Una bussola per la Finanziaria

Dopo il balletto di mosse e contromosse, ricapitoliamo che cosa effettivamente stabilisce la Finanziaria. Che in fondo, a parte alcuni aspetti e la confusione che l'ha caratterizzata, non è poi così male
Una delle frasi più in voga da parte di Berlusconi, specie nella seconda parte della scorsa legislatura, di fronte ai risultati negativi dei sondaggi era "non ci hanno capiti" oppure  "non siamo capaci di comunicare". E' la reazione di molti esponenti governativi di fronte alle critiche diffuse alla Finanziaria piovute da molte parti.
 
Difetti di comunicazione ce ne sono stati parecchi, questo è indubitabile, a partire dal Dpef e per tutta l'estate, fino alle esternazioni sui "ricchi" di Rifondazione, ma anche di Padoa Schioppa, e alla presentazione della Finanziaria indicata in conferenza stampa come strumento di una grande redistribuzione di reddito. Né pare che questi difetti stiano diminuendo col procedere dell'esame della Finanziaria in Parlamento.
 
Un primo elemento di prudenza doveva derivare dalla composizione della maggioranza (esigua) e dalla difficoltà di far passare, giusti o sbagliati che fossero, alcuni provvedimenti di tagli di spesa in questa situazione. Prospettare una riduzione della spesa previdenziale era una sfida inutile, persa in partenza, e comunque illogica: salvo per alcuni pasdaran dei tagli di spesa sociale, è evidente che una seria riforma del sistema pensionistico non può essere fatta mirando a risparmi di cassa immediati, ma deve semmai produrli nel medio-lungo periodo. Si è trasformata una scelta logica e naturale, spostando all'anno prossima la trattativa, in un cedimento ai sindacati con effetti negativi di immagine. Non soddisfatta, parte degli esponenti governativi stava ripetendo l'errore con il cosiddetto avvio della fase due.
 
Un'estrema confusione vi è stata sulle dimensioni della manovra, partita da 35 miliardi, scesa a 30 per effetto delle maggiori entrate fiscali, riportata a 34 e poi a 35 senza una spiegazione. Ciliegina finale la "scoperta" del Servizio studi della Camera che la manovra è di 40 miliardi di euro considerando la copertura per la sentenza dell'Alta Corte sull'IVA. La confusione (si spera solo quella) è stata tale che nella nota di variazione del Dpef mancano i nuovi tendenziali di finanza pubblica da confrontare con i risultati programmatici. In qualche caso si è rasentato la "dis"informazione, come sulla presunta assenza di una nuova imposta di successione, salvo scoprire che gli effetti collaterali della modifica delle imposte catastali e di registro reintroduceva di fatto un'imposta di successione senza criteri di selettività.
 
Alla cattiva comunicazione si affianca una scarsa coesione del governo (e della maggioranza) e una limitata coerenza nelle scelte. Se  i mille emendamenti dell'opposizione al decreto fiscale rientrano nella norma, cosa si deve pensare dei 254 presentati dai ministri; Palazzo Chigi coordina o no i suoi ministri? Cosa si deve pensare dei balletti a cui abbiamo assistito (si spera al passato) in merito ai bolli su auto e motorini e alle dichiarazioni sul fatto che gli aumenti del bollo riguarderebbero solo l'8% del parco macchine, mentre tutti gli organi di informazione e le associazioni dei consumatori affermano che più del 90% delle autovetture è interessato dagli aumenti di bollo? Non è una grande furbata distinguere tra effetti del testo originario della finanziaria e quelli degli emendamenti.
 
La cattiva comunicazione e la confusione crescente rendono più difficile difendere gli aspetti positivi di questa finanziaria che rischiano ora di essere soverchiati dalle critiche non solo di chi è colpito dalle misure contenute, non solo da chi si aspettava una diversa composizione tra tagli di spesa e maggiori entrate, ma anche dei potenziali sostenitori. Una cattiva comunicazione comunque, non capovolge la natura di un provvedimento; se le critiche superano largamente il consenso i problemi sono evidentemente reali.
 
Il governo è partito da una difficile eredità nei conti pubblici lasciata dal governo precedente: un indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche superiore al 4%, un avanzo primario azzerato, un debito pubblico che aveva ricominciato a crescere. Il risanamento dei conti pubblici era inevitabile anche per la procedure aperta dall'Ecofin. Si può discutere se era obbligatorio rientrare in un anno o due, ma detto che comunque sarebbe stato difficile convincere Bruxelles di un rientro in due anni, la scelta del governo, accettata peraltro dalla maggioranza con l'approvazione del Dpef, è stata quella di rientrare nei parametri del Patto di stabilità entro il 2007.
 
