Una controriforma illegittima che destruttura la democrazia

Quella approvata dal centro destra non è una modifica, ma una vera e propria nuova Costituzione - varata solo da partiti che non parteciparono all'elaborazione di quella del '48 - che stavolge completamente i meccanismi di garanzia e incide anche sui diritti dei cittadini
Questo articolo è la sintesi di una relazione introduttiva al convegno della Fondazione Basso sul tema: “Crisi della democrazia e controriforma della costituzione italiana”
 
La controriforma della nostra costituzione approvata dalla destra non si limita a stravolgere la car­ta costituzionale del 1948. Essa per­segue la tra­sformazione in co­stituzione formale di mu­tamenti già in larga parte interve­nuti in questi ultimi anni nella costitu­zione ma­te­riale della Repub­blica. Riflette, in breve, una defor­mazione del­la democrazia già di fat­to in gran parte compiuta. E' quasi certo che essa sarà spazzata via dal refe­rendum. E tuttavia essa espri­me e formalizza una conce­zione anti-parlamentare ed extra-costi­tu­zionale della demo­cra­zia larga­mente penetrata nel ceto politico e nel senso comune, anche di sinistra, e già tra­dottasi in un'al­te­razione di fatto del no­stro assetto co­stitu­zio­nale.
 
Tre aspetti della crisi - Domandiamoci dunque quali sono gli elementi di crisi rivela­ti dal testo della controriforma ap­pro­vata dalla destra, mettendo a confronto le innovazioni norma­tive da essa introdotte con le degenerazioni di fatto della demo­cra­zia rappresentativa quali sono rilevabili nell'esperienza ita­lia­na e, in parte, anche in quella di altri paesi occidentali.
 
Queste in­novazioni, a me pare, costituzionalizzano gli elemen­ti di crisi che investono tutte e tre le di­men­sione nelle quali si articola la democra­zia co­sti­tuziona­le di­se­gnata dalla Costi­tuzione re­pub­bli­cana del 1948: la dimen­sione politi­ca della demo­crazia rappre­sen­tati­va, quella i­stitu­ziona­le della se­parazio­ne dei pote­ri  e quella più propriame­nte garan­tista dello stato co­sti­tuziona­le di dirit­to e del principio di uguaglianza. Con il ri­sultato di una regres­sio­ne neo-assoluti­sti­ca della nostra demo­crazia che si esprime nell'in­sofferenza per regole, limi­ti, vin­co­li e con­trolli di le­galità dei poteri poli­tici della maggio­ran­za e, per essi, del capo della maggioran­za.
 
Il primo di questi tre ele­menti e fattori di crisi è costitui­to dalla perso­na­lizza­zio­ne e dalla verticalizzazione della rappre­sen­tanza politi­ca. Secondo la concezione sottostante a questo modello - che nella versione italiana e berlusconiana del bipolarismo ha ereditato i connotati po­pulisti e organicistici provenienti dalla tradizione fa­scista - la democrazia politica consistereb­be, ben più che nel­la rappre­sen­tanza della pluralità degli inte­ressi sociali e nella loro media­zione parla­mentare, nella scelta elettorale di una mag­gio­ranza di go­verno e con essa del capo del­la maggioranza, iden­tifi­cato così con l'espres­sione massima e organica della volontà po­po­lare. Ne è risultato da un lato un inde­bolimen­to dei par­titi qua­li luoghi e strumenti di aggregazio­ne sociale, di for­ma­zione col­let­tiva di pro­grammi e scelte poli­ti­che, di rap­presen­tanza di interessi ed opzioni dif­fe­ren­ziate e virtual­men­te in conflitto; dall'altro un'involuzione anti-rappre­sentativa della democrazia politica dato che un organo monocratico non può rappre­senta­re la vo­lon­tà del popolo intero. "Una sif­fatta vo­lontà collet­ti­va" in­fatti, come insegnò Hans Kel­sen, "non esiste", e la sua as­sunzio­ne ideolo­gica serve a "ma­sche­rare il contrasto d'in­te­res­si, ef­fetti­vo e radicale, che si e­sprime nella realtà dei par­titi poli­tici e nel­la realtà, an­cor più importante, del con­flitto di clas­se che vi sta dietro".  
 
