Uno 'spazio di interrogazione' per laici e cattolici

Con il nuovo corso di Ratzinger la laicità della politica e dello Stato è tornata ad essere un problema. Ci si può incontrare in un'area comune in cui ciascuno deve essere disponibile ad "essere interrogato" dall'altro. Da un tele confronto si potrebbe decidere come comportarsi di fronte a quei problemi etici che sarebbe bene non normare, per evitare intrusioni che ledano il primato della persona: bastano i principi della Costituzione
La laicità, della politica e dello Stato, è tornata ad essere un problema. Sembrava un punto d'arrivo ormai acquisito, un patrimonio comune che più nessuno aveva interesse a rimettere in discussione. Ma può accadere che le cose più ovvie ad un certo punto si rivelino problematiche. E oggi, per una serie concatenata di contingenze, ci troviamo costretti a ridefinire i confini della laicità.

Che cosa è accaduto, quali sono i fattori che hanno riaperto tutto il problema? C'è anzitutto il fatto paradossale che la caduta della Dc come forza centrale del sistema politico italiano ha ridato vigore all'integralismo religioso, per il semplice fatto che nell'incerta competizione bipolare c'è una mobilità del voto cattolico, ed entrambi gli schieramenti cercano di attirarlo nel proprio campo. Di qui una maggiore remissività di fronte alle posizioni della Chiesa, una disponibilità a fare concessioni e a riconoscere trattamenti di favore, e anche un atteggiamento di ossequio verso l'autorità ecclesiastica non sempre compatibile con la dignità della funzione pubblica ricoperta.
 
Ecco che allora il confine tra Stato e Chiesa, tra politica e religione, finisce per essere progressivamente spostato, e le due sfere, che la Costituzione definisce come autonome e sovrane ciascuna nel suo ambito, tendono a confondersi e a sovrapporsi. È indicativo il fatto che il termine "zapaterismo" abbia assunto nella polemica politica quotidiana il significato di una eresia, di un modello negativo. E la stessa parola "laicità" viene usata con circospezione, con qualche aggettivazione che ne ammorbidisca il significato. È la politica italiana nel suo complesso che appare oggi molto più permeabile e influenzabile dal fattore religioso, non certo per un soprassalto di spiritualità, ma per una più opportunistica considerazione delle convenienze.

Naturalmente, la Chiesa cattolica utilizza questi nuovi spazi che le vengono offerti. Ma occorre vedere più a fondo quale è la sua strategia e quali sono i cambiamenti che si intravedono con l'avvio del nuovo pontificato. La stessa elezione di Ratzinger è un sintomo indicativo, per la personalità del nuovo Papa e per l'orizzonte culturale che lo contraddistingue. Ratzinger è l'esponente di spicco di una teologia razionalista, imbevuta di cultura classica europea, che ha i suoi referenti e i suoi interlocutori nel platonismo e nel moderno idealismo tedesco. Il suo obiettivo primario, date queste ascendenze, non può che essere la riconquista dell'Europa alla cristianità, la ricostruzione di quelle radici spirituali  che sono state messe in discussione da tutto il processo di secolarizzazione che ha investito le nostre società. È una Chiesa all'attacco, perché sente  di avere perso terreno, avverte il pericolo di un tramonto della religiosità, e decide che la partita decisiva si deve condurre qui, nel nostro continente. In questo c'è, rispetto al pontificato di Wojtyla, una continuità e una svolta: la continuità di una Chiesa combattente, ma anche il passaggio da una visione universalistica ad una centrata sull'Occidente, da un pontificato comunicativo e profetico a un pontificato dottrinario.

L'universalismo, questa è forse l'implicita premessa strategica, ha il fiato corto se non funziona più un rapporto organico con la cultura europea, e la Chiesa non vuole rassegnarsi a rappresentare solo il mondo dei poveri e degli esclusi, ma vuole tornare ad essere la forza che guida l'intero sviluppo del mondo, e per questo deve avere le sue radici non solo nelle periferie, ma anche nelle grandi capitali dell'Occidente. È uno spostamento di orizzonte molto impegnativo e difficile, perché Europa vuol dire pensiero filosofico e scientifico, illuminismo, tecnologia, democrazia politica. Il tentativo ardito di Ratzinger è quello di riaprire il confronto con la razionalità occidentale, con la sua tradizione filosofica, e di dimostrare che tra razionalità e fede ci debba essere un'alleanza, perché la fede rafforza la ragione e la sottrae alla disfatta del nichilismo e del relativismo, e simmetricamente la religione deve reggersi su basi razionali e non sul fondamento effimero e soggettivistico del sentimento e del misticismo.

