Un intervento pubblico di venture capital

Un'impresa di questo genere, fortemente capitalizzata, dovrebbe creare nel paese un’aspettativa, la sensazione che è possibile operare assumendo rischi accettabili per rinnovare il livello tecnologico dell’economia italiana. L’azienda dovrebbe operare con la massima libertà di scelta e con un minimo di burocrazia. Può essere una risposta ai problemi sollevati da Guido Rey

L’articolo di Guido Rey fa un’analisi molto accurata, anche se semplice e piana, della situazione odierna della nostra economia e a conclusione pone un problema di economia, o, meglio, di politica economica, ed anche accenna al quadro generale della nostra società, così come si presenta oggi.

 

Possiamo vedere la storia economica del nostro paese dalla fine della guerra come costituita da tre fasi. Può sembrare una definizione semplicistica, ma a mio parere risponde alla realtà: la fase della spesa pubblica; quella delle piccole imprese; quella della globalizzazione. La prima, dalla fine della ricostruzione postbellica fino alla fine degli anni ’60, ebbe come protagonista il capitale pubblico e le strutture deputate ad investirlo: gli enti pubblici, come la Cassa del Mezzogiorno, e le Imprese a Partecipazione statale. In quel periodo si fecero investimenti rilevanti, sul piano produttivo e della logistica, e si operò efficacemente anche all’estero. Partì così il miracolo italiano.

 

Il prevalere delle motivazioni politiche pose però un limite allo sviluppo, e la crisi petrolifera degli anni ’70 fece il resto. La politica cambiò obiettivo, da quello dello sviluppo a quello della miglior ripartizione del reddito. Va rilevato che in questo periodo le grandi imprese private non giocarono per buona parte un ruolo di avanguardia, ma vennero percepite come volte alla difesa delle loro posizioni monopolistiche. Principalmente di qui viene il fatto singolare che l’Italia ha distrutto la maggior parte delle grandi imprese private, un caso abbastanza raro. Esse erano molto impopolari, perché considerate troppo potenti, e prepotenti, e venivano forse percepite come poteri senza la necessaria motivazione. Inoltre, il declino delle capacità imprenditoriali delle famiglie faceva sì che i top manager venissero scelti o per via politica, o per via di “aggiunti” alla famiglia, che spesso non ne avevano le doti tradizionali. Infine, le grandi imprese persero il controllo della finanza privata, e finirono per cercare di appoggiarsi, in modo più o meno visibile, al capitale pubblico .

 

Questo processo, che ebbe due importanti punti di svolta, la nazionalizzazione dell’energia elettrica ed il fallimento del take over dell’Eni sulla Montedison, finì per consegnare l’intera economia italiana nelle mani di imprese piccole e medie, il cui sviluppo era cominciato già a metà degli anni ‘60. Anche le imprese privatizzate dell’Iri furono, più tardi, ridotte in lotti facilmente vendibili, che avevano però raramente le grandi dimensioni necessarie per un programma di sviluppo.

 

Le piccole imprese si sono sviluppate rapidamente negli anni ‘70-’80. Vi contribuirono importanti mutamenti tecnologici: le macchine operatrici a controllo numerico di piccole dimensioni e di grande capacità produttiva rivoluzionarono l’industria meccanica, quella del legno, l’industria tessile ed altre; il denaro accumulato dagli operai italiani emigrati in Francia, Svizzera e Germania a metà del 1950; quello che lo Stato spendeva per sostenere l’agricoltura al Sud ed al Nord, e quindi a sostenere la domanda di trattori e di macchine adatte alle caratteristiche della nostra agricoltura; l’appoggio di molti enti locali al Nord, e delle banche, spesso attraverso mediazioni politiche; tutti questi elementi produssero un vero e proprio boom che trovò una parte del suo mercato anche nella domanda delle impresa più grandi, che attraversavano un periodo di aumento dei costi, e svilupparono una politica di acquisto di pezzi dall’esterno. Questo sviluppo sostenne l’economia italiana negi anni ’70-’80. Poco tempo dopo, la globalizzazione aprì mercati nuovi, stimolando anche le imprese piccole e medie ad operare prima commercialmente, e poi operativamente anche in mercati lontani, ma in particolare in quelli, appena aperti, dell’Europa dell’Est.