Questo comportava una manovra valutata in 20 mld di euro a luglio e in 15 oggi (a questi ultimi, peraltro, sono da aggiungere quelli necessari per coprire le maggiori spese dovute alla sentenza della Corte di Giustizia sull'Iva). Il risanamento compiuto ad inizio legislatura dovrebbe liberare risorse nei prossimi anni e consentire al governo di operare con minori vincoli di bilancio specie se la lotta all'evasione produrrà nuove risorse. Si tratta quindi di una scelta condivisibile e comunque coerente con le critiche sempre rivolte alla gestione Berlusconi/Tremonti della finanza pubblica.
 
Oltre alle risorse necessarie per il risanamento, il governo doveva trovare quelle per rifinanziare le spese per le infrastrutture di fatto prosciugate dalle precedenti finanziarie. Già con la manovra di luglio il governo ha dovuto trovare le risorse per rifinanziare l'Anas e le ferrovie nel 2006, altrettanto doveva fare per il 2007 e gli anni successivi, così come doveva rifinanziare altri fondi (disoccupazione,  agevolazioni fiscali e ricerca ad esempio). Ai 15 miliardi per il risanamento ne andavano quindi obbligatoriamente aggiunti altri per questi interventi. Non è quindi condivisibile la critica di chi sostiene che la manovra poteva fermarsi a 15 mld, specie se alcuni di questi critici erano insorti alla notizia di una diminuzione da 35 a 30 mld dell'importo della finanziaria.
 
Restano gli altri miliardi aggiunti per interventi di sviluppo ed equità. Prodi si era impegnato in campagna elettorale sulla riduzione del cuneo fiscale e su questo aveva ottenuto il consenso della Confindustria. E' un provvedimento sulla cui efficacia in termini di sviluppo le opinioni sono difformi, ma era una promessa elettorale e in quanto tale andava mantenuta. La forma scelta, intervento sulla base imponibile Irap, ha consentito una parziale selezione dei beneficiari con l'esclusione delle banche e dei servizi in concessione, dando alle imprese una riduzione del costo del lavoro di circa 3 punti a regime. Si spera che questo sgravio, unito agli altri interventi a favore delle imprese, contribuisca allo sviluppo del paese. Importante ai fini di una limitazione del precariato aver limitato la riduzione di imponibile Irap ai lavoratori dipendenti a tempo indeterminato.
 
Incerta invece, quanto meno, è la restituzione ai lavoratori dipendenti degli altri due punti di cuneo. Vi sono certamente 1,4 mld di euro per l'aumento degli assegni familiari, alquanto opinabile è la riduzione del cuneo attraverso la riforma Irpef. Visco prende ad esempio, per sostenere questa riduzione, gli effetti della riforma sul lavoratore tipo dell'Ocse: peccato che per quanto riguarda le imprese non si prenda ad esempio un'impresa tipica, ma si abbia una riduzione d'imposta di 2,4 miliardi nel 2007 e di 4,8 nel 2008. La riforma Irpef non produce una diminuzione di gettito (anzi secondo la nota tecnica presentata in Parlamento dal governo dà un saldo positivo di entrata) e quindi i vantaggi per il lavoratore tipo derivano tutti, dal punto di vista fiscale, da una redistribuzione interna del carico Irpef e non da una diminuzione generale dell'imposta.
 
La riforma Irpef è uno degli interventi a favore dell'equità che caratterizzano positivamente questa finanziaria. Ferma restando la stupidità di definire ricchi lavoratori con poco più di 2.000 euro netti al mese (l'equazione 1 euro = 1.000 lire vale per tutti), si realizza uno spostamento nella distribuzione del carico fiscale tra alti e bassi redditi con particolare riguardo, soprattutto per i lavoratori dipendenti, per i nuclei con carichi familiari. E' una redistribuzione positiva che annulla il secondo modulo Tremonti particolarmente favorevole agli alti redditi. Da rilevare rispetto alle critiche, che la pressione fiscale su tutti i redditi, compresi quelli colpiti, resta comunque inferiore a quella successiva al primo modulo Tremonti. Semmai è da criticare l'enfasi posta sulla riforma; molti lavoratori troveranno a gennaio in busta paga solo pochi euro in più. Non si tratta di una redistribuzione epocale, ma in una finanziaria che ha come primo obiettivo il risanamento e lo sviluppo, la presenza di misure di aiuto ai bassi redditi e alle famiglie con figli sono un segno importante, costituiscono un'inversione di tendenza, annullano gli effetti più negativi del secondo modulo.
 
