Per un disegno di politica industriale

La crisi globale colpisce l'industria italiana, ma vi sono settori manifatturieri di eccellenza da cui si potrebbe ripartire. La minaccia sta nell'immobilismo del governo. E nel fatto che i pochi investimenti annunciati rischiano di aprire nuove dipendenze dall'estero

Di fronte al collasso dell'occupazione e alle difficoltà dell’export italiano si torna a invocare la necessità di una nuova politica industriale. Invocazione che purtroppo è destinata a cadere nel vuoto perché il governo, che ne è il destinatario, non ha nessuna attitudine verso riforme impegnative e sopratutto selettive.

 
Così come, per quanto riguarda il mercato del lavoro, è fermo alla cassa integrazione “in deroga”, così sulla politica industriale rimane arroccato alla Tremonti-ter con la detassazione degli utili reinvestiti. Un immobilismo che è anche una conferma di assenza di idee mentre tutto sta cambiando. Tutto ciò è pericoloso per l’industria, per il futuro dell’occupazione e per il nostro paese. Anche gli investimenti annunciati, a partire dalla costruzione di centrali elettriche a energia nucleare, rischiano di aprire nuove dipendenze esterne non solo per l’approvvigionamento del combustibile, ma soprattutto in termini di acquisizioni di licenze e per l’assenza di capacità progettuali dell’industria italiana.

Nel lontano passato la domanda pubblica esercitava, in un mercato meno aperto di quello attuale, una funzione di stimolo per l’industria in molti settori (mezzi per la produzione di energia; mezzi di trasporto collettivi su gomma, rotaia e navali; impiantistica industriale in settori a forte incidenza pubblica come la siderurgia e la metallurgia non ferrosa, la chimica, la logistica dei materiali e dei prodotti, ecc.) e, collateralmente ai settori di produzione di serie, si erano formate notevoli capacità progettuali e produttive sia nei sistemi di lavorazione che nelle macchine utensili.

Il binomio pubblico-privato, con la forte presenza industriale delle Partecipazioni statali, permetteva un raccordo positivo, pur con le note contraddizioni, tra lo sviluppo del paese e la crescita delle sue capacità tecnologiche e produttive. Questo consentiva una presenza internazionale importante per l’industria italiana. Cosa è rimasto oggi di quel patrimonio e di quel modello e, soprattutto, cosa è concretamente spendibile per il futuro che possa avere ricadute positive per l’occupazione nel nostro paese?

È del tutto evidente il ridimensionamento della presenza dell’industria italiana nel settore della produzione di centrali elettriche sia a combustibili convenzionali che nucleare, insieme alla scomparsa dei grandi poli produttivi del passato. Analogo discorso per le aziende di produzione di mezzi di trasporto collettivi su gomma e su rotaia. Le capacità progettuali e manifatturiere del settore impiantistico si sono ridotte di molto, pur essendo questo uno dei punti di forza della nostra industria.

Nonostante queste trasformazioni negative l’export italiano è stato fino al 2006/2007, poco prima della grande crisi, tra i primi nel mondo. Esso era primo per 1022 prodotti e si collocava al quinto posto per valori monetari (dati dall’indice Fortis-Corradini delle eccellenze competitive nel commercio internazionale della ricerca della Fondazione Edison). In questi prodotti sono ben rappresentati sia quelli industriali che quelli della trasformazione agricola e della moda, ma non ci sono più i grandi settori che hanno caratterizzato lo sviluppo industriale del nostro paese nel passato. A commento dell’indagine citata emerge come “in molti prodotti in cui l’Italia è primo esportatore mondiale, il nostro paese si colloca nelle fasce di più elevato valore aggiunto dove i produttori emergenti come la Cina faticano a entrare e dove le nostre caratteristiche distintive in termini di qualità, design, innovazione e servizio al cliente continuano a fare la differenza” (M. Fortis - S.Corradini, Il Sole 24 ore del 20.12.2009). Fino a quando questi invidiabili successi potranno continuare senza un’adeguata politica industriale e sopratutto di fronte ad un calo dell’export del venti per cento nel 2009?

Analizzando prodotti e settori dell’export italiano, si possono individuare come componenti fondamentali del successo la straordinaria creatività, il marketing e fattori tecnologici in qualche modo derivati dalle subforniture dei vecchi grandi settori industriali. E’ il caso della rubinetteria, nella quale siamo primi nel mondo, o degli apparecchi di precisione o di sistema come nel caso della moda. E’ da queste eccellenze che bisogna partire per ridisegnare una politica industriale efficace.

In primo luogo, guardando al mercato interno che, non dimentichiamolo, ha consentito all’Italia di diventare un paese industriale. Per farlo è urgente uscire dalla logica largamente praticata per la quale la produttività si ottiene comprimendo i salari e l’occupazione. Ed è urgente farlo, perché le conseguenze sono evidenti per l’insufficiente domanda interna che non dà stimoli adeguati ai settori produttivi e, inoltre, perché i bassi salari non giovano ai fini di produrre stimoli all’innovazione.

Crescita dei salari e ridisegno del mercato del lavoro e del suo funzionamento sono preliminari per le scelte di politica industriale. Per questi obiettivi, giova ricordarlo, occorrerebbe una forte capacità propositiva dei sindacati. Invece assistiamo a una divaricazione crescente tra CGIL, CISL, UIL che le rende ininfluenti e, proprio perché divise, di fatto subalterne. Anche sulla politica industriale da tempo non c’è una proposta sindacale credibile e sostenuta da una mobilitazione significativa. I sindacati, in questo caso unitariamente, si accontentano di cavalcare la protesta dei lavoratori colpiti dai processi di ristrutturazione industriale, ma sembrano incapaci di dare a queste lotte sbocchi positivi.

