'Iconoclasta. Ha cent'anni e, con quel nome, per definizione è controcorrente.


"Sono pochi - ha scritto - gli americani che quattro anni fa avrebbero votato per George W. Bush se avesse promesso che, come presidente, avrebbe: svuotato il fondo fiduciario della sicurezza sociale per 507 miliardi di dollari per riequilibrare parzialmente l'irresponsabilità fiscale su altri capitoli di spesa e, insieme, tagliare i pagamenti in atto della previdenza sociale; tagliato del 17% i programmi di assistenza sanitaria pubblica che ancora ci sono e ridotto la paga ai soldati e il sostegno ai reduci di guerra; eliminato lo straordinario pagato - non il lavoro straordinario - per milioni di americani e alzato il prezzo del petrolio del 50%; regalato fior di tagli alle tasse agli affaristi che hanno mandato milioni di posti di lavoro americani oltremare e, di fatto, incoraggiato la loro partenza;regalato miliardi di dollari di contratti pubblici a licitazione privata e senza gara alcuna;coinvolto il paese in una guerra mortale e assai discutibile;ricevuto un attivo di bilancio federale e rovesciatolo nel peggior deficit della storia americana, creando in soli quattro anni un debito che richiederà generazioni intere per essere ripagato. Questi erano tutti elementi di un'agenda segreta emersi solo dopo che Bush ha assunto il potere. Gli editori de l'Iconoclasta quattro anni fa hanno appoggiato Bush, basandosi sugli impegni che aveva assunto, non su questa agenda mascherata dal fumo. Oggi appoggiamo il suo oppositore, John Kerry, basandoci non solo su quello che Bush ha fatto ma anche su una visione di ritorno alla normalità di cui Kerry ci dice che il paese ha bisogno". 
 
Il direttore de l'Iconoclasta ha subito pagato la sua scelta in abbonamenti - perdendone un terzo: come ha perso un terzo di pubblicità locale - ma è diventato un'icona meritatamente letta in tutta l'America. Da tutti: amici e nemici. Ora, forse, magnanimo, il ranchero di Crawford pare voglia invitarlo a pranzo.

Insomma, sulla base dei risultati ottenuti, in guerra ed a casa, non sembrava proprio esserci ragione per rieleggere Bush: in questi quattro anni, decine di milioni di americani, la maggioranza, vivono un'insicurezza economica maggiore di prima e godono di minori opportunità; gli Stati Uniti sono schiacciati dal debito verso l'estero e dipendono dalla buona volontà delle banche centrali cinese e giapponese di continuare a finanziare il loro deficit commerciale per continuare a sostenere i loro consumi: non potrà essere certo in eterno ma Bush non pare proprio avere, e non ha infatti proposto, la minima idea su come rientrare dai "deficit gemelli" (commerciale e dei bilanci, federale e statali); mentre, in nome della lotta al terrorismo, gli americani vanno perdendo un po' tutti pezzi di libertà individuali e politiche (il Patriot Act, il ministero della Sicurezza interna, la galera e peggio - Guantanamo, i tanti Abu Ghraib in giro per il mondo… - a tempo indeterminato e senza formulazione di accusa; mentre il presidente ha diviso il paese come mai nessun altro, dopo i giorni di una sincera e fortissima unità nazionale del dopo 11 settembre; ed, all'estero, il paese affonda in uno scontro rischioso e difficilmente vincibile col fondamentalismo islamico: scontro che, di per sé,  rende impossibile estirpare il terrorismo, anzi lo diffonde anche dove prima - come terrorismo - non c'era.

Ma, allora e se è così, come ce l'ha fatta? Con una campagna tutta in positivo e tutta in negativo, di pari passo.

In positivo, cioè a difesa e promozione dei valori che qui chiamano tutti sociali: non buoni posti di lavoro, un welfare decente e quant'altro, ma (e già questa è una bella confusione) lotta - meglio, condanna - all'aborto, ai gay, ad una concezione aperta dei diritti civili.