Un dato non messo in evidenza dal governo è che a trarne il maggior vantaggio saranno le famiglie "bireddito" di lavoratori dipendenti fino a livelli di reddito familiare di circa 65.000 euro di imponibile,  con incrementi di reddito netto annuo che arrivano ai 700 euro per i nuclei con 2 figli e che superano i 1.000 euro per nuclei con 3 figli. Si tratta di famiglie presenti prevalentemente nel centro-nord del paese.
 
Certo vi sono dei limiti nella riforma, non si è trovato spazio, ad esempio, per misure a favore degli incapienti. Il maggior limite tuttavia è dovuto alla realtà fiscale del nostro paese con la sua forte evasione ed elusione: si è colpito con un incremento delle aliquote contribuenti onesti, si sono avvantaggiati con una diminuzione del carico fiscale contribuenti disonesti. E' una riforma a situazione data, la vera sfida è quella sull'evasione e l'elusione.
 
La finanziaria e il decreto legge fiscale, dopo il decreto Bersani-Visco di luglio, pongono un'attenzione particolare su questo punto. Gli incrementi di gettito promessi/attesi sono consistenti, a prescindere dagli studi di settore. Non resta che attendere gli esiti di questi provvedimenti sui quali si gioca la credibilità del governo e del viceministro Visco, che ha già ricoperto questo ruolo, e quello di ministro del Tesoro, per 5 anni nella precedente legislatura a maggioranza di centrosinistra.
Nell'insieme, come detto, i provvedimenti fiscali sono condivisibili, tuttavia si deve notare, talvolta, una tendenza del viceministro ad affidare ad un aumento di documentazione cartacea la lotta all'evasione, vedi l'introduzione dell'obbligo di scontrini fiscali con codice fiscale per poter detrarre le spese farmaceutiche; è impossibile introdurre elementi di conflitto di interesse nel caso di erogazione di alcuni servizi alle famiglie?
 
Come in passato, la riforma Irpef ha aumentato la tassazione sui trattamenti di fine rapporto; effetto che stride vista la richiesta avanzata insistentemente dall'attuale maggioranza nella scorsa legislatura di annullare un analogo aumento di imposizione sul Tfr prodotto dal primo modulo Tremonti. A questa "svista" dovrebbe aver posto rimedio un emendamento del governo, anche se resta l'aumento di imposizione prodotto da Tremonti.
 
La manovra complessiva è chiaramente caratterizzata da maggiori entrate, smentendo così i propositi espressi dal Dpef. E' uno degli elementi di critica della finanziaria, ma era facilmente prevedibile data la composizione del governo e la necessità del sostegno sindacale. Il dato positivo è che le entrate derivano prevalentemente da categorie nelle quali è più diffusa l'evasione e l'elusione, ponendo su queste il peso maggiore del risanamento e della ricerca di risorse per gli altri fini della finanziaria.
 
Le maggiori entrate fiscali complessivamente previste dal decreto legge e dalla finanziaria sono pari a circa 11 miliardi in massima parte derivanti dagli studi di settori, da provvedimenti di lotta all'evasione/elusione e dalla tassazione delle rendite finanziarie. A questi sono da aggiungere i 5,2 mld necessari per coprire gli effetti della sentenza della Corte di Giustizia sull'Iva derivanti da una minore deducibilità per l'acquisto di autoveicoli, e i 6 mld di maggior gettito prodotto nel 2007 dal decreto Bersani-Visco. Complessivamente si tratta di una previsione di circa 23 mld di euro di nuove entrate in parte derivanti da provvedimenti contro l'elusione e l'evasione e gravanti prevalentemente su autonomi, professionisti e imprese. Scelte condivisibili e meritorie che rendono tuttavia difficilmente accettabile l'affermazione che la pressione fiscale salirà di poco e che renderanno necessario nei prossimi anni procedere a una sua riduzione quanto più avrà successo la lotta all'evasione.
 
Gli autonomi, commercianti e artigiani (ma anche i professionisti), sono i settori più colpiti da questa finanziaria e dagli altri provvedimenti ricordati: studi di settore, provvedimenti antievasione, aumento dei contributi previdenziali, incremento dei contributi per gli apprendisti a carico dei datori di lavoro. Certo non tutti gli autonomi sono uguali: anche in questi settori vi sono numerose figure precarie, spesso a cavallo tra lavoro dipendente e autonomo. Questi casi sono stati parzialmente tutelati dalla revisione dell'Irpef che se ha certamente premiato gruppi di evasori ha comunque favoriti i lavoratori autonomi più deboli. Resta per questi settori una minore tutela per i nuclei familiari, frutto storico di un rifiuto di contribuzione a loro carico simile a quello esistente nel lavoro dipendente. 
 
