Unità sindacale e concertazione sociale

Mezzo secolo di storia tra scissioni e tentativi unitari

C’è un filo rosso che percorre mezzo secolo della nostra storia sindacale. E’ la consapevolezza mai dissimulata e anzi sempre esibita dai suoi maggiori protagonisti che – come di usava dire quando la grande industria dominava il sistema economico-produttivo – l’autonomia e il potere sindacale cominciano nella fabbrica, ma non finiscono dentro i cancelli della fabbrica.
L’enunciazione più schietta e meno ideologizzata che essa abbia avuto è rinvenibile nelle parole pronunciate parecchio tempo fa da uno dei più prestigiosi leaders della CGIL. Ciò che si propone il sindacato, diceva Luciano Lama, è “far alzare gli occhi dei lavoratori al di sopra del banco di lavoro per guardare l’ambiente che li circonda e convincerli a trasformarlo”. La mission non sarà disperata. Ma può diventarlo e lo diventa senz’altro se il movimento sindacale marcia diviso e tarda a rendersi conto che l’autotutela di diritto privato è indispensabile per realizzare conquiste sociali, ma da sola non basta a difenderle e consolidarle: l’intervento dei pubblici poteri è necessario.
Per questo, l’unità sindacale è una risorsa preziosa e la prassi della concertazione sociale, di cui dirò più avanti, favorisce un intreccio virtuoso tra contrattazione collettiva e legge.

Oggi, il movimento sindacale è lacerato. Ma all’inizio non era così. Il patto che, dopo il collasso del regime fascista e tra le macerie di un paese distrutto dalla guerra, sancì la rinascita del sindacato libero reca la firma di tre uomini ormai passati alla storia: Buozzi, Grandi e Di Vittorio: socialista il primo, democratico-cristiano il secondo, comunista il terzo.

Purtroppo, la CGIL unitaria del 1944 ebbe vita breve. Si sgretolò con la dissoluzione dei governi di unità nazionale del dopo-Liberazione. D’altra parte, era da escludere che – in un paese come l’Italia dove c’era il più forte partito comunista dell’Occidente – l’organizzazione sindacale non risentisse del fatto che comunismo e anticomunismo, diventati nel frattempo le fedi della guerra fredda, avevano spaccato in due il mondo intero. Perciò, la scissione sindacale del 1948 chiuse l’esperienza unitaria in una maniera che non sarà stata inattesa, ma traumatica sì; al punto che ci vorranno quasi vent’anni per svelenire il clima.

Dalla scissione nacquero due confederazioni: la CISL, collaterale alla DC che deteneva la maggioranza relativa nel Parlamento, e la UIL, vicina sia al partito socialdemocratico che repubblicano e dunque di ispirazione laica. In conseguenza, quel che restava della confederazione delle origini rinsaldava i legami coi partiti della sinistra (come si usava dire allora) marxista.
Insomma, la divisione sindacale rispecchiava, e anzi ne era la risultante tutt’altro che accidentale, la segmentazione di un sistema politico che si articolava nei partiti di centro, che governavano il paese, e nei partiti di opposizione. Anche l’antenato dell’attuale AN, il MSI, aveva un suo sindacato; che però era irrilevante: trascurabile la sua presenza organizzata e indigeribile la prospettiva politica che sapeva offrire.

Malgrado i turbinosi sviluppi del dopoguerra, nell’angolo di cielo che i sindacalisti sono soliti scrutare l’unità sindacale continuò a brillare come una specie di stella polare. L’unità sindacale cioè restò un sogno accarezzato dai (pochi) dirigenti persuasi che prima o poi esso si sarebbe realizzato, anche perché l’unità sindacale non aveva mai cessato di corrispondere alle aspettative popolari.

