Un contratto unico più tutti gli altri

L'ipotesi rilanciata da Renzi è ancora molto vaga, ma a quanto si capisce quell'"unico" lascerebbe invece in vita quasi tutte le varie forme oggi in vigore. E non è questo il solo punto da chiarire. Quanto poi a stimolare nuova occupazione, il "Job act" rischia di essere tradotto come "fabbrica delle illusioni"
A parole tutti concordano sul fatto che il vero problema oggi consiste nel promuovere politiche dirette alla creazione di lavoro e non nel mettere mano a una ennesima e improduttiva riforma del mercato del lavoro. Ma poi sulle misure di job creation il discorso si fa complesso e di lunga lena perché occorre cimentarsi con progetti maledettamente seri e complicati: meno tasse su lavoro e imprese, sburocratizzazione, taglio di spese improduttive a favore di ricerca e innovazione, ridistribuzione dell’orario di lavoro, estensione di sostegni al reddito legati a politiche di formazione e inserimento attivo, radicale trasformazione dei centri pubblici dell’impiego ecc.ecc.

Sicchè risulta più facile, e di sicuro successo mediatico, rispolverare formule luccicanti come quella del contratto “unico” a tutele progressive: si viene assunti a tempo indeterminato, liberamente licenziabili (tranne il caso di discriminazione) salvo indennizzo, per ottenere solo in seguito la normale tutela contro i licenziamenti ingiustificati. La formula, per quanto un po’ logora, resta seduttiva, vuoi per l’aggettivo che l’accompagna vuoi perché trasforma ciò che resta del mitico art.18 da ingombrante residuato novecentesco in un modernissimo miraggio da raggiungere. In proposito andrebbe intanto definita la durata: si tratta di un anno, come di recente ha affermato Landini, nel qual caso saremmo di fronte in realtà a una sorta di allungamento del periodo di prova, o di un triennio, di modo che si dovrebbe allora parlare piuttosto di un nuova forma di contratto a tempo determinato,  potendosi di fatto equiparare la libertà di licenziamento a un termine più breve, occulto ed incerto. E a chi si rivolgerebbe il nuovo contratto, solo ai giovani al di sotto di una certa età, oppure a tutti i lavoratori, a partire da quanti hanno perso il lavoro a seguito di riduzioni di personale o cessazione di attività, di modo che il nuovo contratto non sarebbe più una forma di primo inserimento nel mercato del lavoro, ma un parallelo e strutturale circuito, con l’effetto di  creare un nuovo e odioso dualismo tra già occupati e neo-assunti.

Occorre inoltre specificare qualche ulteriore e non trascurabile dettaglio. In che senso il nuovo contratto sarebbe davvero “unico” o non semplicemente un  contratto in più da aggiungere alla congerie di contratti atipici e precari? A quanto si intende resterebbero quanto meno in vigore la somministrazione a tempo determinato e a tempo indeterminato (cosiddetto interinale), l’apprendistato, che non si capisce perché non riesca a decollare come forma normale di avviamento dei giovani, e il lavoro a tempo determinato: quest’ultimo andrebbe ovviamente regolato ex novo, tornando alla previsione tassativa di un numero limitato di casi alla stregua della disciplina introdotta nel lontano 1962, salvo svuotare di senso la nuova tipologia contrattuale.

Si dovrebbe anche dire che fine fanno il contratto di reinserimento, il lavoro intermittente, quello con voucher, il part time elasticizzato, e naturalmente le collaborazioni coordinate e continuative, il lavoro a progetto, le partite Iva: parlo naturalmente di quelle genuine, perché quelle false e fraudolente sono già oggi vietate dalla legge. Tutto questo essendo già ovvio che in ogni caso la nuova normativa non potrà applicarsi alle amministrazioni pubbliche, dove oggi alligna tra ministeri, scuola, sanità e enti locali una quota enorme di precariato a dispetto della regola della assunzione mediante concorso, e dove il blocco del turn over alimenta in larga parte il tasso elevato di disoccupazione intellettuale di cui tutti si lamentano. Da ultimo è necessario  un ulteriore chiarimento. Si dice che a quanti verrebbero assunti con il nuovo contratto senza poi ottenere la stabilizzazione verrebbe assicurato un circuito privilegiato di riavviamento al lavoro, sostenuto da una indennità di disoccupazione fino a due anni. Qui la domanda è: solo a loro? Che fine fa la declamata “universalizzazione” del sostegno al reddito?

Senza le ovvie specificazioni prima riassunte è evidente il rischio di alimentare una ennesima commedia degli equivoci e costruire l’ennesimo castello di carte. Si può anche dirlo in inglese, ma la realtà non cambia: in buon italiano si chiama fabbrica delle illusioni.

(Questo articolo è stato pubblicato anche su L'Unità)
Venerdì, 3. Gennaio 2014
 

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