Anche l'aumento dei contributi previdenziali è una misura di equità. Gli autonomi hanno goduto dal 1996 di un ingiustificato vantaggio con una aliquota di finanziamento previdenziale sensibilmente inferiore a quella utilizzata per il calcolo della pensione. Ancora oggi vi è una differenza di 2,4 punti tra le due aliquote (erano 5 punti nel 1996) e a regime (tra diversi anni) sarebbe rimasta una differenza di un punto. L'armonizzazione delle due aliquote pone quindi tutti i lavoratori su di un piano di parità e rafforza la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico. Positivo è anche l'incremento contributivo per i lavoratori parasubordinati e l'istituzione di una prima tutela per periodi di malattia. L'incremento contributivo consentirà pensioni più elevate (anche se ancora non sufficienti) e riduce la differenza di costo con i lavoratori dipendenti, rendendo meno conveniente per le imprese ricorrere a queste forme di lavoro. 
 
Gli elementi più negativi di questa finanziaria, a parte gli errori di comunicazione, sono stati certamente i tagli agli Enti locali e l'istituzione del Fondo presso la Tesoreria per l'erogazione del Tfr. Nel primo caso Cofferati ha sintetizzato efficacemente la situazione accusando il governo di costringere i sindaci a diventare i nuovi sceriffi di Nottingham imponendo balzelli ai cittadini. Se il governo era convinto che i Comuni potessero assorbire i tagli ai trasferimenti razionalizzando le spese non doveva concedere il via libera a incrementi delle addizionali Irpef e dell'Ici e non doveva introdurre tasse di scopo (fa venire i brividi la possibilità data ai comuni di evitare la restituzione di queste tasse con il solo "inizio" dei lavori). L'osservazione di Nicola Rossi che con questo provvedimento il governo riduceva la spesa centrale incrementando l'imposizione decentrata non era priva di fondamento. Abbastanza stupefacente è stata la rapidità dell'accordo raggiunto. Chi ha barato? I sindaci nel denunciare l'insostenibilità e l'iniquità della misura o il governo nei conti? Il risultato è stato comunque la sensazione diffusa di un sicuro aumento dell'imposizione locale annullando gli effetti positivi per molti contribuenti dell'annunciata riduzione dell'Irpef.
 
Sul nuovo fondo Tfr entrano in gioco aspetti politici e finanziari. Non vi è dubbio che a livello macro il costo per le imprese del trasferimento al fondo del 50% del Tfr è minimo e comunque largamente inferiore ai vantaggi goduti con la riduzione del cuneo fiscale. Altrettanto vero che l'istituzione del Fondo ha consentito al governo di trovare risorse per circa 5 miliardi di euro da investire in opere pubbliche e ha consentito la quadratura dei conti. Tuttavia questa misura ha ignorato il problema di liquidità e di difficoltà di ricorso al credito per le piccole imprese, ha costituito l'ennesimo intervento a carico delle piccole imprese commerciali e artigiane già colpite pesantemente sul piano fiscale e contributivo, ha messo in difficoltà estrema i settori di Confindustria più favorevoli al governo, ha scavalcato i sindacati, ha reso ancora più complessa la situazione per la previdenza complementare, ha dato un'ottima occasione di propaganda all'opposizione. Da un punto di vista politico un vero disastro, alimentato dagli aut-aut di Padoa Schioppa.
 
L'accordo stipulato ha ridotto i danni, ricucendo i rapporti con Confindustria e rimettendo in campo il sindacato. Resta comunque discutibile utilizzare un debito delle aziende verso i lavoratori per finanziare opere pubbliche, senza chiederne il parere ai lavoratori e senza quantomeno assicurare loro un vantaggio in termini di rendimento. E' discutibile, inoltre, che nello stesso articolo della finanziaria si costituisca il Fondo per il Tfr, le cui risorse debbono garantire gli investimenti in opere pubbliche, e si stanzino 17 milioni di euro per campagne di adesione ai Fondi pensione il cui successo priverebbe il Fondo delle risorse necessarie. Vi è quanto meno confusione e incertezza di idee sui due fronti.
Mercoledì, 8. Novembre 2006
 

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