La ristrutturazione coinvolge settori importanti dell’industria italiana tra i quali l’auto, la metallurgia, gli elettrodomestici, per citare i più noti. C’è ancora posto in Italia per una politica industriale per i settori? L’indagine della Fondazione Edison già citata ne individua una ventina che sono quelli attraverso i quali l’Italia è ai primi posti nel mondo. E’ necessario partire da questi e concentrare su di essi risorse di ricerca e sviluppo e di sostegno all’innovazione organizzativa, di processo e prodotto, integrando nelle filiere gli eventuali vuoti e sostenendo quei prodotti che possono essere sviluppati di più e meglio. Per realizzare tutto ciò sarebbe necessaria una sede pubblica di coordinamento tra ricerca, tecnologia, marketing e strumentazione economica di supporto alle strategie all’uopo delineate.

C’è poi la domanda pubblica di infrastrutture e di reti. Si può creare un collegamento trasparente e creare occasioni per un confronto partecipato, oltre che dal governo e dall’industria, anche dalle parti sociali tra questa domanda e l’industria che è rimasta in Italia?  Da questo punto di vista andrebbe meglio spiegata dal governo la ricaduta che si pensa realisticamente prevedibile sul sistema industriale italiano della scelta nucleare, aggiungendo poi le ripercussioni sul prezzo del kwh e i problemi relativi all’approvvigionamento del combustibile e alla gestione del ciclo.

Occorre ricordare che l’industria elettronucleare italiana è stata fortemente ridimensionata e sostanzialmente liquidata nella sua componente nucleare dopo il referendum e, ove fosse in grado di diventare protagonista autorevolmente nel mercato italiano che sembrerebbe aprirsi con i programmi annunciati, ci sarebbe da spiegare la redditività di tale sforzo economico se mancasse l’inserimento dell’industria italiana nel mercato internazionale. Il mercato mondiale è, infatti, presidiato da multinazionali agguerrite e potenti, per niente intenzionate a cedere spazio ad altri che, nel come nel caso italiano, devono lavorare su licenza. Per questo vanno preventivamente rese pubbliche le modalità di committenza e i vincoli che si intendono porre ai licenziatari circa i trasferimenti di competenze.

Anche le alleanze industriali sembrano precluse. A parte i successi di Finmeccanica, l’industria pesante italiana è marginale sui mercati mondiali e quindi non in grado di proporsi come partner. Il colossale investimento della Cina sull’alta velocità (15.000 km di rete programmati con il relativo materiale rotabile) vede in consorzio l’industria cinese con Alsthom e Siemens. Questo delinea già gli assetti del settore ferroviario a livello globale per il futuro.

Ancora Alcoa chiede, per non abbandonare il settore alluminio, tariffe elettriche ridotte. Il kilowattora italiano è caro per l’assenza di ogni politica energetica che ha contraddistinto colpevolmente il nostro paese e per un settore fortemente energivoro, il che rappresenta già di per sé uno svantaggio competitivo. Ovviamente lo è molto di più se ci si ferma alle prime lavorazioni, mentre migliora se la verticalizzazione cresce verso prodotti finiti ad alto valore aggiunto. Ma il settore, che era pubblico, è stato privatizzato e Alcoa è una delle più grandi multinazionali del mondo con una sua politica industriale globale. Inseguirla con sconti sul prezzo dell’energia, a parte i problemi con l’Unione Europea per gli aiuti al funzionamento, non porta lontano, anche a causa del persistere del vincolo energetico esterno del nostro paese. Ecco quindi un altro banco di prova per un abbozzo di politica industriale! Si vuole mantenere la produzione di alluminio primario in Italia? Si risponda con una politica che sviluppi le seconde e terze lavorazioni in modo da rendere il bilanciamento sui costi adeguato. Del resto, l’Italia è già tra i primi esportatori al mondo di fusioni in alluminio.

Questi sono alcuni esempi per uscire da indicazioni generiche e calarsi nella realtà delle scelte.
E’ anche molto sentita la mancanza di strumenti operativi in grado di intervenire quando la redditività degli investimenti, sia nella ricerca che industriali, risulta differita. Una riflessione su quest’aspetto è necessaria anche rivalutando la presenza pubblica nell’industria che, attraverso Finmeccanica e Fincantieri, registra successi internazionali. Sulle politiche che riguardano i fattori per una politica industriale efficace si è già detto molto nel dibattito pubblico: ricerca e infrastrutture, amministrazione pubblica e divario nord-sud, sostegno ai distretti industriali e sostegno all’aggregazione delle piccole e medie imprese.

Il problema è che il governo non è in grado di fare scelte. Si preferiscono politiche generali e non selettive, e si prende a pretesto la crisi economica per una politica “avara” nei confronti della spesa per investimenti. Così non si qualifica la spesa e si evitano politiche impopolari nel proprio campo. Tra il fisco che non solo è ingiusto, ma che non funziona, e lo “scudo fiscale” che fa rientrare in Italia miliardi di euro, prevalentemente frutto dell’evasione, ma che non sono reinvestiti nell’industria e i cui proventi per lo Stato non vanno al Tesoro bensì sui conti correnti di Palazzo Chigi, si aspetta, di elezione in elezione, la fine della legislatura.

Ma per i nuovi assetti globali nessuno aspetta l’Italia. Anzi l’immobilismo del governo è già una scelta di politica industriale che condanna alla marginalità il paese negli assetti globali futuri.

Mercoledì, 24. Marzo 2010
 

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