Un'azienda da 'ringiovanire'

L'intervento pubblico è indispensabile, ma non significa nazionalizzazione. Con una politica industriale e lo sforzo di tutti l'auto italiana può farcela

Gli ultimi dati (vendite 2002, stimate a dicembre) dimostrano che il fattore tempo è assai critico nella ripartenza della Fiat, dato che l’effetto psicologico della crisi sulle vendite è devastante indipendentemente dai fattori oggettivi. Se non arrivano segnali nuovi, forti e condivisi, anzitutto del “nuovo” management reinvestito, Fresco e Barberis, e poi da governo e opposizione, azionisti e sindacati, la sorte dell’auto italiana è segnata.
Per rilanciare la Fiat è necessario anzitutto definire linee nazionali di politica industriale che includano l’auto tra i settori in cui il paese sa di avere ancora dei vantaggi competitivi. Una volta fatta questa scelta, condivisa anche da opposizioni e parti sociali, occorre affrontare e risolvere tutti insieme almeno tre problemi aziendali non lievi: a) quello finanziario e della proprietà; b) quello della ReS, (ricerca e sviluppo) e relative risorse, legata a nuovi modelli vincenti; c) quello della bassa produttività (e quindi alti costi) di alcuni degli impianti più “vecchi”.

I grandi paesi industriali, USA, Giappone e Germania, hanno una politica industriale evidente anche se non dichiarata. L’America ha aiutato da sempre l’industria bellica, le industrie ad alta tecnologia come avio, elettronica e biotecnologie e quelle di massa come l’auto, con importanti commesse militari, spaziali e di ReS. Il Giappone ha sostenuto sempre la ReS e lo sviluppo di determinati settori, regista il potente ministero dell’Industria e del commercio, spostando le sue priorità nel tempo dall’acciaio alla cantieristica e poi all’elettronica e all’auto. Le spese di ReS sull’idrogeno e le celle a combustibile che consentono oggi alla Toyota il primato mondiale delle auto ibride (più di 100mila auto vendute ad oggi e 300mila programmate per il 2005) sono state massicciamente finanziate dallo Stato. La Germania interviene direttamente a sostegno dell’auto, e non solo, tramite i Länder e le banche.

L’Italia da almeno 40 anni non ha più alcuna politica industriale, per scarsa cultura industriale e per il timore delle associazioni imprenditoriali di scontentare categorie di loro associati, con scelte settoriali e incentivi non eguali per tutti. Considerando che la produzione automobilistica è ancora oggi dominata dai grandi paesi industriali (USA., Giappone, Francia e Germania), che l’Italia ha tradizioni tecnologiche di prim'ordine in motori e carrozzerie (successi mondiali della Ferrari e dei nostri designer), che siamo ancora il quinto mercato mondiale per l’auto, che gli effetti occupazionali e di reddito dell’auto sono tuttora rilevanti, è legittimo decidere che l’auto sia di diritto inserita tra i settori strategici della politica industriale nazionale e che il governo renda esplicita questa scelta. Scelta che non significa affatto nazionalizzazioni o aiuti vietati dal trattato CEE di Roma.

Tra l’altro non si capisce perché nessuno ha reagito positivamente alle avances di Luca di Montezemolo quando ha affermato che Ferrari e Maserati (che sono fuori dell’accordo GM) sarebbero ben liete di completare la linea vincente delle sport car italiane, aggiungendo alla fascia alta di Ferrari e alla media di Maserati una fascia di massa con l’Alfa. Penso che questa sarebbe una ottima soluzione anche per la Fiat, di cui semplificherebbe la ristrutturazione ai tre stabilimenti restanti, Mirafiori, Cassino e Termini Imerese (Melfi va bene già).

Ciò fatto, i grandi problemi da risolvere per rilanciare la Fiat - come già accennato - sono di tre ordini: finanziario, di ReS, di produttività di alcuni impianti Fiat, troppo “vecchi” per competere senza interventi profondi.

Il problema finanziario e della proprietà

Anche se sul breve termine il problema finanziario e quello legato della proprietà di comando sembra il più grave – perdite di circa un miliardo di euro l’anno, un fabbisogno di 3-4 miliardi di euro per traghettare l’azienda dal fallimento al successo da qui al 2004, l’atteggiamento non amichevole del partner GM nel drastico deprezzamento della partecipazione Fiat, l’evidente sfiducia della famiglia Agnelli nel futuro dell’auto – l’esperienza dimostra che esso non è il problema numero uno.