Il sogno non era né infantile né delirante. Esso era alimentato dall’affermarsi e diffondersi di una prassi contrattuale caratterizzata dall’unità d’azione delle tre organizzazioni sindacali. A tutti i livelli, e in particolare a quello aziendale. Non a caso, le centrali sindacali maturano tardivamente la scelta comune di un comportamento unitario come agenti contrattuali anche perché tardivo è da noi il decollo della contrattazione decentrata nei luoghi di lavoro. E’ da qui, ad ogni modo, che giungono le spinte più robuste al processo unitario: dalla pratica dell’azione contrattuale nell’ambito delle imprese; e ciò per la risolutiva ragione che le maestranze si riconoscono nelle rivendicazioni a sostegno delle quali si mobilitano, scoprendo così – con la caduta delle pregiudiziali legate all’affiliazione politica – l’esistenza di un interesse indivisibile e la necessità di gestirlo insieme.
Come dire che il veicolo dell’unità sindacale non aveva le ruote quadrate; piuttosto, aveva le gomme sgonfie.

Difatti, sospinto dal vento dell’autunno caldo del 1969 e col pieno di carburante che gli aveva permesso di fare una legge promozionale come lo Statuto dei lavoratori del 1970, il veicolo si rimise in moto: con velocità diseguale, ma autonomamente ossia senza l’impulso né il placet preventivo dei partiti politici, come era accaduto in origine.

Così, il sogno cominciò ad assumere forma e contenuti di un progetto di riunificazione che pareva destinato ad evolvere verso un esito positivo. L’ascesa dell’unità sindacale, però, si bloccò proprio quando il traguardo pareva prossimo. Alle resistenze ideologiche, annidate in alcune federazioni della CISL e in una parte consistente della UIL, si sommò la paura del cambiamento manifestata da burocrazie sindacali che stavano imparando ad apprezzare i vantaggi di una dignitosa routine professionale. D’altronde, nemmeno la CGIL era intenzionata ad appoggiare gratis un progetto che le avrebbe tolto la condizione privilegiata di centrale sindacale maggioritaria. L’ostilità al progetto, però, proveniva anche – e forse soprattutto – da partiti ciascuno dei quali, prendendo terribilmente sul serio la qualità di nuovo principe senza scettro che gli attribuiva la Costituzione del 1948, si era abituato a trattare il sindacato come un fido scudiero o giù di lì. A dire la verità, il PCI non ostacola il progetto più di quanto non gli convenga; un po’ perché attraversa una crisi organizzativa nei luoghi di lavoro e un po’ perché, interessato per tradizione ad ogni formula politica capace di aggregare alleanze tra componenti sociali la cui eterogeneità possa ostacolarne la deriva anticomunista, ha la granitica certezza di influenzarle con la propria egemonia.

Proprio per questo, però, il partito più allarmato dal convertirsi del sogno in un progetto era la DC. Infatti, se CISL e UIL faticavano a liberarsi dal complesso della “grande CGIL”, la DC temeva quella specie di istanza onnivora che ci stava dietro. “Riteniamo veramente che vi sia la possibilità per il PCI di rinunciare ad un collegamento strategico col sindacato?”, si domandava e domandava il segretario generale di quel partito nella prima metà degli anni ’70, con una intonazione falsamente retorica che esprimeva in maniera eloquente la motivazione del rifiuto di concedere l’OK al ripristino dell’unità sindacale organica.
Come dire che è più semplice demolire l’unità sindacale che rifarla.

Tuttavia, nessuno ne recitò il requiem. Tutti si accontentarono di un suo simulacro che, per quanto pallido, autorizzava a sperare nel lieto fine di quella che con un po’ di ottimismo poteva apparire una storia d’amore contrastata. Non è certo questa l’occasione adatta per soffermarsi sulle vicende di un trentennio.

Un episodio va però ricordato, perché segnò la prima e più grave rottura dell’unità di azione sindacale. E’ lo scontro sul referendum voluto dal PCI di Berlinguer per abrogare un provvedimento legislativo adottato dal governo Craxi col consenso esplicito di CISL e UIL per modificare l’automatismo che permetteva a cadenza trimestrale l’adeguamento dei salari alle variazioni del costo della vita.

E’ opportuno richiamarlo, questo episodio risalente agli anni ’80 inoltrati, non solo o non tanto per informare che la CGIL si astenne dall’associarsi ufficialmente ai promotori di un referendum che la maggioranza degli elettori avrebbe bocciato, ma anche per mettere in evidenza che nemmeno le roventi polemiche della campagna referendaria affossarono la volontà unitaria. Essa rispuntò più in fretta di quanto non fosse lecito aspettarsi e finì per prevalere, in un quadro politico mutato, aprendo la strada a significative intese tra le quali spicca il patto tra governo, sindacati dei lavoratori e degli imprenditori del 23 luglio 1993.
Come dire che, per quanto profondo, lo strappo era stato interpretato dai sindacati come potevano soltanto dei carissimi nemici nessuno dei quali desidera realmente l’estinzione degli altri.