E, in negativo, giocando sulla paura. Qui, naturalmente, non tanto dei "comunisti" - lo sanno bene, al contrario di altri, gli americani che sono stati sconfitti da almeno quindici anni - ma paura di Kerry e dei suoi che, ha assicurato il vicepresidente al paese una settimana prima delle elezioni - e ha funzionato - se avessero vinto, con la loro "debolezza", avrebbero portato i terroristi a far detonare una qualche arma di distruzione di massa in una grande città americana. Perché solo Bush poteva "proteggere" gli americani… 

 
La verità è che una campagna elettorale condotta in negativo - non a difesa tanto dei propri valori e princìpi, ma all'attacco, magari inventato ma il più personale e velenoso possibile - rende: e rende proprio in termini elettorali. Questo tipo di campagna Kerry a lungo non l'ha fatto suo: i focus groups - che avevano il difetto, però, di essere democratici - lo avevano persuaso che gli elettori non amavano un'impronta troppo negativa. Quando, tre settimane prima della fine della corsa, s'è deciso a cambiare rotta - lo convinse Clinton - ormai evidentemente era troppo tardi.

E, dietro tutto questo, c'è un fenomeno del quale i democratici americani si sono resi conto con grande ritardo. Una macchina organizzativa, ma prima ancora intellettuale, strapotente - quella della cosiddetta destra evangelica cristiana - messa in piedi con infinita pazienza e un enorme lavoro capillare di base nel corso di anni. Una macchina che parla di impegno e di dedizione e che ha inondato per mesi e per anni l'America di opuscoli e volantini, seminati siti web e sparpagliato per il paese oratori e predicatori. Su questo piano, i democratici sono almeno dieci anni indietro; e solo in extremis hanno tentato di recuperare, anche in parte riuscendoci. Ma ancor più importante è saper fare i conti con il fervore "politico" degli evangelici militanti.

Si dimentica spesso che questo paese è radicato come pochi altri nelle sue tradizioni. Che non saranno storiche come quelle degli europei ma sono fermissime. Il problema è che gli USA hanno avuto due gruppi di padri fondatori: i puritani del Massachusetts, largamente ispirati da Calvino, rifugiato francese in Svizzera dal 16° secolo, e un gruppo di straordinari personaggi (Jefferson, Madison, Franklin, Payne…) che si rifacevano, invece, anche a un rifugiato francese in Svizzera del 18° secolo, Voltaire.


Pochissimi americani - e, a dire la verità, nessun europeo o quasi - sanno del "Trattato di pace e di amicizia tra gli Stati Uniti d'America ed il Bey e i suoi sudditi di Tripoli di Barbaria", più noto semplicemente come il Trattato di Tripoli e firmato il 4 novembre 1796 dal presidente George Washington. L'art. 11 proclama come "non essendo il governo degli Stati Uniti d'America in alcun senso fondato sulla religione cristiana - giacché in sé non nutre alcuna prevenzione di inimicizia contro le leggi, la religione o la tranquillità dei mussulmani; e, dato che i detti Stati [Uniti] non sono mai entrati in alcuna guerra od atto di ostilità con alcuna nazione maomettana, le due parti dichiarano che nessun pretesto derivante da opinioni religiose produrrà mai un'interruzione dell'armonia che esiste tra i due paesi" (la sottolineatura è aggiunta).

Oggi a "passare" è la vendetta degli epigoni dei calvinisti puritani (non dei credenti: dei religiosi fondamentalisti) contro i liberal-razionalisti che si richiamano alla tradizione di Washington e Jefferson. E' uno scontro tra tradizioni e visioni di società profondamente diverse e anche divergenti.

Il punto è che quest'anno gli elettori, molti elettori, hanno dato più importanza ai "valori" - ai loro valori: Dio, sì, ma quel loro Dio; e patria e famiglia - che all'economia e anche alla guerra all'Iraq. Ma il problema vero è che, forse, oggi sono i democratici a non avere più un senso chiaro e profondo dei loro valori. Non capita solo agli americani. Ma succede spesso che a loro capiti di vivere un fenomeno societario qualche anno prima che agli altri. E raramente in meglio.

