Una proposta per l’occupazione

La crisi ha cancellato molti posti di lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno, e ne ha mutata la composizione. Un ribilanciamento della tassazione verso i redditi più alti e un uso del ricavato per incentivi alle assunzioni e investimenti potrebbe rilanciare la crescita senza infrangere le norme europee

Secondo l’ISTAT (1), in Italia fra il 2008 e il 2014 l’occupazione è diminuita di 811.400 unità (–3,5 per cento). La parte maggiore della riduzione ha riguardato soprattutto il Mezzogiorno: –575.800 unità (–9 per cento), mentre l’occupazione è rimasta stazionaria nell’Italia centrale. Nello stesso periodo si sono avuti notevoli cambiamenti nella composizione dell’occupazione. Se si sommano i lavoratori dipendenti a tempo pieno con un contratto a tempo indeterminato con i lavoratori indipendenti a tempo pieno la riduzione dell’occupazione è stata di 1.448.300 unità (– 8 per cento), concentrata in termini assoluti fra i dipendenti: – 994.200 unità. Degli altri occupati, i dipendenti a tempo indeterminato ma a tempo parziale sono aumentati di 568.800 unità (+28,3 per cento) (2), mentre i precari, dipendenti a tempo determinato e indipendenti a tempo parziale (come i collaboratori coordinati e i lavoratori occasionali) sono aumentati di 68.100 unità (+2,2 per cento).

Nel 2015 l’occupazione è cresciuta di 185.900 unità (+0,8 per cento); l’incremento riguarda i lavoratori part time a tempo indeterminato per 51.100 unità e i precari per 89.100 unità.; in totale, per queste ultime due categorie: 140.200 unità (+2,5 per cento). Del modesto aumento dell’occupazione nel 2015 solo per il 25,5 per cento ha riguardato gli occupati stabili e a tempo pieno. Nel Mezzogiorno l’occupazione è aumentata in misura relativamente maggiore (+1,8 per cento), ma anche in questo caso l’aumento ha interessato principalmente i lavoratori senza un lavoro stabile a tempo pieno (+4,2 per cento).

Se si tiene in conto il deprezzamento dell’euro, la diminuzione del prezzo del petrolio e quella delle altre materie prime, è difficile pensare che l’incremento dell’occupazione sia attribuibile alla riforma del mercato del lavoro. Intanto la disoccupazione giovanile rimane elevata, e la precarietà del lavoro impedisce che i giovani trovino un’occupazione che ne migliori le capacità professionali.

E’ la conseguenza per l’Italia del fallimento della politica di austerità, ossia del tentativo di supplire con una “svalutazione interna” all’impossibilità di modificare il cambio, in modo da rallentare la crescita dei salari rispetto al resto dell’UE e mettere in moto la crescita del PIL e dell’occupazione. In questo momento un’espansione monetaria non è sufficiente per far crescere l’economia, come è stato sottolineato più volte dal governatore della BCE. Quando i paesi con un avanzo della bilancia dei pagamenti, nell’UME principalmente la Germania, non attuano una politica economica espansiva, per gli altri paesi la svalutazione interna sembra l’unica soluzione.

Gli effetti delle “riforme strutturali” necessarie per rilanciare l’economia italiana si vedranno fra anni. Ora è urgente una politica espansiva che faccia crescere il PIL e l’occupazione. Questo non è possibile, si dice, per i vincoli imposti dall’euro e dall’elevato debito pubblico italiano, e si continuano ad invocare poco probabili interventi dell’UE. Di fatto, non è così. Se si aumentano le imposte sui redditi elevati, soprattutto sui redditi da capitale, con i maggiori introiti si può ridurre il prelievo fiscale sui redditi più bassi e aumentare gli investimenti pubblici. Una manovra di questo tipo aumenterebbe la domanda aggregata avendo i percettori di redditi elevati una propensione marginale a consumare inferiore alla media. La diminuzione della domanda dei primi verrebbe più che compensata dall’aumento della domanda dei meno abbienti e dall’incremento degli investimenti pubblici. Ne conseguirebbe, però, un aumento del disavanzo del conto corrente con l’estero per l’aumento delle importazioni. Non essendo possibile svalutare il cambio, sarebbe necessario ricorrere ad una diminuzione degli oneri sociali e del costo del lavoro così da favorire un aumento delle esportazioni. Il tutto aumenterebbe gli investimenti privati. Il PIL crescerebbe e il disavanzo pubblico potrebbe essere tenuto invariato, anche con gli introiti fiscali indotti dall’aumento del PIL stesso. Il rapporto fra debito pubblico e PIL diminuirebbe.

