Una politica dei rifiuti: 'dalla culla alla discarica'

Aumentano molto più velocemente del Pil ed è impensabile limitarsi a gestire solo il problema finale, lo smaltimento: riempiremmo il paese di discariche e inceneritori. Necessari criteri industriali e un ruolo decisivo per la pubblica amministrazione

  

Nei mesi passati in numerose circostante l’emergenza rifiuti si è posta all’attenzione della cronaca nazionale ed internazionale, con pesantissimi effetti sull’immagine del nostro paese. C’è da presumere, trattandosi di questioni di non facile soluzione, che anche nel prossimo futuro il problema si riproporrà. D’altra parte non potrebbe essere diversamente stante le difficoltà che il nostro paese incontra a maturare una politica dei rifiuti non come mera gestione di un servizio, ma piuttosto come complessa ed articolata politica industriale. E’ qui che a mio avviso va ricercata l’origine delle difficoltà che incontriamo nel gestire questo spinosissimo problema.

 

Secondo uno studio del CNEL su dati APAT ed Eurostat, la produzione di rifiuti urbani in Europa nel 2004  è stata di 270 milioni di tonnellate su un totale di 1,5 miliardi di tonnellate prodotte a livello mondiale. L’Italia rappresenta il 12% del totale europeo con una crescita, nel periodo 1998 – 2004, da 26,8 a 31,1 milioni di tonnellate, per un incremento totale pari al 16% ed un tasso medio annuo di +2,5%. Questa incremento  deriva in larga parte dalla produzione media  pro capite nazionale che passa da 472 Kg. per abitante/anno del 1998 a 538 del 2004, con aumento del 14% nel periodo, a fronte di una modesta crescita della popolazione (+2%).  L’articolazione geografica della produzione media al 2004 è di 530 Kg/AB nel Nord, 617 nel Centro e 491 nel Sud. Se, infine, consideriamo anche i rifiuti speciali e quelli speciali non pericolosi, la produzione italiana di rifiuti raggiunge la cifra di 130 milioni di tonnellate anno.

 

Come si nota tanto dai dati assoluti, quanto dagli incrementi relativi, emerge una seria difficoltà strutturale del sistema a raggiungere un equilibrio. Questa difficoltà a maturare una fisiologica capacità di regolazione nella produzione di rifiuti si rileva in modo particolarmente evidente dal rapporto tra crescita degli stessi e crescita del prodotto interno lordo. Da questo rapporto risulta che nel periodo 1998 – 2004  la crescita dei rifiuti ha ampiamente superato la produzione di ricchezza, tenuto conto che nel periodo 2002 – 2004 l’incremento del PIL è stato prossimo allo zero.Se nei prossimi cinquant’anni il trend di crescita  dei rifiuti urbani dovesse rimanere costante a quello registrato negli ultimi sette anni, la produzione complessiva arriverebbe a ben 110 milioni di tonnellate! Per comprendere pienamente la complessità del problema che pone questo numero è utile esaminare alcuni aspetti dell’attuale gestione del ciclo dei rifiuti.

 

Allo stato attuale la situazione, in estrema sintesi,  è la seguente. I rifiuti recuperati sul totale della produzione sono passati dal 18% del 1999 al 33% del 2004. In particolare la raccolta differenziata (RD) è passata da 3,7 a 7,1 milioni di tonnellate, con un incremento totale pari al 91% e un tasso medio annuo di crescita del 14%. Il valore medio pro capite nazionale è cresciuto da 65 a 122 Kg/anno (+88%). L’incidenza media percentuale della RD è passata dal 13,1% al 22,8%, mantenendosi ancora molto distante dagli obiettivi inizialmente fissati dal Decreto legislativo 22/97, successivamente rivisti nel Decreto legislativo 152/06 e recentemente ribaditi dalla finanziaria 2007 che fissa i seguenti obiettivi: il 40% nel 2007, il 50% nel 2009 ed il 60 % nel 2011). I rifiuti trattati presso impianti di selezione e compostaggio sono aumentati da 1,4 milioni di tonnellate nel 1998 a 2,7 nel 2004 (+96). Questo incremento è da porsi in diretta correlazione con l’aumento della dotazione di impianti di selezione e compostaggio, passati da 137 del 1999 a 251 del 2004.

 

Per quanto riguarda invece la termodistruzione dei rifiuti il quadro è il seguente. La frazione dei rifiuti urbani trattata presso impianti di incenerimento è passata da 2,1 milioni di tonnellate del 1999 a 3,1 nel 2004, per una crescita complessiva vicina al 50% ed un tasso di crescita medio annuo dell'8%. La dotazione impiantistica è passata da 41 inceneritori nel 1999 a 48 nel 2004. Ciascun impianto ad oggi incenerisce, in media, quasi 65.000 tonnellate di rifiuti/anno, valore del 27% più alto rispetto al ‘99. Questi incrementi, tuttavia, non devono trarre in inganno: 7 impianti dal 1999 al 2004 e sostanziale stabilità dei volumi inceneriti (circa tre milioni di tonnellate/anno) negli ultimi quattro anni.

