Umberto e il cittadino lavoratore

Il ricordo di un uomo libero che ci ha ha sempre ricordato che i diritti non esistono solo sulla carta. Che i diritti vivono con la lotta e muoiono con la pacificazione sociale: che la stagione dei diritti dei lavoratori non è stata il frutto di una Costituzione illuminata, ma di un conflitto che l’ha fatta vivere

Questo articolo è stato pubblicato su La Fionda

Non voglio ricordare Umberto Romagnoli cultore del diritto del lavoro: a questo si dedicheranno innumerevoli scritti e iniziative, come si addice a un maestro della materia. Vorrei fissare invece il suo profilo di studioso e di accademico legato a doppio filo alla sua natura di uomo libero. Libero perché se era vicino ai lavoratori, molto più di quanto non lo siano molti sindacalisti, mai ha accettato di iscriversi al sindacato (anche se ha da sempre messo le sue conoscenze a disposizione di chi difendeva i lavoratori o tentava di farlo). Libero perché avrebbe potuto essere un avvocato di successo, ma ha sempre ritenuto che la professione forense non gli avrebbe consentito di dedicarsi anima e corpo alla ricerca e soprattutto di presentare i risultati delle sue ricerche come frutto di suoi intimi convincimenti (solo in gioventù ha dovuto dedicarsi ad altro e solo per arrivare a fine mese). E libero anche perché da giurista ha insegnato in una Facoltà di Scienze politiche: dove non ci si può nascondere dietro al dito del tecnicismo ottuso e si è obbligati a intrecciare la ricerca con le proprie idealità, a riconoscere la dimensione ideale del sapere.

In un mondo che odia la politica e dunque rifugge il conflitto, Umberto ha sempre ricordato che i diritti non esistono solo sulla carta. Che i diritti vivono con la lotta e muoiono con la pacificazione sociale: che la stagione dei diritti dei lavoratori non è stata il frutto di una Costituzione illuminata, ma di un conflitto che l’ha fatta vivere. Così come l’attuale notte dei diritti dei lavoratori è l’inevitabile conseguenza della neutralizzazione del conflitto: tanto da autorizzare la conclusione che il diritto del lavoro, in quanto diritto la cui ragione d’essere è la tutela dei lavoratori, è oramai morto e sepolto (di qui l’ironia di Umberto sul “diritto che dal lavoro ha preso il nome”).

Del resto i riscontri di una simile parabola sono tanti ed eloquenti: dalla gig economy al lavoro con voucher, passando per diavolerie come il welfare aziendale. Sono tutte trasformazioni rispetto alle quali il sindacato ha le sue colpe, che imporrebbero di rifondare il diritto del lavoro, per distinguerlo dal “diritto del contratto di lavoro” e renderlo il diritto capace di tutelare “il cittadino che si veste da produttore”. Era questa la preoccupazione dell’ultimo Romagnoli, che in questo modo puntava a salvare il fondamento del patto di cittadinanza che la Costituzione pone alla base dello stare insieme come società: quello per cui è come contropartita del lavoro che il cittadino “acquista il pacco standard di beni e servizi il cui possesso gli permette di essere o credersi un cittadino”.

Tutto ci fa credere che la scomparsa di Umberto sia il segno di una parabola che ci porta in una direzione opposta a quella da lui auspicata. La politica non mira a recuperare il lavoro come fondamento del patto di cittadinanza, del resto impensabile in una società fondata sul lavoro povero e nel contempo sull’odio per i poveri.

Umberto non era però solo un simbolo di idealità e di lotte, cui ha preso parte fino all’ultimo, dal momento che il suo pessimismo non si è mai trasformato in rassegnazione. Era anche una persona affettuosa, che mostrava interesse per le tue passioni ed empatia per le difficoltà che comporta restare se stessi. Ed era al tempo stesso una persona ferma nei suoi convincimenti, mai retorica e mai disposta a edulcorare un giudizio per compiacere l’uditorio. Sapeva dissentire con una fermezza e una passione che non ho mai visto in nessun altro, e questa era le sua qualità più dolce.

Domenica, 18. Dicembre 2022
 

SOCIAL

 

CONTATTI