Un economista felice e conosciuto

Nel suo nuovo libro Reich pone il problema del rapporto tra vita e successo. E fa una profezia
Ministro del Lavoro durante la prima Amministrazione Clinton, Robert Reich qualche anno fa divise l’opinione pubblica americana. Si dimise bruscamente dal suo prestigioso incarico, infatti, non per contrasti politici con il Presidente o perché travolto da uno scandalo privato, ma per potersi dedicare di più e meglio alla famiglia.
Per alcuni, Reich minava così i valori fondanti della società americana, ovvero l’etica della responsabilità e dell’impegno civico. Secondo altri, la sua scelta era non solo legittima, ma anche degna di ammirazione: una vita equilibrata non può essere ostaggio dell’ossessione della carriera e del successo professionale.
L’ultima fatica di Reich, L’infelicità del successo (Fazi Editore, ottobre 2001, pagg. 382, euro 18,08), nasce da quell’esperienza.
Per quanto la nuova economia sia meravigliosa – dice l’economista di Boston – stiamo sacrificando sul suo altare parti significative della nostra vita: aspetti della vita familiare, delle amicizie, delle comunità, di noi stessi.
Lavorare sempre più duramente per competere all’interno di un sistema in cui la concorrenza si fa sempre più intensa; restare a galla in un sistema che, con crescente determinazione, sta trasformando quasi tutti in promotori di se stessi; stabilire relazioni affettive secondo criteri di ricchezza, istruzione e salute in un sistema che rende sempre più brutale il processo di selezione sociale.
All’analisi minuziosa di queste tendenze e delle loro implicazioni è dedicato il libro di Reich. La prima parte è sul nuovo lavoro, su come le nuove tecnologie stanno cambiando il modo in cui è organizzato e remunerato il lavoro. La seconda parte è sulle conseguenze che il nuovo lavoro ha nella vita personale, familiare e della comunità. La terza parte è sulle scelte sociali e personali che tutto ciò comporta.
Il quadro che ne emerge è descritto con pacata spietatezza. I ceti medi diventano più ricchi (con il lavoro e con la Borsa), però le loro vite private diventano più misere. A una maggiore prosperità si contrappone una più forte disuguaglianza sociale. Il super-lavoro nella nuova economia non è solo stressante: lascia sempre più indietro i più poveri e i più deboli.
Ha ragione Reich? Ha senz’altro ragione quando sollecita un dibattito che sia più ampio della semplicistica esortazione a “calmarsi un attimo e godersi la vita”. Un dibattito, quindi, che sia capace di leggere le richieste di un equilibrio migliore tra lavoro retribuito e vita nel suo complesso non come una questione personale, confinata nel privato, ma anche come una questione del modo in cui il lavoro è – e dovrebbe essere – organizzato, valorizzato e compensato.
Fino a che punto, tuttavia, le riflessioni di Reich si addicono alla società europea? M. Ferrera ha sollevato un dubbio (v. “Il sole-24 Ore”, 21 ottobre 2001) che ci pare utile menzionare per la stretta attualità che conserva in questo momento di vivace discussione sulla riforma del welfare in Italia e nell’Unione Europea.
Nel nostro continente, secondo Ferrera, i fenomeni descritti da Reich riguardano solo settori sociali ristretti. Noi abbiamo semmai il problema opposto: bassa mobilità sociale, scarsa meritocrazia nelle carriere, istituzioni pubbliche troppo rigide, un modello familiare agli antipodi di quello americano.
Ma c’è un altro elemento da cui ormai non possiamo più prescindere nel valutare le priorità e le forme organizzative del modello americano, sia sul piano collettivo che su quello individuale: gli attacchi del nuovo terrorismo internazionale.
L’ultimo capitolo del libro di Reich immagina come possibile, con drammatico intuito profetico, una situazione “neo-luddista” in cui si spengono i computers, si cancellano i programmi informatici, si chiudono le frontiere, si blocca l’innovazione. “Non pensate che una simile strategia neo-luddista sia fuori della realtà – ammonisce Reich – in un’era di tecnologia globale. Fondamentalisti, puritani zeloti e fanatici l’hanno già fatto in passato; da qualche parte, a un certo punto, tenteranno di farlo di nuovo”.
E’ successo a New York, l’11 settembre 2001.
Mercoledì, 12. Giugno 2002
 

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