 

Relativamente invece alle discariche, rimangono ad oggi la principale destinazione dei rifiuti urbani, pur a fronte di una significativa riduzione nel periodo 1999 – 2004, a vantaggio delle attività di raccolta differenziata, selezione,  compostaggio e incenerimento. I rifiuti urbani conferiti in discarica si sono ridotti da 21,8 milioni di tonnellate/anno nel 1999 a 17,8  nel 2004, passando da 77% al 57 % del totale dei rifiuti. La contrazione dei conferimenti è stata accompagnata da una riduzione dei siti del 50% circa, a fronte della quale permangono tuttora circa 400 discariche attive sul territorio. La riduzione ha riguardato soprattutto i siti più piccoli, essendo l’indice tonnellate smaltite/discariche cresciuto di quasi il 60% nel periodo di riferimento. Da questi dati emerge come, pur tra ritardi e difficoltà, negli anni passati sono stati compiuti dei passi avanti. C’è da domandarsi però se sono state create le condizione per rafforzare questa dinamica al fine di far fronte alla crescente quantità di rifiuti prodotti.

 

Al riguardo  si individuano alcuni nodi di indiscutibile difficoltà. Il primo è la relativa immaturità industriale del settore. Il dato che meglio esprime questo limite è la presenza di ben 4.000 operatori, mediamente uno ogni due comuni, con una fortissima disparità interna dove, a fronte di alcune significative presenze industriali, si registra una presenza ancora molto forte di gestioni in economia, che rappresentano oltre il 40% del totale degli operatori. E’ indubbio come il superamento di questi modelli gestionali sia una condizione indispensabile per realizzare nel nostro paese un vero sistema industriale nella gestione del ciclo dei rifiuti.

 

Connesso a questo primo nodo si pone un secondo argomento di riflessione relativo al completamento delle filiere produttive e di mercato della raccolta differenziata e del riuso. E’ del tutto evidente, infatti, che in assenza di un sistema impiantistico adeguato e mancando mercati che garantiscano lo sbocco delle sostanze riciclate, diventa un puro dispendio di risorse ed energia, ed una vera beffa per i cittadini, l’impegno per realizzare la raccolta differenziata.

 

Il terzo riguarda il deficit impiantistico. Il suo superamento pone problemi di non facile soluzione. Il primo e fondamentale, è relativo alla acquisizione del gradimento da parte delle comunità locali ad accogliere sul proprio territorio gli impianti per la gestione dei rifiuti. La cronaca recente ha ampiamente dimostrato quanto sia delicato questo problema e come sia improduttivo qualsivoglia atteggiamento elusivo. Il problema esiste e deve essere affrontato per quello che è. Allo stato il punto di maggiore delicatezza, su cui non si può assumere atteggiamenti di sufficienza, sono le garanzie di sicurezza igienico – ambientali che si è in grado di assicurare alle collettività locali. Da questo punto di vista è necessario acquisire, e rendere pubbliche in modo univoco, maggiori certezze scientifiche sulla innocuità delle tecnologie adottate e, comunque, è consigliabile abbandonare modelli decisionali del tipo Decidi – Annuncia – Difendi in favore di modelli pro attivi, cosi come suggerisce l’Unione europea.

 

Il quarto nodo è certamente quello delle risorse. Sempre il CNEL valuta che la mancata realizzazione al 2020 dell’impiantistica necessaria per coprire i fabbisogni costerebbe alla collettività (in termini di “costi del non fare”) 27 miliardi di euro. Mentre valuta che  al 2010 il fabbisogno, necessario a garantire una capacità impiantistica adeguata, ammonta a 4 miliardi di euro, di cui circa il 40% dovranno essere spesi nel meridione.   

 

Come si comprende i problemi non sono semplici. Comunque, quand’anche nei prossimi anni  si riuscisse a risolvere brillantemente i precedenti problemi, viene da chiedersi se tutto questo sia sufficiente. E cioè se sia sufficiente gestire la fase finale del ciclo di vita delle merci per risolvere il problema della progressiva crescita della produzione dei rifiuti. A fronte dei numeri precedentemente analizzati la risposta a questo interrogativo non può essere che negativa. A meno che non si voglia disseminare il paese di inceneritori e di discariche, non dimenticando che il residuo dell’incenerimento comunque dovrà essere conferito in discarica. Senza considerare il fatto non secondario che incenerire o conferire in discarica quantità cosi ingenti di materiali comporterebbero uno spreco abnorme di materia e di energia, con risvolti ambientali veramente preoccupanti in termini di inquinamento atmosferico, del suolo e delle falde idriche.