 

Questa terza fase è finita con la crisi finanziaria ed economica a livello mondiale, e l’economia italiana non ha più alcun fattore traente. In conclusione, manca ad essa qualcosa che la porti a fare un salto di qualità, e trascini con sè gli imprenditori italiani piccoli e grandi. Non credo che sarebbe possibile realizzare ciò operando sulla domanda. È necessario agire sull’offerta, sulla produzione, e soprattutto sulla tecnologia. Non vi è contraddizione, a questo punto, fra l’agire attraverso la Borsa ed operare con capitale pubblico. Il secondo servirà a portare al primo una nuova ondata di imprenditori moderni.

 

E come può farlo il governo italiano? Il governo americano ha indebitato il suo popolo fino ad oltre la proverbiale settima generazione, qualcuno ha detto per salvare le banche, qualcun altro per salvare le imprese, qualcun altro ancora per salvare il capitalismo, e ben pochi hanno detto per salvare posti di lavoro. Il governo italiano potrebbe fare di meglio, e apprestare le risorse necessarie per salvare l’economia italiana dall’asfissia. Se non lo farà lo Stato, non lo farà nessuno.

 

Ci vuole però un’dea diversa dal solito, un’iniziativa che possa funzionare in un quadro di economia privata. Lo Stato dovrebbe capitalizzare ampiamente un’impresa di venture capital in grande stile, da far gestire da manager (e non da politici) con l’obiettivo di finanziare progetti innovativi di nuova o vecchia tecnologia (si possono fare prodotti nuovi con tecnologie vecchie, e viceversa) che promettano ragionevolmente di ripagare l’investimento con i profitti di un certo numero di anni. L’impresa dovrebbe agire con la massima visibilità e rivolgersi a tutti: ai singoli scienziati, alle organizzazioni di ricerca, agli imprenditori privati e pubblici ed a chiunque altro abbia in mente un progetto innovativo che risulti fattibile.

 

Essa dovrebbe creare nel paese un’aspettativa, la sensazione che è possibile operare assumendo rischi accettabili per rinnovare il livello tecnologico dell’economia italiana. L’azienda dovrebbe operare con la massima libertà di scelta e con un minimo di burocrazia e dovrebbe impegnarsi a fondo, con il solo obbligo di presentare un bilancio annuale, e di remunerare il capitale impiegato entro un certo limite di tempo. Il suo capitale potrebbe anche non essere del tutto pubblico, le maggiori banche italiane potrebbero parteciparvi, a patto che abbandonino i criteri restrittivi che hanno fino ad ora adottato nel finanziamento di progetti innovativi.

 

Comportandosi in questo modo, l’impresa non ricadrebbe nella solita accusa di “aiuto di Stato”, dato che le venture capital sono la più sofisticata forma di valorizzazione del capitale creata proprio dal sistema capitalista, e dato che lo Stato chiederebbe la remunerazione del suo capitale. In questo modo si dovrebbe por rimedio alle difficoltà che incontrano le piccole imprese nel finanziare progetti innovativi, e nell’adottare nuove tecnologie, data la loro preoccupazione di perdere il controllo dell’impresa insito nell’entrata in Borsa. Si potrebbe sperare di provocare così una nuova leva di imprese e di progetti, che possono portare, se del caso, alcune imprese all’entrata in Borsa, o rimanere di proprietà individuale, una volta uscita la finanziaria che ha dato la spinta iniziale. Si potrebbe forse così creare una nuova fase di sviluppo tecnologico capace di portare le imprese italiane fuori dalla stagnazione, e la forza lavoro italiana fuori del precariato.

Mercoledì, 30. Settembre 2009
 

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