Oggi, sappiamo che, con l’accordo del ‘93, la parabola della concertazione sociale aveva toccato il punto più alto. Esso infatti realizzò le condizioni che hanno permesso all’Italia di sconfiggere l’inflazione, risanare i conti pubblici, praticare con un’efficacia priva di precedenti una politica dei redditi da lavoro dipendente e, infine, di entrare nell’unione monetaria europea. Il successo fu poco meno che strepitoso. Per questo, nel dicembre del 1998 governo e sindacati decisero di concertare la concertazione. Disegnarono cioè il complesso delle procedure atte ad estrarla dall’informalità e conferirle così, accanto alla dignità istituzionale, stabilità e sistematicità.

Può darsi che l’enfasi ritualistica sia stata eccessiva nella misura in cui il maxi-accordo del ’98 prefigurava una cooptazione del sindacato negli apparati del potere pubblico e nei relativi processi decisionali che minacciava, se non di farne un ostaggio, di indebolirne le radici con un mondo del lavoro in fibrillazione. Nondimeno, è d’obbligo descrivere, sia pure sommariamente, l’esperienza politico-sindacale di cui la concertazione è la massima espressione. Premesso che non è un prodotto casalingo – casomai, è un prodotto made in Europa – nel lessico degli esperti di diritto costituzionale la concertazione è un metodo di formazione della volontà politica dei decisori pubblici, complementare rispetto ai procedimenti formali regolati dalla costituzione scritta.

Un metodo che si situa a metà strada tra contrattazione collettiva in senso proprio e partecipazione di soggetti privati all’esercizio di una funzione pubblica. Il sindacato lo pratica perché sa di appartenere alla categoria dei gruppi privati a cui non sfugge l’inadeguatezza dei mezzi a loro disposizione per gestire interessi dei rappresentati che non sono soltanto privati; e il potere pubblico lo pratica perché sa di non poter sostituire interamente il sindacato nel ruolo di regolazione.

Dal canto loro, gli studiosi di sociologia della politica amano sottolineare che la concertazione esprime più propensione alla cooperazione che al conflitto; una propensione che si manifesta col radicarsi della persuasione che il conflitto è uno strumento di decrescente utilità. Vero è che lo sciopero di pressione sul potere pubblico, quando sia assistito (come in Italia) dalla garanzia costituzionale al pari dello sciopero economico, può provocare persino la caduta di un governo e, come disse una volta Luciano Lama, “i governi passano, il sindacato resta”.

Però, il sindacato resta anche per prendere atto che può risultare più facile cambiare un governo che cambiare l’indirizzo fondamentale dell’azione del potere pubblico. Come se vertenze sindacati-governo e colpi a vuoto di due avversari che giocano su campi separati fossero la stessa cosa. Il che è disastroso per un sindacato che, scelta la politica delle riforme come pensiero che presiede all’azione, intuisce lucidamente che essa sta all’unità sindacale come la forza di trazione sta al veicolo.

Quello uscito vincente dall’autunno caldo è infatti un sindacato che utilizza gli strumenti legali predisposti dallo Statuto dei lavoratori per far uscire la contestazione dalle fabbriche e, impadronitosi della cabina di regia, ne mantiene il controllo per proiettarla sulle riforme di struttura: casa, sanità, scuola. Per questo, le vicende sindacali degli anni ’70 hanno un valore pedagogico di massa indiscutibile: le conquiste ottenute con la lotta sindacale reggono se contemporaneamente si modificano i rapporti di potere nella società, ma questi non si modificano se l’azione sindacale non si sposta sul piano politico.

