Un dibattito surreale sulla precarietà del lavoro

Il mercato del lavoro presenta nel nostro paese caratteristiche che lo rendono unico, in senso negatvo, tra i paesi dell’area OCSE. Ma il dibattito sulla precarietà appare del tutto surreale, come ha dimostrato la "provocazione" di Tremonti. E anche l'opposizione sembra guardare al passato
Vale la pena di ritornare ancora sulla sortita di Tremonti sul posto fisso. Può essere infatti un’occasione da non lasciar cadere, per tentare di riportare a contatto con la realtà un dibattito, quello sulla precarietà in Italia, che da qualche tempo si è andato spostando su una dimensione surreale.

Non sarebbe una novità, potremmo quasi dire di averci fatto l’abitudine, immersi come siamo nella disinformazione. L’assuefazione non è però consentita: se non si ristabilisce un minimo di aderenza ai fatti nessun discorso pubblico, nessun dibattito politico degno di questo nome può prendere piede e i problemi, sociali tanto quanto economici, restano fuori dalla portata della politica. Della politica in sé, prima ancora di dividersi tra opzioni di destra o di sinistra.

Il primo fatto da non perdere di vista in questo dibattito è che il mercato del lavoro nel nostro paese, presenta alcune caratteristiche che lo rendono unico, tra i paesi dell’area OCSE. Un ben triste primato: è quello che oppone maggiori barriere all’accesso e, insieme, quello che opera le maggiori discriminazioni, di genere, di età e territoriali. E’ il meno inclusivo: quattro persone su dieci in età lavorativa sono condannate a restarne fuori, o ai margini. Dopo qualche anno di progresso relativo, a cavallo del 2000, la situazione non è più migliorata e quest’anno è destinato di nuovo peggiorare a causa della crisi.

Se questo non bastasse, è anche fortemente discriminatorio: le barriere all’accesso non valgono per tutti allo stesso modo. Esclude le donne molto più degli uomini e i giovani più delle persone nelle fasce centrali di età. Di over 55 poi, ne espelle talmente tanti che ne restano a lavorare meno di tre su dieci (il rischio comincia già dai 45 anni). Esclude i meridionali in misura assai maggiore (quasi doppia) dei settentrionali. Insomma, una donna meridionale avanti con gli anni ha più del quadruplo di probabilità statistiche di restare fuori dal mercato del lavoro rispetto a un maschio settentrionale in età centrale. Un mercato del lavoro con queste caratteristiche, poco inclusivo e molto discriminatorio, è dunque assai iniquo nei meccanismi che ne regolano l’accesso. Ma, inevitabilmente, riproduce anche al suo interno le medesime discriminazioni, che si traducono in precarietà. Chi ha maggiori probabilità di restarne fuori ha anche minore potere contrattuale ed è più esposto a subire condizioni di lavoro peggiori.

Tutte le evidenze statistiche confermano che le cose stanno effettivamente così, proprio come è logico aspettarsi. Non solo, ma forniscono anche preziosi elementi di conoscenza riguardo ai meccanismi con cui avvengono i processi di marginalizzazione (o, se si preferisce, precarizzazione) selettiva e quindi discriminatoria. Nonostante questo, nel nostro paese il dibattito non verte sul modo più efficace di combattere emarginazione, discriminazione e precarietà, ma sulla loro stessa esistenza. Si comparano statistiche che non sono comparabili (come quelle sul contratto a termine “regolare”, o sul part-time), si trascurano del tutto fenomeni che non hanno riscontro in altri paesi (tipico, tra tutti, il fenomeno della cosiddetta parasubordinazione, per non parlare del sommerso) e, in definitiva, ci si arrampica sugli specchi per dimostrare che le cose non stanno poi tanto male. Si assemblano in base alle esigenze della propaganda frammenti di un mosaico che dovrebbe essere ricomposto in un modo ben diverso, che è poi quello con cui viene percepito (chissà come mai) dalle persone “normali”.

Eppure c’è una verità nuda e cruda che ci raccontano le statistiche, senza che si debbano andare a cercare dati particolarmente complicati: la quota di persone in età lavorativa con un posto fisso, o più precisamente con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, rilevato dalle statistiche ufficiali (dunque non in nero), è la più bassa di tutta l’Unione Europea: tre persone su dieci, contro una media europea superiore a quattro. Limitandoci al genere femminile, scendiamo a due su dieci.(contro una media superiore a tre). Significa che nel resto di Europa le donne in età lavorativa hanno il 50% di probabilità in più, rispetto alle italiane, di avere quel famoso posto fisso di cui si parla. Quel tipo di lavoro, tanto per rientrare nel mondo reale, che i documenti dell’Unione Europea (ben prima che se ne accorgesse Tremonti) definiscono come la forma di lavoro “standard”, o “normale”. Il lavoro dipendente a tempo indeterminato.

A confronto con questa realtà il dibattito sulla precarietà appare perciò surreale, testimonianza del livello primordiale a cui è regredito il discorso politico nel nostro paese, intriso di faziosità e di pregiudizi ideologici. Le lodi del posto fisso, in un paese che si allontana dall’Europa (anche) per questo aspetto – che dovrebbe rappresentare uno dei capisaldi, se ancora ne rimane qualcuno, di quel modello sociale che orgogliosamente si voleva proporre ad esempio al resto del mondo – è perciò soltanto uno sberleffo, l’ennesimo che i nostri giovani (e non più giovani) precari devono sopportare.

