Un mondo senza scontro di civiltà

Il discorso di Barack Obama al Cairo presenta una visione delle relazioni internazionali e del ruolo degli Stati Uniti che rovescia decenni di aggresività "imperiale" senza sbocco. Obama ne ha dimostrato piena consapevolezza. Ma tradurre la "visione" in fatti sarà una sfida ardua, a partire dal conflitto isrelo-palestinese.

Il discorso del presidente Barack Obama al Cairo, rivolto al mondo ma in primis a Israele e all’umma (la comunità dei musulmani), va inquadrato nel contesto del rapporto attuale fra Stati Uniti e Israele.

Il fatto è che alla richiesta, insistente mai come prima, degli USA di smetterla di creare e allargare insediamenti ebraici nei territori palestinesi, il governo di Tel Aviv sta seccamente – anche se proprio come governo evita ancora di ufficializzare la risposta – dicendo il suo no inequivocabile, anche se difficilmente sostenibile. Il ministro degli Interni Eli Yishai ha detto così che le pretese americane di far “fermare l’attività legale di insediamento in Giudea e in Samaria” equivarrebbero all’espulsione degli ebrei “dalla loro terra”: cioè dalla Cisgiordania. Il ministro dei Trasporti, Yisrael Katz, della destra estrema anche lui, ha ribadito l’assunto praticamente con le stesse parole. Non hanno parlato, stavolta, né il vice premier e ministro della Difesa, Ehud Barak, né quello degli Esteri, Avigdor Lieberman e neanche il primo ministro. Ma il messaggio è stato, comunque, chiarissimo .

Adesso, naturalmente, bisogna vedere se e come – non a parole ma nei fatti – reagisce Obama stavolta e, nel suo complesso, come reagisce Washington. Il ragionamento di Israele (chiamiamolo pure così, per il momento) è, del resto, palesemente unilaterale e pretestuoso. Tel Aviv dichiara di non poter “congelare la vita” nei suoi insediamenti. Ma la vita dei palestinesi che vi sopravvivono tutto intorno – e ne sono stati cacciati via – è congelata da sempre, in uno stato di sospensione sempiterno dettato dall’occupazione militare.

Israele chiede, in sostanza, a Obama – anche a Obama – di riconoscerle il diritto finora considerato scontato di continuare a negare ai palestinesi una vita civile normale, di non riconoscere loro sistematicamente i diritti umani degli altri esseri umani. Questa volta, però, la richiesta americana sembra essere stata troppo esplicitamente e pubblicamente proclamata (la Clinton ha sottolineato che il presidente “vuole vedere l’alt immediato agli insediamenti— non ad alcuni insediamenti, non agli avamposti, non con eccezioni di cosiddetta espansione naturale”) – per poter ingoiare, come di consueto, senza reagire, il no del “cliente” israeliano. Così, almeno, sembra.

***

E sembra che proprio così sia. Nel discorso che ha tenuto al Cairo all’università al-Ahram – più importante forse che per i contenuti, anche se di nuovi ce ne sono stati, proprio perché lo faceva in quella sede, e perché lui, il presidente degli Stati Uniti d’America, si chiama Barak Hussein – Obama ha cercato di fare i conti con tutte le questioni aperte tra America e quella parte del mondo.

Partendo dal garantire che l’America non farà mai la guerra all’Islam, ha detto – e dimostrato con la sua storia familiare – che “l’Islam è parte integrante dell’America stessa”. Non era obbligato a dirlo, ma è stato importante che l’abbia detto per respingere una volta per tutte l’estraneità, il concetto di sottociviltà aliena, su cui la destra fondamentalista e neo-cons ha anche fondato, per almeno dieci anni, in America la sua egemonia.

Non ha rinunciato a ricordare lo shock che l’11 settembre ha costituito per tutti gli americani: troppi nel mondo, e soprattutto nel mondo mussulmano, focalizzandosi sulle sofferenze imposte loro “dall’America” e sulle proprie rivendicazioni, se ne sono troppo facilmente dimenticati. Così come è stato importante che Obama abbia saputo parlare di tortura  che l’America stessa non è stata aliena dal praticare.

Certo. E’ stato solo un discorso, come Obama stesso ha detto per primo e, poi, ha ripetuto diverse volte. Ma è stato un grande discorso e adesso tutti – in Medio Oriente, in America, dappertutto – aspettano di vedere i fatti. Proprio perché, anche in sé, le cose dette hanno già creato uno scenario nuovo.