Nel 2013 in Italia la ricchezza netta (attività reali più attività finanziarie al netto delle passività) era pari a 8 volte il PIL, uno dei rapporti più alti nell’UE. Più del 50 per cento della ricchezza era formata da abitazioni, detenute da famiglie e da società (3). In Italia le imposte sul reddito delle abitazioni locate sono spesso evase e il reddito figurativo delle altre abitazioni è tassato solo in casi particolari. Un’imposta di modesta entità sul reddito presunto delle abitazioni consentirebbe un gettito elevato, e fornirebbe le risorse necessarie per espandere la domanda aggregata. Supponendo un reddito delle abitazioni pari al 3 per cento, con un’aliquota del 21 per cento e una detrazione di 500 euro per le abitazioni principali, si otterrebbe un gettito di almeno 22,4 miliardi di euro, al lordo delle imposte esistenti sulle abitazioni (7,7 miliardi nel 2012, comprese le imposte su immobili differenti dalle abitazioni). L’imposta colpirebbe le abitazioni principali di un valore superiore a 100.000 euro circa. L’imposta è progressiva e graverebbe soprattutto sui grandi proprietari immobiliari (4).
La riduzione del costo del lavoro andrebbe regolata in modo da favorire l’assunzione di dipendenti stabili e a tempo pieno. La riduzione permanente degli oneri sociali pari all’8 per cento dei due terzi della retribuzione lorda mediana, limitata al 50 per cento dei dipendenti stabili e a tempo pieno, quelli con le paghe più basse, avrebbe un costo di 7,512 miliardi di euro (dati 2010) e riguarderebbe 6,2 milioni di lavoratori (dati 2012) (5).

Note

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(1) I.stat, Occupati, livello ripartizionale, aprile 2016.
(2) I dipendenti part time con un contratto stabile sono in gran parte“involontari”. Essi lavorerebbero a tempo pieno, se solo potessero farlo e sono spesso in cerca di un’occupazione migliore.
(3) Banca d’Italia, La ricchezza delle famiglie italiane: Anno 2014, Supplementi al Bollettino Statistico, dicembre 2015, Tavola 1A e passim.
(4) Con un sistema appropriato di detrazioni e di aliquote è facile incrementare il gettito dell’imposta e aumentarne la progressività. Inoltre, al momento della vendita dell’immobile andrebbe tassato il guadagno in conto capitale, dedotto il montante di un rendimento annuale garantito, calcolato con il tasso d’interesse delle obbligazioni senza rischio d’insolvenza. Per maggiori particolari, si veda Cusin, G., La casa? Tassiamo il reddito presunto, la voce.info, 03.06.2015.
(5) Per maggiori particolari, si veda Cusin, G., Un sussidio efficace per l’occupazione, lavoce.info, 05.07.2013.

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Commenti
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Carlo Clericetti - Dato che il costo della riduzione del cuneo è stimato in 7,5 mld e le misure fiscali proposte ne frutterebbero 22,4, si deve supporre che la differenza - quasi un punto di Pil - sarebbe destinata ad investimenti pubblici. Su questo si può concordare, anche se l'importo sarebbe ancora insufficiente a dare una vera spinta alla crescita. D'accordo anche a reintrodurre la tassazione sulla casa, che però per l'abitazione principale dovrebbe essere modesta. Esentare quelle di valore inferiore a 100.000 euro significa praticamente nessuna esenzione, quantomeno nelle città. Assai meno condivisibile è il fatto che la proposta punti molto sulla riduzione del costo del lavoro, in maniera generalizzata e senza alcuna condizione. E' noto che il nostro costo del lavoro non è alto rispetto ai paesi confrontabili: Eurostat ci colloca al dodicesimo o tredicesimo posto in Europa. Il nostro problema non è il costo del lavoro, ma la produttività, e ridurre il cuneo in modo generalizzato e per i lavoratori a più basso reddito (quindi presumibilmente meno qualificati) favorisce proprio le imprese meno produttive: è improbabile che siano quelle capaci di aumentare l'export. Supporre dunque che possa venire di lì la domanda capace di stimolare l'occupazione (senza domanda, come abbiamo visto, non ci sono incentivi che tengano) è piuttosto azzardato. Soprattutto, puntare a ridurre il costo del lavoro sic et simplciter continua a dare un messaggio sbagliato: non è da lì che vengono i nostri problemi principali ed è una cura palliativa che diventa un alibi per non affrontarli.

Lunedì, 9. Maggio 2016
 

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