Ebbene, nel testo della controriforma, questa involuzione an­tirappresentativa della democrazia si manifesta nell'introdu­zione di quello che Leopoldo Elia ha chiamato il premierato asso­luto. Viene innanzitutto capovolto il rapporto di fiducia tra Parla­mento  e Governo, non essendo più il Governo che deve avere la fiducia del Par­lamento, bensì il Parlamen­to che deve avere la fiducia del Primo ministro, il quale potrà sciogliere le Camere con un atto del quale - dice il nuovo testo dell'art.88 - egli "assume l'e­sclu­siva responsa­bilità". Ma l'innovazione più grave del­la riforma è la disciplina della sfiducia. "La mo­zione di sfi­du­cia", dice il nuovo art.94, deve essere sempre "vo­tata per ap­pel­lo nomi­nale e approvata dalla maggioranza assoluta dei compo­nen­ti" della Camera; nel qual caso comporta, oltre alle dimissio­ni del Primo ministro, lo sciogli­mento della Camera medesima.
 
Solo la cosiddetta sfiducia costrut­tiva, cioè accompagnata dalla desi­gnazione di un nuovo Primo mi­nistro, consente la prosecuzione della legislatura. Tuttavia tale designazione deve essere operata "da parte dei de­putati apparte­nenti alla maggioranza espressa dal­le elezioni in numero non in­feriore alla maggioranza dei com­po­nenti della Came­ra". Non so­lo. In forza di un'altra norma co­siddetta "anti-ribalto­ne", "il Primo ministro si dimette altresì qualora la mo­zione di sfiducia sia stata respinta con il voto determinante dei deputati non ap­parte­nenti alla mag­gioranza espressa dalle elezio­ni".
 
Non sarà insomma possibile cambiare in parlamento la maggio­ranza di governo. E' la fine della rappresentanza senza vincolo di mandato, essendo ciascun parla­mentare vincolato alla coalizione di appartenenza. Ed è la viola­zione vistosa del prin­cipio basilare della demo­crazia poli­tica, sancito dall'at­tua­le e inalterato art.67, secon­do il quale "ogni membro del Parla­mento rappre­senta la Na­zione ed eser­cita le sue funzioni senza vincolo di mandato". Si è insomma progettata una deformazione radicale della democrazia, e non solo della democrazia parlamentare. Non viene in­fatti neppure istau­rata una democrazia presiden­ziale di tipo pur sempre rappresenta­tivo. La rappresentatività delle demo­crazie presidenziali, con tutti i loro difetti, è assi­curata da parla­menti forti - si pensi al Con­gresso degli Stati Uniti - separati e indipen­denti dal potere esecuti­vo. Ma quan­do, come accade in questo scempio, il Parlamento vie­ne trasfor­mato in un organo ri­gidamente dominato da una maggio­ranza che a sua volta è sostan­zialmente alle di­pendenze del Primo mini­stro, scompare anche la democra­zia rappresenta­tiva, sostituta da una sorta di rap­porto organi­co tra un capo - pre­si­dente o pre­mier - e il popo­lo intero che contraddice la nozione stessa di rappresen­tanza politica.
 
Il secondo e non meno grave fatto­re di crisi consiste nel pro­cesso di progressiva confusione e concentrazione dei pote­ri. Non parlerò qui - perché si tratta purtroppo di un fenomeno già realiz­zatosi, sul quale non incide la controriforma costitu­zionale - della più grave e insidiosa di queste confusioni, quel­la tra po­teri politici e poteri economici, generata dal rapporto circolare che si è instaurato tra po­liti­ca, dena­ro e in­formazione: denaro per fare informazio­ne, in­forma­zione per fare politica, politica per fare informazio­ne, informa­zione per fare denaro e politica. Questo rapporto tra de­naro e politica condiziona ormai pesantemente tutte le democra­zie occi­dentali. Pensiamo, negli Stati Uni­ti, alle ingenti spese e ai massicci finanziamenti richiesti per le campagne elettorali; alla crescita della corruzione; al ruolo addirittura istituzionalizza­to delle lob­bies; allo scambio sempre più frequente tra il perso­nale mana­ge­riale delle grandi imprese e il per­so­nale politico e amministrati­vo. In Italia il fenomeno è solo più vi­stoso che in qual­siasi altro paese, essen­dosi manifestato nella con­centra­zione nel­le mani di una stessa persona dei po­teri po­li­tici di go­verno, dei poteri mediatici e di un enorme sistema di interessi e poteri eco­nomici in aperto con­flitto con gli inte­res­si pubbli­ci, all'in­segna di una concezione proprieta­ria delle istituzioni.
 
Dove la controriforma incide profondamente è invece nella separa­zione tra i tre classici poteri - esecutivo, legislativo e giudi­ziario - per effetto della verticalizzazione e personalizzazione del sistema politico. Viene anzitutto abbattuta la separazione tra potere esecu­tivo e potere legislativo: non solo per la defor­ma­zione in senso mono­cratico del sistema politico e per la vanificazione del ruolo di controllo della Camera, ma anche, più specificamente, per l'in­credibile compli­cazione del procedimento legislativo desti­na­ta a risolversi nella paralisi e, in definitiva, nell'espro­pria­zione della funzione legislativa del Parlamento.
 