Per quanto pragmatica, la strategia sindacale che si delinea nel dopo-Statuto permette di rivisitare criticamente il passato e di ricavarne importanti lezioni. La prima è che i tempi in cui la CGIL pensava che un risultato elettorale premiante per l’opposizione fosse più desiderabile di un vittorioso round contrattuale sono ormai alle spalle. E ciò perché il solo modo per testimoniare la vitalità del sindacato è la sua capacità di promuovere e negoziare rivendicazioni che costituiscano una sfida per l’ordine costituito. Come dire che la CGIL ha smesso di confondere il primato della politica col primato del partito assunto come proprio referente.

La seconda è che sono lontani anche i tempi in cui la CISL si contrapponeva alla CGIL in ragione di una differente concezione del movimento sindacale. Secondo una vulgata storiografica che si fida più dei luoghi comuni che dei fatti, la CGIL agisce come sindacato generale che si considera al servizio della classe – destinata a diventare un’entità totalizzante, secondo l’ideologia universalistica a cui si richiama – mentre la CISL si comporta come un’associazione privata con un orizzonte rivendicativo che privilegia gli interessi immediati degli associati. Viceversa, non può collimare con la logica associativa di un gruppo chiuso il comportamento di un sindacato che bussa alla porta degli attici del potere politico per esservi ricevuto allo scopo di incidere sui processi di costruzione delle politiche pubbliche aventi riflessi sulla vita di milioni di persone.

Eppure, è stato proprio il più autorevole dirigente di un sindacato che, come la CISL, aveva sempre predicato con calore l’abstention of the law a proporre – all’epèoca della Bicamerale presieduta da D’Alema – di modificare la costituzione scritta per assegnare un adeguato rilievo alla concertazione, trasformandola in una procedura vincolante di partecipazione delle grandi rappresentanze degli interessi organizzati alla elaborazione di politiche pubbliche. Come dire che, col trascorrere dei decenni, la contrapposizione ideologico- culturale si è rivelata meno inconciliabile e più strumentale di quanto non si volesse far apparire nell’epoca in cui essa veniva teorizzata per definire con nettezza l’identità della CISL.

Fatto sta che – entrata la concertazione nell’età matura, ossia durante i governi di centro-sinistra guidati da Prodi e D’Alema – il progetto della riunificazione ritornerà con prepotenza nell’agenda politico-sindacale ad iniziativa soprattutto della CISL. Il segretario generale pro tempore di quest’ultima dichiarò persino che la sua organizzazione era pronta all’autoscioglimento qualora CGIL e UIL avessero dato il via libera all’unità sindacale organica. E’ probabile che si trattasse di un bluff: nessuno degli interlocutori, però, “andò” (come si dice col gergo dei giocatori di poker) “a vedere le carte”.

Naturalmente, sarebbe sciocco ipotizzare che, pur essendo servita alle centrali sindacali per misurare con maggiore obiettività ciò che le univa e ciò che ancora le divideva realmente, la concertazione sia nata e cresciuta per questo. Si trattava di nient’altro che di una conseguenza preterintenzionale, perché la ragion d’essere e la finalità della concertazione sociale vanno ricercate nello stato di salute della democrazia. Anch’io insomma ritengo che la concertazione sia il sintomo del malessere che colpisce tutte le democrazie rappresentative contemporanee dove quote crescenti di elettorato disertano le consultazioni elettorali. Dove alle elezioni si guarda come all’occasione in cui il popolo elegge il suo monarca, scegliendo la persona che, con l’amplificazione dei mezzi di comunicazione di massa, ha il carisma del leader. Dove la funzione originaria delle elezioni, quella di dare una stabile rappresentanza ai cittadini, è diventata (se non marginale, certamente) secondaria.

Al tempo stesso, però, la concertazione è una medicina, perché disegna un circuito capace di innestare processi di partecipazione sulla tradizione della democrazia rappresentativa ad integrazione del funzionamento delle assemblee elettive.

