Un'Europa forte è ancora possibile

Le recenti scelte su presidente e ministro degli Esteri sembrano far prevalere una concezione dell'Unione debole e basata sui nazionalismi, ma l'asse franco-tedesco, risultato determinante, potrebbe riprendere la guida di una più stretta integrazione

E' recente la nomina del presidente e del ministro degli Esteri della Ue, rispettivamente il belga De Rumpuy e la britannica Lady Ashton. Frustrate le aspettative di D'Alema, come prevedibile, anche per l'unanime cordiale disistima da cui è circondato il nostro governo. Questa scelta non potrà non influenzare le visioni strategiche sui programmi politici, economici e sociali dell'Unione.

 

In estrema sintesi, le alternative possono ridursi a due. La prima - quella a cui i sinceri europeisti, come me, sono più strettamente legati - è identificabile in una riedizione, radicalmente aggiornata, del cosiddetto Piano Delors. Essa coincide con una visione strategica di un'Europa politicamente forte e coesa, che si accinga a dotarsi in tempi relativamente brevi di una consistente "force de frappe" (gli esperimenti sinora tentati hanno riguardato un numero di effettivi di poco superiori a quelli dell'esercito della Repubblica di San Marino), una polizia federale, una politica economica coordinata, una politica industriale tesa a "fare squadra" di fronte ai colossi economici mondiali, una politica finanziaria non (ripeto NON) neutrale, che sostenga sia la politica economica che un'altrettanto adeguata politica sociale.

 

Eventi di vastissima portata incombono nell'area del Pacifico e dell'Oceano Indiano. La cooperazione economica fra Cina e India sta raggiungendo, in tempi inaspettatamente brevi, livelli molto ampi. La Via della Seta diventerà entro il 2013 un grande corridoio asiatico che collegherà con ferrovie ad alta velocità e autostrade Pechino a Mosca e, con il suo braccio meridionale, che si distacca attraverso un passo dell'Himalaya, a Calcutta. Di fronte a questo mutato panorama mondiale, il Piano Delors, riveduto e reso più attuale, conserva e rafforza la sua validità, nei suoi punti essenziali, coniugati nell'ambito di una più vasta prospettiva.

 

Delors insisteva in primo luogo sulla flessibilità della manodopera, ma temporanea e accompagnata da formazione continua, per favorire la mobilità interprofessionale anche all'interno della stessa azienda. A quell'epoca (1992) Ichino e Tremonti muovevano, scientificamente parlando, i primi passi.

 

Un secondo punto, a mio parere decisivo, consisteva nell'orientare l'innovazione verso nuovi prodotti, per evitare la riduzione occupazionale connessa con l'innovazione di processo. Ciò implicava una forte dose di ricerca ed anche di creatività. Si prevedeva altresì una notevole fiscalizzazione degli oneri sociali, per ridurne l'impatto e favorire così l'assorbimento del lavoro meno qualificato, nonchè la creazione di "bacini d'impiego a carattere sociale" (servizi ad anziani e disabili, prevenzione, sanità, cultura, etc.).

 

Le condizioni necessarie ma non sufficienti per realizzare un nuovo Piano Delors sono la ripresa alla grande della programmazione comunitaria, riorientando i fondi strutturali, quelli sociali e quelli destinati alla ricerca. I centri di ricerca tecnologica dell'Unione non debbono solo essere messi in rete (come, in sostanza, accade), ma le direttrici di ricerca di base e applicata dovrebbero essere pianificate e collegate alla politica industriale unitaria di cui si è detto. A livello nazionale, l'esempio è quello dei progetti finalizzati del CNR. La programmazione economica europea, per non divenire un esercizio intellettuale abbellito da eleganti algoritmi previsionali, dovrà essere sostenuta da una precisa e costante volontà politica e da una politica finanziaria adeguata.

 

Ecco perché, in quest'ottica, si dovranno, forse, affrontare due importanti problemi, le cui soluzioni potrebbero generare conflittualità intereuropee. Innanzi tutto, potrebbe essere necessario sperimentare per alcune scelte cruciali le potenzialità della cosiddetta "Europa a due velocità", indirettamente favorita dai nuovi meccanismi di voto previsti dal Trattato di Lisbona. Ciò significa che un gruppo di paesi anticipa scelte che altri ancora non sembrano pronti a condividere. Possiamo facilmente immaginare quali potrebbero essere i paesi del primo gruppo: quelli dell'area franco-tedesca, estesa a parte della Mitteleuropa e, mi auguro, all'Italia, come testa di ponte mediterranea. Si realizzerebbe così il sogno di Prodi. A questo proposito, è interessante ricordare la recente autorizzazione comunitaria alla creazione in Italia delle cosiddette "zone franche urbane", a conclusione dell'iter di un geniale progetto del governo Prodi, la cui paternità non è stata richiamata neppure dalla sinistra immemore.

 

Questa scelta strategica "forte" pone un secondo interrogativo. Si può conciliare tale politica economicamente e socialmente aggressiva, con la presenza di paesi, anche di grandi dimensioni e prestigio, che non partecipano all'Eurozona? Se la risposta è, come credo, negativa, occorrerà immaginare "paletti" o "penalizzazioni" (invece delle clausole di salvaguardia troppo facilmente concesse) nei confronti di coloro che non intendono entrare a far parte dell'area euro. Il motivo è facilmente comprensibile. Una politica economica e sociale così incisiva deve poter contare su un poderoso sostegno finanziario. La Banca Europea per gli Investimenti non raggiunge le dimensioni adatte. Occorrerà dunque ricorrere al mercato finanziario internazionale, tra l'altro saturo degli eccessi di liquidità pompati dai vari governi per i salvataggi bancari e industriali, emettendo eurobond. Sarebbe singolare se coloro che si sono autoesclusi dall'euro godessero dei vantaggi della manovra senza averne corso i rischi.

    

La seconda alternativa, a mio avviso meno auspicabile,  consiste nel quieto vivere, lasciando molta più libertà di azione ai risorgenti nazionalismi economici. Ciò significa indebolire l'Europa e, con essa, proprio le economie strutturalmente più gracili come quella italiana. Lo stesso ruolo della Commissione ne risulterebbe menomato. La conflittualità intereuropea non si concentrerebbe sulle grandi scelte, ma si immiserirebbe in una guerriglia continua su aspetti marginali. Mentre, dunque, nella prima alternativa al presidente e al ministro degli Esteri dovrebbero essere attribuite forti capacità decisionali, in questo secondo caso prevarrebbero le attitudini alla mediazione paziente.

    

 E' forse troppo presto per valutare quale delle due scelte qui indicate prevarrà in concreto. Ma un presidente belga con una rappresentante di un paese, come la Gran Bretagna, alquanto scettico verso un'Europa economicamente e politicamente forte e - comunque - fuori dell'Eurozona, non sembrerebbero orientarsi verso l'opzione più incisiva. Però è anche vero che le personalità di coloro che guideranno l'Europa sono significative, ma lo è ancor più il disegno strategico sottostante. Se, dunque, fosse vero che le nomine sono frutto di un asse d'acciaio franco-tedesco, con un'opzione germanica sulla presidenza della Bce e francese su un Commissario molto importante, le prospettive potrebbero essere ben diverse, e cioè verso una rivalutazione del Piano Delors. Quel che appare certo è che l'emarginazione italiana si profila pesante.
Domenica, 29. Novembre 2009
 

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