Qui, forse, si va riaffermando il criterio che era andato negli ultimi decenni largamente perduto di scelte societarie e politiche di fondo basate più sulle differenze ed il chiarimento delle posizioni che sul tentativo di slavarle e uniformarle tutti correndo al centro. Se è così, adesso che Bush ha avuto in regalo quattro anni di più, i democratici potrebbero doversi radicalizzare - anche se non vorrebbero farlo - contrapponendo al populismo culturale, e "valoriale", della destra repubblicana e fondamentalista un loro più radicale populismo "sociale": per cui la prossima volta la maggioranza degli elettori dia maggior peso al degrado di condizioni di vita che subisce piuttosto che alla necessità di bocciare in undici referendum di undici Stati (tutti quelli dove si è votato) l'unione "legale" - non il matrimonio - dei gay.

In realtà, Kerry più che da Bush è stato sconfitto da Karl Rove, il suo stratega politico. E' stata sua l'idea di aggiungere in 11 Stati la scheda contro il diritto al matrimonio per i diversi; e Bush (che in passato aveva sostenuto il contrario: non si parla, infatti, di matrimonio religioso ma di una specie di scambio di promesse quasi contrattuali i tra due persone, sul piano civile) è stato convinto a promettere che sosterrà un emendamento costituzionale teso a proibirlo (un fatto nuovo: gli emendamenti alla Costituzione hanno aggiunto diritti, finora, non li hanno vietati).

Per ora bisogna, come dire?, constatare non che in America, come dicono alcuni ha vinto il Vangelo, ma che ha vinto la Bibbia e la Bibbia secondo maître Jean Calvin e George W. Bush. La versione di quei cristiani un poco agitati che fustigano i peccati mortali degli altri. Ma neanche tutti: solo quelli più "convenienti", l'omosessualità sì e il divorzio no, anche se si è secondo dottrina convinti che di peccato altrettanto mortale si tratta. Solo che questo particolare peccato non è opportuno conclamarlo alto e forte, magari nel Parlamento europeo, perché, per esempio i quattro top leaders di quella parte politica sono tutti divorziati e risposati e, dunque, tutti peccatori mortali.

Alla fine ed al dunque, dietro questa cortina un po' fumogena di "valori" á la carte ma - questo è il punto - vissuti dai più,  sinceramente, come imprescindibili, il capolavoro assoluto dei repubblicani è stato di far votare ricco chi vive povero. A milioni. Grazie ai "valori". Mentre i democratici riescono a parlare ancora alla gente sulle questioni di pane e di burro, gran parte dell'America li percepisce come arroganti e fuori sintonia nel momento stesso in cui si parla di valori. Proprio perché non riescono ad articolarne di nuovi, di veri, di forti e sinceramente sentiti.

Per vincere - non per riprendersi: in fondo hanno messo insieme quasi il 49% dei voti - dovranno anche loro puntare su valori - su sentimenti - forti, mobilitanti. Ad esempio, sulla solidarietà: che è un nervo tragicamente scoperto - qui e altrove - dei conservatori. Ma perché mai, si chiedeva dopo le elezioni una lettera al New York Tìmes, non dovremmo considerare questioni "cariche di valori" la battaglia alla guerra preventiva, all'ingiustizia socio-economica, al razzismo, a un sistema sanitario che non si apre a chi non sia abbiente, alla pena di morte, all'irresponsabilità fiscale e alla distruzione dell'ambiente? Certo che ormai è maturo un dibattito su quel che sono realmente i valori.