La Chiesa si presenta così con un duplice volto, dialogante e autoritario, razionale e dogmatico, perché duplice è l'obiettivo: aprirsi alla razionalità occidentale, e nello stesso tempo assoggettarla alla fede. Questa complicata e ambiziosa strategia, che punta a ricollocare la Chiesa al centro della vita collettiva, come forza unificante della società, ha delle precise implicazioni politiche. Così come il dialogo filosofico vuole realizzare nello stesso tempo alleanza e dominio, nello stesso modo si dispiega il rapporto con la politica: alleanza, riconoscimento dello Stato e della sua autonomia, pieno rispetto per le regole democratiche, ma a condizione che alla Chiesa venga affidata una superiore magistratura spirituale, in quanto depositaria di un comune patrimonio morale, l'unico che può scongiurare la dissoluzione della società moderna.
 
Ed è allora evidente come in questa strategia non ci sia più un autentico spazio per la laicità della politica, perché non ci sono due mondi, la città dell'uomo e la città di Dio, ma un unico mondo, nel quale ci sono solo articolazioni del potere, ma all'interno di un'unica visione  dell'uomo e del suo destino. Come avverte acutamente Nicola Colaianni (Democrazia e diritto, n. 2 2006), "la trasformazione sconta la messa tra parentesi della radicalità dell'annuncio evangelico, della sua alterità rispetto ai valori e alle tendenze dominanti in una società individualistica, nel tentativo di difendere lo spazio pubblico assegnato alla Chiesa cattolica come custode della tradizione civile italiana (ed europea)." Il problema della cristianizzazione dell'Occidente viene quindi affrontato secondo una particolare prospettiva, che privilegia gli aspetti politici rispetto a quelli più strettamente spirituali.

C'era un'altra via possibile? Si potrebbe forse pensare a una rinascita religiosa che nasce dal basso, dalla società, dalla soggettività delle persone, a una Chiesa che si costituisce come autorità morale, tenendo a distanza la politica e sfidandola sul terreno dei valori. C'è anche questo, parzialmente, nell'esperienza della Chiesa, perché essa si tiene sempre aperte tutte le vie possibili. Ma la scelta prevalente è quella di una cristianizzazione dall'alto, per via politica, operando come istituzione, come autorità, come potere che si incontra con gli atri poteri pubblici e li condiziona, secondo una logica di scambio, in un rapporto di reciproco sostegno e di reciproca legittimazione.
 
Non sta a me dire se sia la scelta giusta per la Chiesa. Posso solo osservare che essa dimostra una certa efficacia pratica, perché non mancano gli interlocutori nel campo della politica, e molti sembrano essere interessati a questa nuova alleanza di fede e potere.  Al movimento della Chiesa corrisponde un analogo movimento della politica occidentale, in America e in Europa, alla ricerca di un fondamento etico e valoriale a sostegno del nostro modello di civiltà e del suo diritto ad imporsi nel mondo come l'unico paradigma del progresso civile e democratico. L'esito di questa operazione è il rilancio di una politica di potenza.

Penso però che per questa via la crisi della religiosità non venga affatto risolta, perché nell'alleanza tra fede e potere è sempre il potere a prendere il sopravvento, e la religione viene solo usata strumentalmente come una copertura ideologica che consente  alla società secolarizzata di continuare ad essere quello che è, guidata da ragioni solo mondane, e religiosa solo alla superficie, nell'esibizione di una fede che non ha più nessuna sostanza.  Comunque sia, la Chiesa cattolica accentua  oggi la sua dimensione politica, la sua funzione pubblica, ed esercita quindi una forte pressione sulla vita delle istituzioni e sull'attività legislativa, per metterle il più possibile in sintonia con la sua dottrina e col suo magistero. Da questo punto di vista, è stata molto significativa la battaglia che si è combattuta in occasione della stesura della nuova Costituzione europea, perché la pressante richiesta di un riferimento alle "radici cristiane" aveva appunto questo valore, simbolico e politico insieme, di un riconoscimento del dominio spirituale dell'autorità religiosa sull'intera vita politica del nostro continente. Non si trattava di un riconoscimento storico, ma di un vincolo giuridico, di un indirizzo normativo, perché appunto questa è la funzione di un testo costituzionale.