Riportare il discorso a contatto con la realtà condurrebbe a chiedere conto di che cosa si stia facendo per la difesa del posto fisso o comunque per tutelare qualità e dignità del lavoro dipendente. Qualcuno è in grado di dirlo? Ricorda un po’ lo sketch di Benigni su cosa ha fatto di buono il precedente governo Berlusconi: se allora era la patente a punti, non credo che il governo attuale potrà essere ricordato per gli ammortizzatori in deroga (succedaneo di una riforma che si è promesso solennemente di non fare).
 
Quanto al non aver toccato le pensioni, anche la difesa del sistema pensionistico vigente non appare molto più che uno spot se si considera che è stato il precedente governo Berlusconi a dare un colpo di piccone al sistema della riforma Dini, con l’introduzione dei gradoni. Ma si deve anche dire che è ormai una battaglia di pura retroguardia, se si guarda il problema alla luce di quel mercato del lavoro che abbiamo appena finito di descrivere. Per cominciare, più che allungare l’età pensionabile, si tratta di prolungare la vita lavorativa in un paese che ha il più basso tasso di occupazione del mondo (o giù di lì) negli ultimi dieci anni di vita lavorativa (28%). Ma la vera questione è la non sostenibilità sociale del nostro sistema pensionistico. Non è più consentito vantare il fatto, pur incontestabile, che con la riforma Dini è stato “messo in sicurezza” l’equilibrio economico anche nel lungo periodo, a differenza dei sistemi di altri grandi paesi europei. Il dramma sociale resta infatti irrisolto e consiste nel fatto che il sistema non garantisce, per la precarietà del lavoro, un tasso di sostituzione minimamente decente tra salario e pensione a una grande fetta, che col tempo sta crescendo inesorabilmente, di coloro che si affacciano nel mondo del lavoro (mentre continua a garantire sacche di privilegio intollerabili).

Su questi problemi si dovrebbero avanzare proposte, o anche solo aprire un confronto. Su questi si dovrebbe pronunciare il Ministro Tremonti. Del resto, se si trattasse di una reale inversione di rotta, occorrerebbe collegare il tema del contratto a tempo indeterminato a quello delle strategie di uscita dalla crisi, cosa che il Ministro non fa, preferendo discettare da filosofo morale sul potenziale conflitto tra l’etica della famiglia e l’ideologia della flessibilità. Sono invece le parti più dinamiche e più di lunghe vedute della stessa imprenditoria “globalizzata” (quella che ormai spazia geograficamente sui meridiani a 360 gradi) a proporre una nuova visione dell’impresa competitiva che investe sul capitale umano e perciò rifiuta di impostare le strategie sul breve periodo, sullo sfruttamento intensivo del lavoro e quindi sulla sua svalorizzazione. Chi investe davvero sta poi molto attento a non disperdere il bene su cui ha investito. E’ per questo che la precarietà, indotta dal modo in cui ci si è ubriacati negli ultimi anni di un’ideologia della flessibilità che era solo una copertura di una massiccia redistribuzione di redditi dai profitti ai salari, si sta rivelando oltre che un dramma sociale anche un fallimento economico.

Da parte dell’opposizione si dovrebbe chiedere conto del silenzio tombale sulle riforme che sarebbero necessarie per affrontare questi problemi (la precarietà dell’oggi e quella del domani), dagli ammortizzatori sociali universali a un sistema previdenziale socialmente equo e sostenibile, dall’investimento in conoscenza (la prima e più massiccia spesa federale decisa da Obama al suo insediamento) al sostegno ai settori del futuro (green economy, salute, mobilità sostenibile, comunicazioni). Tanto più se si ha di fronte un governo a cui, nel dibattito surreale in cui siamo immersi, la maggioranza del corpo elettorale sembrerebbe riconoscere una genuina volontà riformatrice.

Ma dal versante dell’opposizione non si vede molto di meglio. L’agenda della discussione è rivolta al passato, guarda a un mondo che non c’è più, scommette su chi è rimasto indietro, non dà risposte a chi patisce gli effetti delle scelte strategiche sbagliate. Gli ultimi temi affrontati sono stati: l’età della pensione per le donne, il diritto di sciopero nei trasporti, il contratto unico. Quest’ultimo è davvero il caso emblematico. Ci si inventa una formula (ancora una volta l’attenzione è rivolta alle tecnicalità giuridiche) allontanandosi dalla sostanza del problema. Invece di chiamare l’impresa a investire sul lavoro e sui saperi, le si offre (sottobanco, facendo finta di nulla) la tanto agognata abolizione dell’articolo 18 dello Statuto (che Giugni riposi in pace) in un momento in cui si perdono posti di lavoro come in autunno le foglie. Non solo, ma ci si dimentica che l’unico contratto a termine che avrebbe un senso ad inizio carriera è quello con un forte contenuto formativo. Quel contratto che, dopo l’abolizione dei contratti di formazione-lavoro e dopo la sostanziale “disapplicazione” dell’apprendistato, provocata dalla rabies ideologica con cui questo governo è andato allo scontro con regioni e sindacati, nel nostro paese è ridotto solo a un cumulo di macerie.

Insomma, se a destra non risuonano squilli di tromba, a sinistra non se ne riescono a udire molti di più.
Lunedì, 2. Novembre 2009
 

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