Una Repubblica non più fondata sul lavoro

L’attuazione della legge delega 30/2003 delinea un percorso disegnato per destrutturare il diritto del lavoro del ‘900
Ai nipotini di Cipputi avevano promesso che il diritto del lavoro avrebbe smesso di occuparsi solo del nonno: finalmente, si sarebbe occupato anche di loro.
Non c’è dubbio, infatti, che fosse arrivato da un pezzo il momento di prendere sul serio la cittadinanza che, con un gioco di parole solo apparente, mi piace chiamare “industriosa” per distinguerla da quella che il movimento sindacale di tutti i paesi situò al centro delle sue rivendicazioni per abbattere lo Stato monoclasse e un rinomato sociologo inglese definì “industriale” – un po’ perché (suppongo) odorava di sudore e petrolio, carbone e vapore di macchine e un po’ perché la fabbrica fordista era uno dei grandi laboratori della socializzazione moderna.
 
Ciononostante, la decretazione attuativa della legge delega n. 30 del 2003 sul mercato del lavoro non potrà mantenere la promessa se non nella forma dell’auto-inganno. I discendenti di Cipputi dovranno quindi accontentarsi dei mediocri espedienti escogitati per aiutarli a nascondersi che stanno attraversando da soli un autentico passaggio d’epoca e che la scelta di valorizzare la cittadinanza “industriosa”, o perlomeno impedirne il deteroriamento, è stata ancora una volta rinviata.
 
Così, in una Repubblica che, carta costituzionale alla mano, “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, si ammetterà l’ingaggio “per prestazioni da rendersi nel fine settimana nonché nei periodi delle ferie estive o delle vacanze natalizie e pasquali” da parte di disoccupati che, pur obbligandosi ad eseguirle in caso di chiamata del datore di lavoro, non percepiranno neanche un euro se il telefono non squillerà. Il che, a parte l’involontaria comicità di una situazione che offre più di uno spunto per una gag da commedia all’italiana, è contrario alla più elementare logica giuridica: l’indennità di disponibilità non è il compenso dell’impegno a mantenersi a disposizione?
 
Inoltre, in una Repubblica “fondata sul lavoro” il lavoro deve aver proprio perduto l’originaria valenza fondativa della legittimazione sociale, se si decide che è meglio occultarlo. Infatti, pur augurandosi un massiccio ricorso a contratti di inserimento che comportano (anche per 36 mesi) la corresponsione di un sotto-salario soprattutto a “donne di qualsiasi età” residenti in zone con bassa occupazione femminile, il governo in carica non esita ad escludere i lavoratori così assunti “dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti”. Come dire: la faccia positiva del lavoro è un lusso che potrà permettersi un numero decrescente di persone.
 
Quella che la decretazione delegata prefigura non è nemmeno la Repubblica a cui spetta determinare “i programmi e i controlli opportuni” per indirizzare e coordinare “a fini sociali” l’attività economica. Tutt’al contrario, è la Repubblica che chiude più di un occhio di fronte alle somministrazioni di lavoro – specialmente a tempo determinato, ammesse praticamente senza limiti tranne quelli quantitativi – od altre operazioni di maquillage aziendale, come la cessione di reparti dell’organizzazione produttiva.
Infine, una Repubblica che “tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” vedrà svilupparsi una strategia di politica del diritto incapace di cambiare le cose. Paradigmatico è il caso dei collaboratori coordinati e continuativi. Li chiameranno lavoratori “a progetto”. Ma la regolazione del relativo rapporto, a metà strada tra subordinazione e autonomia, resterà uguale a prima. Nella migliore delle ipotesi. Una formula oracolare, infatti, dilata a dismisura la rinunziabilità da parte dei parasubordinati ai (pochi) diritti che la legge, senza innovare, riconosce. Una formula bilanciata soltanto in apparenza dalla previsione legale della convertibilità in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati da contratti privi della “individuazione di uno specifico progetto, programma o fase di esso”. In realtà, con buona pace di Pietro Ichino e del vice-ministro Sacconi che ne enfatizzano la portata, una disposizione del genere è, per un verso, capziosa e, per l’altro, superflua.
 
E’ capziosa perché la predeterminazione consensuale dell’oggetto della prestazione serve principalmente a spingere le parti ad esibirsi nelle acrobazie verbali necessarie e sufficienti a mettere il contratto al passo con le regole formali. Al tempo stesso, la disposizione è superflua perché anche adesso la qualificazione giudiziaria del contratto prevale sul nomen iuris indicato dalle parti in caso di controversia: il problema è che il falso co.co.co. come non ha oggi la possibilità materiale di sollevarla, così non l’avrà domani. Per ovvi motivi.
 
Si dirà che d’ora in poi le parti potranno disporre di una procedura di certificazione preventiva. E’ vero. Non può dirsi però né quando né con quale utilità potranno disporne. Anzi, allo stato sussiste una deplorevole quanto insuperabile incertezza in ordine agli effetti dell’accertamento effettuato dall’organo preposto alla certificazione. Comprensibilmente imbarazzati dalla brutalità di un legislatore delegante che vorrebbe blindare la certificazione prescrivendone l’inattaccabilità per via giudiziaria ex tunc, gli autori del decreto legislativo ne hanno sfidato la collera stabilendo contestualmente che l’accertamento dell’erroneità della certificazione ha effetto dal momento della conclusione del contratto certificato. Come dire: ad un arbitrio si è risposto con un arbitrio e ne è uscito un bel pasticcio.
 
Si potrebbe proseguire nella ricognizione del tessuto normativo per rilevarne incongruità e piccole o grandi mostruosità, fino a stroncare anche il lettore più paziente. Ma mi chiedo se ne valga la pena. Dopotutto, è uno schema su cui, secondo le prescrizioni della legge delega, dovranno essere “sentite le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei datori e prestatori di lavoro”. Insomma, non siamo che all’inizio di un percorso disegnato per destrutturare il diritto del lavoro del ‘900 senza pensare troppo al futuro.
 
Qui ed ora, pertanto, può interessare solamente chiarire che il provvedimento ha l’ambizione di capovolgere il rapporto che normalmente intercorre tra un cane e la sua coda. Il provvedimento vorrebbe che fosse la coda a muovere l’animale. Il che non è. Per questo, restano da disegnare le coordinate all’interno delle quali potrà avviarsi, con la minore drammaticità possibile, la trasformazione del welfare modellato sul prototipo del lavoro di matrice operaia e industriale in un welfare tendente a coincidere con lo status di cittadinanza indipendentemente dallo svolgimento del lavoro-standard che costituisce il lascito culturale più interiorizzato dell’industrializzazione.
 
Il punto è che la variabile tipologia contrattuale dello scambio tra lavoro e retribuzione deve poter essere ininfluente sulla consistenza del pacco di beni e servizi in cui si materializzano i diritti sociali di cittadinanza: sanità, istruzione, sicurezza, pensione. Ma questo non è il punto di arrivo. E’ il punto di partenza. E’ la premessa-base dello “statuto dei lavori”, ossia di un progetto che aspetta ancora il decisore politico disposto a realizzarlo.
Mercoledì, 25. Giugno 2003
 

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