Adesso, con tutto questo, bisognerà farci i conti. Ci saranno conseguenze, serie, anzitutto sul piano della politica interna. Ha dichiarato Richard Viguerie - il decano dei neo-con e pioniere dell'uso diffuso di Internet per la destra emergente - che "adesso arriva la rivoluzione. Se adesso non siamo capaci di implementare un'agenda davvero conservatrice, quando mai lo faremo"?

E l'agenda conservatrice prevede di puntare a smantellare in primis, naturalmente, tutte le decisioni "sociali" (culturali e valoriali) dei decenni passati. La prima mossa sarà di imbottire la Corte Suprema dei giudici costituzionali necessari a garantire ai neo-con la possibilità di riformattare a loro immagine e somiglianza il paese. Cominciando presto: il presidente dei nove giudici supremi è molto malato; almeno altri due si dovrebbero, per ragioni età e di salute, dimettere a breve; e i giudici sono nominati a vita dal presidente degli Stati Uniti. Di uno già si sa il nome: Alberto Gonzales, l'avvocato della Casa Bianca che aveva avallato la legalità dei "metodi forti" (le torture) a Guantanamo e ad Abu Ghraib, per dare un'idea.

Nella vita di questo paese è difficile sottovalutare l'importanza cruciale delle decisioni della Corte Suprema: è lì che vennero segregate, a suo tempo, le scuole ed è lì, poi, che vennero desegregate; è  lì che venne statuito che una donna avesse il diritto a decidere o no se abortire ed è lì che quella decisione potrebbe essere rovesciata.

Poi ci sarà da implementare l'agenda economica. Che prevede di spingere avanti una società "di proprietari"; che intende dare ai giovani la "libertà" di costruirsi individualmente la propria sicurezza sociale, smantellando quanto di importante pur resta del sistema pubblico (privatizzandolo); che ha intenzione di sussidiare molto di più la scuola privata per garantire alle famiglie il diritto di scegliersi maestri che abbiano i loro stessi "valori" (non tutti, s'intende: quelli che la "maggioranza", cioè lui, ritiene giusti, s'intende); che è deciso ad abbassare ancora le tasse, ai ricchi più che ai poveri - dichiaratamente - perché, secondo lui, poi i ricchi investono, producendo nuova ricchezza; che è deciso a ridurre il diritto dei pazienti a portare in tribunale i medici che sbagliano e dei cittadini a rifarsi dei danni subiti dalle imprese e dalle multinazionali perché altrimenti sale troppo il costo delle loro assicurazioni; che vuole deregolamentare al massimo, il che gli verrà consentito da un Congresso ancora più amico, ogni forma di business; che non ha l'intenzione di sacrificare ogni possibile crescita economica al rispetto dell'ambiente.

Insomma, un programma da mercato realmente selvaggio, come denuncia desolatamente l'AFL-CIO, il sindacato, tra i grandi sconfitti di questa elezione.
E a chi resta indietro? Ci pensa, ci dovrà pensare, una carità cristiana compassionevole.

Bush, invece, adesso "mirerà a migliorare - dice - la qualità della vita delle madri, dei padri e dei loro bambini": agli imprenditori non verrà più richiesto di pagare lo straordinario oltre le 40 ore settimanali perché ciò - dice Bush - favorirà le scelte individuali, la flessibilità, per le persone e per le famiglie. Forse… Ma di sicuro, se diventa legge, la proposta del presidente consentirebbe a un datore di lavoro di chiedere al dipendente dieci ore di lavoro in più alla settimana in cambio di dieci ore di meno in futuro. Ma in un futuro che sceglierà lui, il datore di lavoro, quando farà comodo a lui, altro che al lavoratore ed alla flessibilità della sua famiglia… E, se il dipendente rifiutasse, potrebbe venire licenziato/a senza problema alcuno. Con evidente miglioramento della sua "qualità della vita".

Quanto ai rapporti col resto del mondo, Bush non cambierà certo l'impostazione unilateralista che ha scelto. Nonostante questo, l'ultima cosa di cui il mondo oggi ha bisogno è che la crisi internazionale - che si inasprisce, come vediamo,- spinga l'Europa, o un pezzo d'Europa, alla tentazione di costituire una specie di blocco politico-militare per fronteggiare l'America.