L’abbondanza di capitale internazionale oggi disponibile, il successo anche finanziario di quasi tutte le marche europee (la Peugeot ha addirittura annunciato la costruzione di un nuovo stabilimento in Europa) consente di affermare che se lo Stato si impegna a fare quanto legittimamente possibile per un settore da considerare ancora strategico (come fanno altri Stati) e se l’azienda predispone un piano industriale innovativo (non rinunciatario come l’attuale) sui due problemi centrali – innovazione dei modelli, produttività degli impianti – il problema finanziario di reperire 4-5 miliardi di euro non è insolubile. C’è il problema della proprietà con l’opzione GM, ma senza trascurare altri soggetti, dai libici (già presenti nella Juventus) ai giapponesi, alla ricerca di nuovi spazi produttivi in Europa, una volta chiara la volontà del paese di non essere declassato al ruolo di “suddito” nell’auto, come Gran Bretagna e Spagna.

ReS e nuovi modelli

Nella classifica delle 10 auto più vendute negli ultimi anni la Fiat entra con un solo modello, la Punto; la Renault con due modelli, Clio e Megane; VW, Pegeot e Opel con tre modelli ciascuna; la Ford addirittura con quattro, Fiesta, Escort, Mondeo e Focus. Per invertire questa tendenza mortale la Fiat doveva investire in ReS quasi il doppio di quanto ha fatto in passato (come Peugeot, VW e Renault) e di quanto ha promesso di fare in futuro. Altrimenti è meglio non buttare altri soldi.

L’auto italiana, cioè costruita in Italia, o si rilancia “forte”o muore, come è già successo in passato per la chimica e l’elettronica. L’innovazione deve riguardare sia personale e tecnologie che design e servizi postvendita ma soprattutto le politiche di marketing.

Produttività e “vecchiaia”

In fase di concorrenza accesa come l’attuale bisogna guardare anche al problema dei costi, cioè alla produttività degli impianti, che influenza i costi ben più del costo del lavoro (questo è ben più alto alla Peugeot e alla VW che alla Fiat). Tutti i dati dimostrano che solo al di sotto di 25 ore lavoro per montare una “compatta” si riesce a realizzare competitività da costi e che questo è praticamente possibile solo con mano d’opera e impianti non “vecchi”.

Purtroppo in Fiat su questi livelli di produttività c’è solo Melfi, il cui personale è di età media inferiore ai 30 anni, contro i 45 e più degli altri stabilimenti. La produttività di un impianto dipende dall’età delle tecnologie e della forza lavoro: le due cose si tengono, perché è impossibile applicare nuove tecnologie di “lavoro in team” del tipo Melfi senza avere una mano d’opera di età media non molto alta.

L’alternativa alla chiusura progressiva di Mirafiori, e anche in parte Cassino e Termini Imerese, passa quindi per un doppio binario di ristrutturazione-ringiovanimento tecnico e umano di questi stabilimenti, come ha sperimentato anche la Renault, e in parte la VW. Queste aziende hanno chiesto ed ottenuto, alcuni anni fa, di sostituire (o di avviare alla pensione progressiva) un certo numero di dipendenti vicini alla pensione, con un numero naturalmente più basso di neoassunti. E contemporaneamente hanno offerto orari più corti, 29 ore settimanali alla VW e 35 in Francia in cambio della flessibilità o annualisation, come la chiamano in Francia. E’ possibile fare alla Fiat qualcosa di simile ai contratti di solidarietà VW e Renault con scambi del tipo meno ore e annualizzazione dell’orario, meno esuberi con orari un po’ più corti, assunzione di giovani a compensare il pensionamento anticipato di quelli assai prossimi alla pensione?

La permanenza non assistita dell’auto in Italia resta affidata, sia all’auspicio che la famiglia Agnelli condivida l’orgoglio dimostrato a più riprese in passato dall’Avvocato, di distinguersi non solo per l’abilità di aumentare i propri capitali, ma anche per l’impatto sociale ed economico esercitato nel paese; sia nella rielaborazione del piano industriale in direzioni “più aggressive” e più innovative. Ma resta affidato anche alla disponibilità dei sindacati di concordare soluzioni che, mentre salvano i diritti dei lavoratori, accettino anche i sacrifici necessari per tenere in vita un’industria a forte competitività internazionale come quella dell’auto.

Altre soluzioni meno radicali, come il piano industriale originariamente prodotto dalla Fiat, significherebbero spreco di risorse e procrastinerebbero solo di qualche anno la scomparsa dell’auto italiana.

Giovedì, 18. Dicembre 2003
 

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