L'attuale art.70 - che si compone di una sola ri­ga: "La fun­zione le­gisla­tiva è esercitata collettiva­mente dalle due Came­re" - viene so­stituito da un lun­ghissimo ar­ticolo che sembra il frut­to di una mente malata. Il nuovo testo in­troduce quattro tipi di fonti: 1) leggi di compe­tenza della sola Camera; 2) leggi di competenza del solo Senato federale sul­le mate­rie ri­servate alla legislazio­ne concorrente dello Stato e delle Re­gio­ni dall'art.117 3^ comma, cui la Camera "può proporre modi­fiche, sulle quali il Se­nato de­cide in via definiti­va; 3) leggi di competenza congiunta di en­trambe le Camere; 4) leggi di com­petenza del Senato sulle quali il governo, su auto­rizzazione del Presi­dente della Repubblica chia­mato "a veri­fi­car(n)e i pre­suppo­sti costituzionali", può proporre modifiche "es­senziali al­l'at­tuazio­ne del suo program­ma approvato dalla Ca­mera ovvero alla tutela delle finalità di cui all'art.120": modi­fiche che, se non ap­pro­vate dal Senato, sono deci­se dalla Ca­mera "in via definitiva a maggio­ran­za asso­luta dei suoi componenti".
 
E' difficile capire se ci troviamo di fronte a una prova di dis­sennatezza istituzionale oppure a un consapevo­le sabotaggio della funzione legislativa destinato a lasciar spazio illimitato alla decretazione d'urgenza del governo. Possiamo infatti immagi­nare il caos istituzionale che proverrà da una divisione delle competenze tra questi quattro tipi di fonti, a causa delle inevi­tabili in­cer­tezze e degli infiniti contenziosi generati da una riparti­zione inevitabil­mente generica e astratta delle cinque classi di mate­rie ad esse attribuite.
 
Vengo infine al terzo aspetto della riforma, quello che incide sul principio di ugua­glianza e sulle garanzie dello stato di diritto quale sistema di limiti e vincoli cui sono soggetti tutti i poteri.
 
C'è in primo luogo il nesso strumentale e funzionale tra prima e seconda parte della Costituzione, in forza del quale la riforma della seconda incide necessariamente sulla prima, per l'ovvia ri­levanza che sulla tutela e l'effettività dei diritti fondamen­tali ha ogni modifica delle funzioni e delle istituzioni di governo. La crisi della legge, cioè della fonte primaria di attuazione della Costituzione, non potrà non risolversi in un indebolimento dell'intero sistema dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti.
 
C'è in secondo luogo un generale indebolimento del sistema di limiti e vincoli propri dello stato di diritto conseguente alla verticalizzazione del sistema politico. Perso­nalizza­zione, con­centrazione, confusione e vocazio­ne assolu­tisti­ca dei poteri pub­bli­ci e priva­ti equivalgono infat­ti all'o­dierna, nuova versio­ne del 'governo degli uomini' in luo­go del 'governo delle leggi'.
 
C'è infine la lesione del principio di uguaglianza realizzata dalla cosiddetta "devolution": la quale, asse­gnando in via esclu­siva alle Regio­ni la competenza sulla scuola, sulla sanità, sulle fun­zioni di po­li­zia e su "ogni altra materia non espressa­mente riser­vata alla le­gislazione dello Sta­to", introduce una rigi­dità nella se­parazione delle competenze tra istituzioni cen­trali e regionali che non esiste nemmeno nei tradizionali ordina­menti federa­li. E' un mutamento del­la forma dello Stato che punta aper­tamente alla di­visione dell'u­nità del paese, la quale si basa ap­punto sul­l'uguaglianza dei cittadi­ni nei di­ritti fonda­mentali quali sono appunto i diritti sociali alla salute e al­l'i­struzio­ne. Se passasse una simile ri­forma, si accentuereb­be il di­vario non solo economico, ma anche giuridico, nella garanzia dei dirit­ti, tra cit­tadini del Nord e cit­tadini del Sud, tra cittadi­nanza pri­vile­gia­ta dei primi e cittadinanza senza valore dei se­condi. Sen­za con­tare la cresci­ta dei costi, del­le com­pli­ca­zioni e del­l'i­neffi­cienza deri­vante dal­la duplicazione - anzi dalla mol­ti­plica­zione per il nu­me­ro delle regioni - degli appara­ti e delle buro­crazie ammi­nistrati­ve. 
 