La scelta di contrapporre l'Europa all'America sarebbe però sbagliata. L'Europa non può essere, infatti, l'altro polo di una nuova sfida bipolare: non ha i mezzi e non ha l'interesse a diventare una specie di nuova Unione sovietica, anche se in meglio.
Va detto forte e chiaro che è stato un drammatico errore, da parte britannica, dividere l'Europa sull'Iraq. Ora bisognerà re-imparare a lavorare insieme, sul serio, e fatto questo bisognerà re-imparare a lavorare anche insieme all'America. Semplicemente perché alternativa non c'è. Ma indispensabile - decisivo - è che a questo punto anche l'America accetti di lavorare con - non sopra - l'Europa. Il futuro prossimo venturo sarà altrimenti durissimo.

Oggi sembra tramontata, almeno, la prosopopea trionfante dei generali da scrivania che, solo un anno fa, esultavano sopra le righe perché, decidendo di salvare il mondo da soli, gli Stati Uniti prendevano, finalmente, atto che l'ONU era morta. Prendevano atto, diceva Richard Pearle sul Guardian, "del fallimento della presunzione progressista che affidava la sicurezza al diritto internazionale", cioè all'ONU. Ma proprio lo sforzo che anche stavolta gli Stati Uniti hanno fatto per dipingere coi colori della coalizione del '91 quella che adesso è apparsa un'assai decurtata "coalizione dei volenti" stava lì a smentire l'assioma che, poi, dell'ONU e del mondo agli USA non gliene importi più niente. Tanto è vero che ora, per uscire dal pantano iracheno, è all'ONU che hanno chiesto e chiedono aiuto.

Quanto all'Iraq: il problema è come uscirne. Gli americani, e la "coalizione dei volenti" che hanno messo insieme, non possono vincere questa guerra: per come l'hanno iniziata, per come l'hanno gestita, per come la stanno conducendo.

C'è davvero bisogno, qui, di una terza via, tra la risposta militare e la resa. Potrebbe essere una risposta, sembra banale, di polizia. Se i rapitori non si possono sconfiggere in guerra- perché questa non è una guerra tradizionale; se bisogna evitare di premiare i rapitori trattando con loro- perché qui la mediazione somiglia troppo alla resa e apre all'escalation delle richieste; bisogna perseguirli così come una grande forza di polizia - magari qui di polizia militare - farebbe a casa nostra: indagini, informatori, taglie, collegamento e coordinamento tra tutte le forze che lavorano sul territorio, in uno sforzo pianificato, capillare e mirato a scoprirne i covi ed arrestarne od eliminarne i capi.

Qui da noi, però, a battere le Brigate Rosse non bastò neanche il lavoro di polizia. Si creò, e vinse, un fronte convinto d'opposizione alle BR. L'analogia con la situazione in Iraq, ovviamente, è imperfetta. Qui oltre al terrorismo, che non c'era e che oggi è stato invece largamente importato, c'è una resistenza tradizionale, nazionale, anche culturale che gli americani stessi del resto riconoscono - almeno i militari - quando decidono di chiamare terroristi i terroristi e insorti, invece, questi oppositori armati. Ma certo l'analogia è meno imperfetta della strategia americana: immaginate se qui da noi negli anni '80, per sconfiggere le Brigate Rosse polizia ed esercito si fossero messi a bombardare un quartiere di Roma o di Torino… 

In definitiva, e per concludere: questa di Bush non è una parentesi, una fase di passaggio. Sta diventando ormai un'era. Se Bush perdeva l'allucinante progetto neo-con sarebbe stato sepolto per sempre. Ora è meglio non farsi illusioni: non si capisce perché, ad affossarlo, dovrebbe essere Bush.

Angelo Gennari è responsabile del centro studi Cisl

Martedì, 9. Novembre 2004
 

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