È allora evidente, in presenza di questi processi e di queste tendenze, che sul terreno della laicità si è riaperto un conflitto, e dobbiamo decidere come intendiamo affrontarlo e risolverlo. Si aggiunge, nella politica italiana, quella che può essere una complicazione o una opportunità : il progetto del "partito democratico", come luogo di incontro tra il riformismo socialista e il solidarismo cristiano. Se si vuole fare un'operazione politica seria, che dia un effettivo e solido fondamento al nuovo partito, occorre tutto un lavoro preliminare di scavo e di approfondimento intorno ai nodi più controversi. E quello della laicità è uno scoglio teorico che va preso molto sul serio. Si rischierebbe altrimenti una continua oscillazione, una navigazione a vista fatta solo di accordi tattici e di precari compromessi.

Quando parliamo di laicità, di che cosa parliamo? Nella tradizione politica liberale essa ha significato essenzialmente la separazione dei poteri, l'autonomia reciproca del politico e del religioso. Ma oggi questo stesso principio di separazione è divenuto problematico, e non solo per effetto dell'invadenza ecclesiastica , ma perché la politica è sempre più interpellata da questioni di carattere etico che riguardano la sfera dei convincimenti morali e dei comportamenti individuali. Il campo delle decisioni politiche si è allargato, soprattutto perché i confini della scienza e della tecnologia si sono immensamente dilatati, e sorgono quindi nuove inedite questioni che si collocano all'incrocio tra morale e politica, tra sfera privata e sfera pubblica. Non basta più il tradizionale ricorso alla "libertà di coscienza", ma occorre un indirizzo, un criterio, per poter assumere decisioni coerenti.

Al tradizionale laicismo di stampo liberale i cattolici obiettano che non è possibile tenere la dimensione religiosa fuori dallo spazio pubblico, come se fosse solo un fatto privato, soggettivo, e non anche un modo di stare nella società, di intendere le relazioni tra le persone e la qualità dei legami sociali. Per rispondere a questa obiezione, in se stessa condivisibile, il principio di laicità tende ad essere concepito non più nel senso della separazione, ma come la costruzione di uno spazio pubblico comune, nel quale si confrontano le diverse posizioni e si elaborano di volta in volta delle soluzioni condivise, che rappresentino il fondamento etico unitario su cui si regge la convivenza sociale. Dalla separazione allo spazio comune, il cambiamento di rotta è del tutto evidente. Pietro Barcellona lo chiama "spazio di interrogazione", in quanto ciascuno deve essere disponibile ad essere interrogato dall'altro, dando luogo ad una ricerca aperta, senza dogmi, senza certezze preventive. E aggiunge :"la mia laicità corrisponde a sostare, il più a lungo possibile, nello spazio dell'interrogazione, rifiutando, il più a lungo possibile, la risposta che chiude." C'è però bisogno, a mio giudizio, di una precisazione: su alcuni temi, che riguardano il campo delle libere scelte individuali, la "risposta che chiude" deve essere sempre e per principio rifiutata.

Il punto essenziale è infatti se questo spazio viene concepito come uno spazio plurale, che tiene sempre aperta la possibilità di diverse scelte, di diverse visioni  della vita e del mondo. Qui riappare inevitabilmente il fantasma del relativismo, l'idea cioè di una politica che non impone verità e modelli di vita, ma accompagna le persone nel loro libero cammino individuale. La democrazia, come dice Kelsen, "è l'espressione di un relativismo politico". Chi non riesce a sopportare questa condizione di relatività e di incertezza sarà sempre portato ad invocare poteri autoritari. Ma la stessa democrazia, in quanto decisione della maggioranza, si deve trattenere entro determinati confini, perché i diritti individuali non sono nelle disponibilità della politica. In questo senso c'è ancora una separazione da rispettare, non tanto tra Stato e Chiesa, quanto piuttosto tra ciò che deve essere regolato dalla politica e ciò che deve essere lasciato, senza interferenze, alla libera decisione individuale.