***

Sull’Iran ha subito riconosciuto gli sbagli delle due parti: la presa degli ostaggi dell’ambasciata americana nel 1980 ma, prima, come causa storica di essa scatenante, che l’America era stata colpevole di aver abbattuto nel 1953 – per ingordigia di petrolio a buon mercato per la Esso e la Shell – il primo governo democraticamente eletto del paese, quello di Mohammad Mossadeh. E ha riconosciuto - cosa non nuova a livello di Trattati e risoluzioni dell’ONU, ma per la prima volta detta così chiara e tonda - agli arabi come a Israele, che anche Teheran, come ogni altro paese, ha diritto ad arricchire il suo uranio per scopi pacifici.

E è arrivato perfino a riconoscere che nessun paese del mondo, né Israele né l’America, ha il diritto di scegliersi lui “chi può avere armi nucleari e chi no” e che per questo gli USA sostengono un processo di graduale denuclearizzazione per tutti. Unico accenno, forse troppo prudente, ma chiaro al monopolio attuale della bomba israeliana nella regione; un accenno, però, operativo, con la soluzione indicata per tutti, anche per il Medio Oriente, nella denuclearizzazione generale controllata dappertutto nel mondo.

Soprattutto, ci sembra,  per la prima volta in quel che dice Obama all’Iran c’è il tentativo di motivare razionalmente  la richiesta di non dotarsi di una sua arma atomica- richiesta fondata sulla necessità di fermare una nuova corsa al riarmo atomico in tutta la regione al di là del livello già esistente. (E del fatto che Israele le sue armi nucleari le ha da tempo nella regione e ne ha il monopolio)

***

Su Israele, Palestina e mondo arabo, Obama conferma decisamente – e nel paese più importante del mondo arabo – il sostegno dell’America all’esistenza e al diritto alla pace e alla sicurezza di Israele: un appoggio che – e spiega perché – è “indistruttibile”. Ma argomenta che irrevocabile è anche il sostegno americano ai palestinesi e al loro diritto a uno Stato con pieni poteri e piene responsabilità, il diritto a mettere fine “alle umiliazioni quotidiane – grandi e piccole – che di per sé derivano dall’occupazione”. Che sono, dichiara, “intollerabili”: una dizione di grande effetto e senza precedenti, per un responsabile americano.

Ai palestinesi ricorda anche però – avendo o, comunque, presumendo di avere il diritto e la credibilità per farlo – che la violenza non paga: non è stata essa a liberare gli americani di colore dal giogo che li opprimeva. Dice la verità, Obama, ma solo una parte della verità: perché per i neri americani c’è anche voluta una guerra civile, con oltre 600.000 caduti a metà del XIX secolo, per cominciare a liberarli. Come, del resto, c’è voluta la rivolta armata dell’ANC dietro a Nelson Mandela per costringere alla resa l’apartheid sudafricano. E c’è voluto, anche, il nazionalismo armato indiano dietro a Gandhi per costringere l’impero britannico ad ammainare dall’India la propria bandiera. Così come, tra l’altro, ci sono volute le bombe e i massacri dell’Irgun Zwai Leumi, oltre alla politica di Ben Gurion, per arrivare a fondare Israele.

Quanto a Hamas – che ufficialmente l’America continua a definire un’organizzazione terrorista – Obama vi si riferisce come a un organismo essenzialmente politico che – afferma - ha il sostegno di “alcuni palestinesi”— e questo è, forse, l’unico passaggio reticente del riferimento perché, in realtà Hamas ha avuto il sostegno della maggioranza del milione di palestinesi che, a fine 2006, votarono liberamente a Gaza.

Ma Obama ha ragione quando ricorda – a Hamas, alla stessa ANP, forse pure ai Fratelli mussulmani in Egitto stesso – che troppi “invocano la democrazia quando non sono al potere; e che, quando ci arrivano, sono inesorabili nel sopprimere i diritti degli altri”: e qui parla, sicuramente, anche allo stesso Mubarak, al re saudita, che ha appena incontrati.

E ricorda che anche Hamas, con l’ANP, ha la responsabilità di assicurare con la pace un’esistenza decente, l’indipendenza, uno Stato per tutti i palestinesi. E che, per farlo, deve “mettere fine alla violenza, riconoscere gli accordi raggiunti in passato, riconoscere il diritto di Israele ad esistere”. Non aggiunge, come vuole invece Netanyahu, che quello di Israele dovrebbe essere un diritto ad esistere come “Stato ebraico”.

Ma non aggiunge neanche, purtroppo, che la rinuncia alla violenza (si pensi solo alla campagna di Gaza) è, innanzitutto, responsabilità del più forte, e che esso, per primo, deve riconoscere gli accordi raggiunti in passato: i “due Stati per due popoli”, di certo, il più importante fra tutti che Netanyahu oggi respinge.