Disgraziatamente, un intero ciclo storico durato (sia pure a ritmo di stop and go) oltre vent’anni non è stato sufficiente per stabilire con precisione se la concertazione fosse la terapia appropriata. Anzi, sono in molti a ritenere che, come succede non di rado, anche questa medicina abbia prodotto effetti collaterali indesiderati, perché ha contribuito a far emergere disfunzioni che contraddicono l’esigenza di una efficiente governabilità. Essi reputano che, essendo troppo lunghe e spesso inconcludenti le procedure, doveva succedere che l’opinione pubblica si orientasse a favore di una forma di governo più definita quanto a poteri e responsabilità dei governanti. Come dire che si dovrebbe anche ad un eccesso di concertazione se gli italiani hanno spazzato via con ripetuti referendum la legge elettorale d’impianto proporzionale che sagomava da cinquant’anni la rappresentanza politico-parlamentare e, fiduciosi che al di sotto dei dissensi esistesse il collante di un nucleo di valori condivisi, si sono orientati verso il modello della democrazia dell’alternanza.

Secondo qualche osservatore, la stessa vittoria elettorale del centro-destra nel 2001 sarebbe espressione di un giudizio negativo sulla concertazione, dal momento che la campagna elettorale del centro-sinistra sconfitto fu in larga misura basata sui risultati ottenuti tramite la concertazione e dunque era difficile separare nel giudizio sul governo di centro-sinistra il giudizio sulle organizzazioni sindacali. La congettura però deve fare i conti col dato emerso da una ricerca condotta pochi anni fa per conto del CNEL. L’Eurisko infatti ha rilevato che il 70% degli italiani interpellati valuta positivamente che il governo consulti i sindacati prima di prendere decisioni con ricadute sulla vita dei cittadini.

Probabilmente, l’interpretazione più persuasiva dell’apparente contraddizione è quella che si riallaccia al risultato meno controvertibile di vent’anni e passa di concertazione. In larga maggioranza, cioè, gli italiani non simpatizzeranno col culto della concertazione, sta bene; tuttavia sanno che vent’anni e passa di negoziati trilaterali sono serviti a favorire una evoluzione normativa il cui gradualismo permette di affermare che, se non è ancora quel che sarà, il diritto del lavoro non è più quel che era, riducendo però al minimo la turbolenza sociale e la conflittualità nei luoghi di lavoro. Non è poco. Ma è tutto.

Adesso, comunque, anche il saldo attivo dell’esperienza rischia di deperire. Nel 2001, infatti, è subentrato un governo che, eletto con una legge elettorale di impianto maggioritario, agisce con un’auto-percezione della propria diversità antropologico-culturale tanto accentuata da rifiutare tutte le regole e prassi preesistenti. A cominciare proprio dalla concertazione.

Questo governo ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di dispensare una legittimazione istituzionale interpretabile come una rinuncia sia pure parziale al proprio ruolo di comando – tutt’al più, è disposto a distribuire premi e favori in cambio di un atteggiamento (non necessariamente sottomesso, ma) ispirato a criteri di ragionevolezza duttili e flessibili al limite dell’opportunismo. E ciò perché, convinto di avere fatto il pieno di legittimazione sociale il giorno in cui ha vinto le elezioni, non ha bisogno di additivi. Li ritiene superflui. Come dire che si è assistito al deprezzamento della merce che il sindacato scambiava coi governi.

Ricevendo un sostanzioso corrispettivo in termini di legittimazione istituzionale, il sindacato dava ai governi legittimazione sociale. Adesso, questa merce non ha più mercato.
In conseguenza, si potrebbe persino sostenere che c’è più simmetria con l’opzione governativa nell’atteggiamento di intransigente chiusura della CGIL di Sergio Cofferati che nella continuata disponibilità al confronto di CISL e UIL.

Nelle condizioni descritte, il tentativo di arrivare ad accordi col governo riproduce una caricatura della concertazione. Del resto, la vicenda del Patto per l’Italia – siglato senza la CGIL – si è snodata con movenze, cadenze e toni per cui è dato desumere che il governo fosse interessato più alla divisione del fronte sindacale, dilatabile dai mass-media come merita uno scoop sensazionalistico, che ad incassare un valore aggiunto in termini di consenso nel paese reale; un consenso che, in ogni caso, non poteva non essere tiepido a causa della modestia dei risultati.