Occorre naturalmente rintracciare un criterio, un metodo di valutazione, per non restare del tutto sotto il dominio del relativo. E questo criterio non dobbiamo cercarlo molto lontano, perché sta scritto nei nostri principi costituzionali, e in particolare nell'idea che c'è un primato della persona rispetto all'ordinamento giuridico. "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo." Li riconosce, non li fonda, non li istituisce, essi quindi preesistono, vengono prima del diritto, prima dello Stato. È la dignità della persona, la "pari dignità sociale" di cui parla l'art. 3, che ci può fare da guida in tutte le attuali discussioni sui temi eticamente sensibili. Questo primato della persona è entrato nella nostra Costituzione per l'impulso che è venuto principalmente dal pensiero politico dei cattolici, che ha sempre pensato la società civile come una realtà che precede lo Stato e che lo Stato deve riconoscere nella sua autonomia e nei suoi valori costitutivi, senza mai invadere il campo della libertà originaria della persona e delle formazioni sociali. In questo discorso rientra tutto il tema della famiglia, in quanto "società naturale", che ha in se stessa il suo fondamento, e che lo Stato riconosce e valorizza. Credo che qui, in questi principi, in questa concezione del rapporto tra società e politica, stia il presupposto essenziale di una politica "laica", laica in quanto non invasiva, non lesiva dell'autonomia della persona .

Ma è proprio su questo punto che nella posizione politica dei cattolici c'è una sorta di rovesciamento, perchè essi sembrano oggi pretendere una totale giuridicizzazione della vita , per cui tutto deve essere regolato dalla legge, attraverso un sistema rigido di prescrizioni e di divieti. Al primato della persona subentra il primato della legge. Nel classico conflitto che oppone le ragioni di Antigone a quelle di Creonte, è Creonte a riprendere il sopravvento, perché non si riconosce uno spazio di autonomia alla coscienza individuale. Ma questo contrasto è solo il risultato di una torsione fondamentalista che si è introdotta nella cultura cattolica, e di un appannamento dell'idea costituzionale di una società aperta, fondata sulla libertà e sui diritti.
 
Ciò che occorre oggi è solo il rispetto dei principi costituzionali, del patto unitario che ha fondato la nostra democrazia. In particolare, è essenziale il riconoscimento della dignità della persona umana, il quale sta anche alla base della "Carta dei diritti fondamentali" dell'Unione europea. C'è dignità se c'è autonomia, e se ci sono relazioni tra le persone che non siano dispotiche e oppressive. È soprattutto nelle situazioni di dipendenza e di fragilità sociale (carcere, immigrazione, malattia, tossicodipendenza, lavori servili o precari ) che la dignità è messa a rischio, perché la persona si trova ad essere schiacciata dentro un meccanismo repressivo e non ha più la possibilità di progettare autonomamente il proprio futuro. La dignità passa attraverso un processo di umanizzazione di questi rapporti. E spesso abbiamo visto i cattolici in prima fila in queste battaglie.

Il compito della politica è riconoscere e proteggere questa dignità nelle diverse manifestazioni della vita umana, nei diversi contesti sociali, nella varietà delle forme che la vita può assumere, tutelando l'autonomia originaria della persona e della società civile. Ciò impedisce di imporre dall'alto, con l'autorità della legge, un modello, un sistema di valori, una morale di Stato, perché il campo della morale è il campo in cui si forma la libera coscienza della persona. In questa prospettiva,credo che i diversi problemi aperti possano trovare una soluzione condivisa. E là dove permangono diverse concezioni morali, come è sempre più naturale che avvenga in una società multietnica e multiculturale, lo "spazio di interrogazione" potrà dar  luogo ad una dialettica culturale, al confronto e alla battaglia delle idee, ma non ad una definizione legale che imponga a tutti l'accettazione forzosa di una posizione parziale. Nel caso delle diverse forme di convivenza e di vita affettiva , le quali preesistono allo Stato e rispecchiano il pluralismo della società civile, dovrebbe essere chiaro, sulla base di queste premesse, che a nessuno può essere negata la dignità di una piena cittadinanza.