 

Da queste considerazioni emerge in tutta evidenza l’indiscutibile priorità che assume la politica della prevenzione nella produzione dei rifiuti, non a caso indicata dall’Unione Europea come il punto cardine su cui costruire una lungimirante politica dei rifiuti. Questo significa affrontare il problema a monte e quindi affrontare con spirito critico la logica che ha portato il nostro sistema economico all’aberrante esaltazione dello spreco di materiali ed energia, considerandolo addirittura una misura del benessere, confondendo in tal modo il fine con i mezzi. Occorre tornare alla logica, tanto banale quanto attualmente misconosciuta che, al contrario, una società tecnicamente evoluta è quella che riesce a conseguire gli obiettivi del benessere con il minimo dispendio di energia. E’ per questo che bisogna superare l’ambito angusto in cui è oggi relegata la politica dei rifiuti, ridotta a gestire solo l’ultimo anello di una catena molto più complessa. Questa catena, che potremmo chiamare ”politica dei prodotti”, comporta di pensare a tutti gli aspetti del ciclo di vita dei prodotti, dal loro progetto iniziale al loro ridursi in rifiuto, con l’obiettivo di garantire che ogni prodotto sia utilizzato al meglio delle sue caratteristiche, evitando sprechi ed usi impropri.

 

Ad esempio la plastica, derivata da una risorsa preziosa come il petrolio ed altamente inquinante, vede bene impiegate le sue insostituibili caratteristiche di elasticità, plasticità, isolamento, impermeabilità e durata, quando impiegata per realizzare oggetti durevoli, ma è irrazionalmente utilizzata se impiegata per realizzare sacchetti, flaconi ed imballaggi destinati ad essere rifiuto dopo essere stati utilizzati per il breve tempo necessario al trasporto dei prodotti acquistati in un negozio: eppure quest’ultimo e il suo uso più diffuso. Inoltre, utilizzarla per prodotti usa e getta significa trasformare in uno svantaggio la sua migliore caratteristica: la non biodegradabilità. Altri materiali biodegradabili, derivati da sostanze naturali e non dal petrolio, potrebbero essere efficacemente utilizzati per produrre tessuti, contenitori, imballaggi.

 

Altro esempio è l’assurdità dell’uso dell’alluminio per i contenitori di bevande, un materiale così prezioso che per essere prodotto richiede 10 volte l’energia necessaria a produrre il vetro e più di tre volte quella necessaria a produrre la plastica. Lo svantaggio nei confronti della plastica è evidente; ma anche nei confronti del vetro. Benché a parità di capacità il contenitore in vetro sia notevolmente più pesante e di conseguenza più elevato il costo energetico del trasporto, ciò non basta a compensare il vantaggio del basso costo energetico di produzione e della riciclabilità dei contenitori integri di vetro. Con il contenitore di alluminio si giunge al paradosso di avere un contenitore più prezioso del contenuto, costituito in genere di acqua zuccherata variamente aromatizzata, mentre questo materiale potrebbe essere utilizzato per usi più nobili in cui risultino valorizzate le sue caratteristiche specifiche: conducibilità elettrica, leggerezza, inossidabilità.Si potrebbe continuare all’infinito nella esposizione di  esempi sugli usi impropri di materie e prodotti.

 

Come affrontare questo problema della riduzione all’origine della produzione dei rifiuti, con particolare riferimento a quelli non biodegradabili? La risposta è nella decisa assunzione degli indirizzi europei sulle politiche integrate di prodotto. Cioè prodotti per cui, già dal concepimento, è tracciato il loro destino nelle varie fasi di vita: “dalla culla alla discarica”. Per rendere concreta questa prospettiva, che implica in concreto una forte capacità di indirizzo della produzione e quindi del mercato, uno degli  strumenti più efficaci è senza dubbio quello degli acquisti pubblici verdi. Se teniamo conto che la spesa pubblica per lavori, servizi e forniture impegna ogni anni cifre che oscillano dal 15 al 20% del PIL nazionale, ci rendiamo conto di quale formidabile leva è possibile utilizzare per indirizzare il mercato al fine di promuovere maggiore virtuosità nella produzione e nel consumo. Si tratta in poche parole di fare in modo, così come alcune pubbliche amministrazioni stanno facendo, che gli appalti pubblici siano costruiti sulla base di specifiche che tengano conto, appunto, del ciclo di vita dei prodotti. In questo modo si attiverebbe un processo di progressiva selezione in favore di quei prodotti che, tra l’altro, impattano meno sulla produzione dei rifiuti. Un secondo strumento, peraltro già previsto in normativa ma attuato solo parzialmente, è il passaggio da tassa a tariffa. Questo passaggio, stabilendo un rapporto diretto tra quantità di rifiuti prodotti e onere del servizio, attiverebbe un meccanismo capace di stimolare il cittadino a comportamenti più virtuosi.

 

In conclusione tutto questo ci porta a confermare quanto detto all’inizio. E cioè che una corretta politica dei rifiuti non può limitarsi, anche se nella sua complessità industriale, alla organizzazione della gestione del servizio. Essa richiede invece di essere incardinata in una visone più complessiva di politica industriale che si fa carico di indirizzare la produzione ed il consumo verso modelli di maggiore sostenibilità sotto il profilo economico, sociale ed ambientale.    
Venerdì, 5. Ottobre 2007
 

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