A Israele, Obama conferma di fronte al mondo, però, che deve riconoscere ai palestinesi lo stesso diritto all’esistenza che giustamente pretende per sé; deve bloccare gli insediamenti e deve fare passi concreti per consentire l’esistenza, accanto allo Stato di Israele, di uno Stato palestinese..

Significativo è sembrato, ed è stato notato proprio e specie nel mondo arabo, che senza aver mai taciuto le responsabilità, non ha mai utilizzato il termine terrorismo  come tale— l’etichetta sotto cui Bush nascondeva e giustificava tutto. Così come mai nel discorso appare la dizione, facile e impropria, di mondo islamico o “mondo mussulmano”, cui tutti – anche noi – spesso ci abbandoniamo, attento come è stato Obama a non mettere mai una realtà tanto complessa (un miliardo e mezzo di persone, di decine di paesi profondamente diversi) in un unico calderone.

Sembra, tuttavia, che in quella parte del mondo sia unanime la valutazione su un punto: se non si vedrà presto che qualcosa cambia nel rapporto tra israeliani e palestinesi, sarà tutto inutile. Ma questo lo sa per fortuna e per primo anche Barak Obama.

“Gli Stati Uniti d’America – ha comunque scandito Obama al mondo intero parlando al Cairo ma rivolgendosi direttamente a Israele – non accettano la legittimità degli insediamenti”: punto. Ed è l’annuncio di uno spostamento tettonico, per la prima volta così dichiarato, della strategia americana. E va anche notato che, per la prima volta, il testo di un indirizzo così cruciale, per loro oltre che per i palestinesi, di un presidente americano non è stato mostrato in anticipo, “per le sue osservazioni” eventuali – lo ha fatto rilevare qualcuno in Congresso, lamentando la “scortesia” – al capo del governo israeliano. Come era, invece, consuetudine qualificata con Clinton e col Bush minore.

***

Oltre che su Israele, Palestina e Iran, Obama ha parlato di altro: di Iraq, di Afganistan, in modo più tradizionale e meno – sembra a chi scrive – felice. Ma ha parlato anche, nel suo modo sciolto, didattico quasi, ma niente affatto banale di altre tematiche di grande rilievo. Qualcuna vale la pena di coglierla, in sintesi.

Sul tema della democrazia Obama ha avuto spesso l’applauso più caloroso e pieno di speranza: per esempio, quando ha affermato che la democrazia non può essere imposta, ma che rappresenta un diritto di tutti i popoli iinsistito sul diritto di tutti i popoli alla democrazia. Una democrazia che non può mai essere imposta, ma intesa come a forme di governo trasparenti e rispettose dei diritti di uomini e donne e specialmente delle minoranze – anche qui certo non senza qualche reticenza, considerato il tradizionale sostegno americano a tante tirannie di queste, e altre parti del mondo.

In questo scenario ha collocato il tema non meno arduo della libertà religiosa e dei diritti delle donne con toni “alti”, ma senza la presunzione dei maestri che danno i voti dall’alto delle “virtù” occidentali.

Riassumendo e concludendo, come in una vera e propria lezione accademica, il presidente degli Stati Uniti ha tirato lui stesso le fila del suo discorso: “Tutte le questioni che ho illustrato, non saranno facili da affrontare. Ma abbiamo la responsabilità di metterci insieme nell’interesse del mondo che vogliamo vedere— un mondo dove gli estremisti non minaccino più la nostra gente, dove le truppe americane se ne tornino a casa; dove israeliani e palestinesi siano entrambi sicuri in uno Stato che sia il loro e l’energia nucleare sia usata solo per scopi pacifici; un mondo dove i governi siano al servizio dei cittadini e siano rispettati i diritti di tutti i figli di Dio. Sono questi interessi di tutte e di tutti. Ma possiamo averli solo se agiamo insieme… In definitiva, la ragione che mi ha portato qui oggi e dirvi che ne usciamo, tutti e insieme, se teniamo a mente di non fare agli altri quel che non vogliamo venga fatto a noi: una verità profonda, né cristiana, né musulmana, né ebrea: lo dice il Corano, lo dice il Talmud, lo dice la Bibbia, lo dice il cuore di tutti gli uomini”.

Riuscirà Obama a dare gambe al suo progetto di cambiamento? Il tempo ci dirà, anche rapidamente, come sarà sciolto quest’interrogativo. Non sarà facile costruire le condizioni della pace in Medio Oriente, per citare il più spinoso ed emblematico dei problemi. Ma bisogna riconoscere che il discorso del Cairo esprime una visione nuova del possibile futuro del mondo.

Venerdì, 5. Giugno 2009
 

SOCIAL

 

CONTATTI