La comunità politica è una comunità allargata, inclusiva, e al suo interno agiranno poi diverse comunità di fede, con le loro specifiche leggi. Anche questo è del tutto chiaro nel testo costituzionale, per il quale tutti i cittadini "sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza , di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali." La Costituzione agisce come una potente forza unificante e universalizzante, che tende a non escludere nessuno e a rimuovere tutti i fattori di disegualianza. La stessa istituzione del carcere si giustifica solo, in via di principio, come uno strumento provvisorio in vista di una futura reintegrazione sociale. Ed è difficile non vedere, in questa idea di una politica accogliente e ospitale, l'influsso storico del cristianesimo, che ha rivolto a tutti, senza distinzioni, il suo messaggio di salvezza, un messaggio che rovescia  le gerarchie sociali consolidate e si pone dal punto di vista degli ultimi, degli esclusi.

Un ultimo tema da considerare, oggi al centro di una fortissima contrapposizione ideologica, è quello della vita e della morte. Anche in questo caso, il concetto di dignità può venirci in soccorso, perché questo difficile passaggio dalla vita alla morte deve essere elaborato e interpretato da ciascuno di noi con le sue forze, con la sua cultura, con i suoi principi  morali, senza ingabbiarlo in una casistica giuridica e tecnologica che fa della nostra morte qualcosa che non ci appartiene più, non il momento dell'estrema presa di coscienza, ma il momento dell'alienazione, dell'offuscamento di sè, perché tutte le decisioni passano ad altri.
 
Oggi quasi tutti dicono: c'è un vuoto legislativo. Spero che questo vuoto non venga colmato, che non si compia il delitto di mettere questo evento nelle mani dei politici e dei giuristi, i quali già hanno un grande potere  sulla nostra vita , ed è bene che almeno rispetto alla morte si tengano a rispettosa distanza. Basta ciò che è stabilito nella Costituzione: che "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario", e che "la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana." Il problema non è legale, ma è piuttosto morale e filosofico. La grande novità del nostro tempo è l'interposizione della tecnica, sia nella fase della nascita, che può essere in vari modi aiutata o interrotta, sia nella fase terminale della vita, che può essere prolungata artificialmente anche quando la vita si riduce ad essere uno stato vegetativo. La tecnica deve servire l'uomo, non viceversa. La tecnica è utile se produce una migliore qualità umana, ma non può essere il nuovo dio che scandisce i tempi della nostra vita.

Da questo punto di vista, mi sorprendono alcune posizioni della Chiesa cattolica, perché  esse configurano  un attaccamento estremo alla vita biologica, anche nelle sue forme di sopravvivenza artificiale e tecnologica, e questa sacralizzazione del bios mi sembra essere più pagana che cristiana. Nell'insegnamento di Gesù non c' è l'attaccamento, ma il distacco: "chi ama la propria vita la perde" (Vangelo di Giovanni). Ed è lo stesso insegnamento che troviamo, in una prospettiva filosofica non di trascendenza ma di immanenza, nel pensiero classico cinese: "chi si sbarazza della vita non muore, chi cerca di vivere non vive". (Chuang  Tzu). Ciò significa, nei due diversi contesti culturali, che c'è vita se c'è apertura, disponibilità al cambiamento, anche al cambiamento estremo della morte, se si sa vivere secondo il flusso naturale delle cose, senza mai fissarsi in un punto, senza accanirsi in una illusoria volontà di autoconservazione.
 
Ecco il punto: la fissazione sulla vita, l'accanimento nella sua difesa, si ritorce contro la vita stessa, perché non sappiamo più pensare la vita nel suo rapporto con la morte, e la morte diviene un incubo che ci impedisce di vivere. Se pensiamo così la vita, come un movimento che ci porta sempre oltre, oltre l'immediatezza biologica e oltre la pretesa egocentrica di piegare il mondo al nostro destino individuale, allora possiamo trovare le risorse anche per affrontare il momento estremo in cui la vita finisce.

Le soluzioni concrete vengono da sè, perché saranno dettate dalla saggezza e dall'umanità, non dalla legge. È su questo terreno che può utilmente svilupparsi un confronto con il pensiero cattolico, riproponendo quel primato della persona che è un punto di forza della nostra comune civiltà giuridica, e cercando di impostare  una "politica per la vita", in cui la vita si configuri come un atto di responsabilità, senza essere ingabbiata nei lacci di una regolazione giuridica invasiva che si sostituisce alla nostra coscienza.
Giovedì, 18. Gennaio 2007
 

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