Adesso, dunque, il sintomo del male oscuro delle odierne democrazie è sparito per decisione del governo in carica. Con la razionalità di chi prende a calci il televisore perché trasmette brutte notizie. La malattia troverà perciò altri modi per manifestarsi, magari più dirompenti, che continueranno a segnalarne l’inarrestabile progressione originata dall’incapacità delle élite dirigenti di dare al grandioso processo del Novecento che è culminato nella creazione dello Stato-pluriclasse uno sbocco più funzionale e funzionante di quello di cui si sono stati autori, prima, e garanti poi i partiti politici.

Dopotutto, la tendenza espansiva della concertazione si è sviluppata di pari passo con la crisi dei partiti sponsorizzati dalle Costituzioni post-liberali del Vecchio Continente. Una crisi che fa nascere una domanda di supplenza di cui il sindacato si è fatto carico. Come ha potuto e come ha saputo.

Peraltro, nemmeno i più acerbi critici della concertazione hanno sufficienti motivi per compiacersi che sia scomparsa nella misura in cui ciò non ha ridato né smalto né fiato al Parlamento, perlomeno a giudizio di chi ha imparato a distinguere la centralità dei Parlamenti dal dominio assoluto di maggioranze compattamente protese ad attuare il proprio programma elettorale a qualunque costo e dunque indipendentemente dal grado di convergenza che la coscienza collettiva possa aver raggiunto in ordine all’opportunità di interventi autoritativi. Anzi, il regime dell’alternanza può provocare, come in effetti è accaduto, la sostituzione della tirannia della maggioranza parlamentare alla legge del dialogo che è la sola compatibile col metodo democratico.
Tirannia è una parola grossa. Sta di fatto però che il diritto moderno non è riducibile alla semplice registrazione di un esito elettorale né la ritrascrizione formale di un rapporto di forze materiali.

Paradigmatica è la volontà del centro-destra di imporre al diritto del lavoro di “modernizzarsi” al di fuori degli schemi di autodeterminazione che hanno conformato la costituzione materiale per attuare una costituzione formale ricca di promesse di emancipazione sociale.

Agire così significa postulare che la giustificazione della norma giuridica si esaurisca nella legalità della sua formulazione. Significa cioè non rendersi conto che l’ottocentesca cultura positivistico-legalistica è stata messa in crisi dalla pluralizzazione delle fonti regolative attivate dalla società civile. Significa avere dimenticato che il primo settore dell’ordinamento ove si è potuto toccare con mano che il diritto non si legittima per il solo fatto di essere posto da determinati organi e con certe procedure è stato proprio quello concernente il tipo di lavoro egemone del ‘900.

Oggi, dicevo in apertura, il movimento sindacale è lacerato.
I dissensi tra i sindacati “storici” che si sono moltiplicati e intensificati in epoca successiva al menzionato Patto per l’Italia ne documentano gli effetti devastanti.
Ciononostante, l’unità sindacale non è svanita come i sogni all’alba. Ha lasciato dietro di sé tracce visibili. E ciò perché, prima di eclissarsi, ha partorito dei figli a cui ha affidato il compito di stabilire un canale unificante di comunicazione diretta con la base. Un compito a cui la vocazione unitaria iscritta nel codice genetico degli organismi dei quali fanno parte vieta di sottrarsi, anche se nel frattempo sono rimasti orfani.

Sono le migliaia di delegati liberamente eletti dal personale nei luoghi di lavoro per istituire rappresentanze sindacali unitarie (RSU), in attuazione di un accordo concluso tra tutte le centrali sindacali e i loro partner sia nel settore privato che nel settore pubblico sulla scia del maxi-accordo del luglio del ‘93.

Proprio perché sono numerosi e soprattutto ingombranti, non ha tardato a circolare la voce che bisognerebbe sopprimerli, aumentando così le probabilità che la rottura dell’unità d’azione sindacale divenga irreversibile.

Il calcolo non è sbagliato. Chi ha sparso la voce sa perfettamente che l’insieme delle RSU operanti un po’ dovunque costituisce il capitale sociale di cui possono disporre gli uomini (e le donne) di buona volontà che intendono continuare ad investire sull’unità sindacale, perché la giudicano una risorsa di cui sarebbe suicida privarsi se si vogliono soddisfare le esigenze della democrazia politica e della solidarietà in un paese che ne ha tanto bisogno.

Venerdì, 21. Marzo 2003
 

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