Per tutto questo una battaglia in difesa della Costi­tu­zione del '48 non potrà li­mitarsi a una semplice contesta­zione di que­sta legge di revisio­ne. Essa dovrà consistere, so­prattutto, in una batta­glia cultura­le di rifonda­zione della no­stra demo­crazia, che muova da un'ana­lisi dei suoi elementi e fat­tori di crisi quali si sono venuti mani­fe­stando e svilup­pando nello scorso decennio e sono giunti peri­co­losamente a matu­razione con il governo Berlu­sconi. A tal fine vorrei segnalare tre aspetti della questione costi­tuzionale che occorrerebbe mettere al centro della battaglia referendaria.
 
Il primo aspetto riguarda la portata di questa contro­riforma, la quale equivale alla decostituziona­lizzazione del no­stro siste­ma politi­co, ovvero alla costituziona­lizzazione di tut­ti gli aspetti della crisi sopra indicati: alla demoli­zio­ne non solo della Co­sti­tu­zio­ne re­pub­bli­cana del 1948, ma del paradig­ma stesso della demo­cra­zia costitu­zionale. Il cosiddetto pre­mierato "asso­luto" intro­dotto da questa riforma, an­nullando di fat­to il ruolo del Parla­mento, indebolendo e sotto­ponendo alla logica dello spoil system il già fra­gile sistema delle istituzioni di garanzia -  dal Pre­sidente del­la Repubblica ai presi­denti delle Camere, dai giudici costitu­zio­nali alle cosid­dette Autorità indipenden­ti - darebbe vita ad una vera auto­cra­zia. E' insomma la concezione della democrazia costituzionale come sistema di limi­ti, di vinco­li e di garanzie imposte a tutti i poteri inclu­so il potere della maggioranza, e inoltre come in­sieme di con­trappesi e di separa­zione tra poteri, che vie­ne negata e che do­vrà essere ristabili­ta nel senso comune. Occorre insomma mostrare che questa riforma al­tro non è che la lega­lizza­zione della costituzione materiale del berlusco­nismo: del suo sistema autocratico, della sua insof­feren­za per limiti, rego­le e controlli giurisdizionali, dell'i­dea, in breve, che la demo­crazia consista unicamente nella scelta ogni cinque anni di un capo.
 
Il secondo aspetto riguarda il senso politico della controri­for­ma; la quale, per le sue dimen­sioni e per lo stravol­gi­mento pro­dotto, non è una revisione, ma una nuova costituzio­ne, promos­sa da una coa­li­zio­ne di for­ze -  Alleanza Na­zionale, Forza Ita­lia e Lega Nord - nessu­na delle quali ha par­tecipato alla for­ma­zione della Costi­tu­zione vigente. Il senso politico dell'operazione è chiaro. Pro­prio per­ché non ha partecipato alla formazione della Costitu­zione an­tifa­scista del '48 e in essa non si ricono­sce, questa nuova de­stra, approfittando della contingente maggioranza che aveva nella scorsa legislatura, sta tentando di archi­viare l'attuale Car­ta co­stituzionale e di varare una sua costitu­zione, una nuova carta d'iden­tità del­la Repubbli­ca, a sua immagi­ne e somiglian­za.
 
Di qui l'illegittimità della controriforma approvata, non so­lo, come si è visto, nel merito, ma anche nel metodo. Giac­ché tale ri­forma - equivalendo in sostanza al varo di una nuova Co­sti­tuzio­ne, che sconvolge l'intero assetto della Repubblica dise­gnato dalla seconda parte della Co­stituzione vigente, cambiando al tempo stesso la forma di Stato, da naziona­le a federale, e la forma di governo, da parla­mentare a para-pre­sidenziale o peggio a mono­cra­tica - non è legittimamente possibile sulla base della costituzione vi­gente, neppure ad opera di un'ipotetica as­semblea costituente che pur decidesse a larghissi­ma maggioranza. Il solo potere ammesso dall'art.138 della nostra Costitu­zione è infatti un potere di revi­sio­ne, che non è un pote­re costituen­te ma un potere co­stitui­to, il cui esercizio può con­si­stere solo in speci­fici emendamen­ti; lad­dove, se di­retto a dar vita a una nuova co­stituzione, esso si converte in un potere co­sti­tuente e sovrano, anti­costitu­ziona­le ed ever­sivo, in contra­sto, oltre che con l'ar­ticolo 138, con il princi­pio stabilito dal­l'art.1 della Costitu­zione che "la so­vranità appartiene al popo­lo" il quale da nessu­no può esserne espropriato.
 
Di qui la necessità che l'attacco della destra alla Costitu­zione diventi l'occasione, con il referendum costituzionale, per una riflessione critica ed auto­critica sulla gra­vità della posta in gioco, sui guasti pro­vocati da oltre un decen­nio di logoramento costituzionale, sul nesso indissolubile, infine, che lega costituzione e de­mocrazia.
Giovedì, 15. Giugno 2006
 

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